TRUCIOLI SAVONESI
spazio di riflessione per Savona e dintorni
L’Etica ipotetica
Da dieci anni a questa parte
Questa malattia consiste in un tipo di mentalità, sempre più
diffuso, che insegna a “monetizzare” tutto, che spinge ad agire solo in
vista di fini e convenienze. Parlo della mentalità che ha portato
all’introduzione, nella nostra Scuola, di termini come credito e
debito, che ha trasformato i nostri alunni in ragionieri prima ancora
che in uomini e donne. Da circa dieci anni nemmeno più i ragazzi fanno
niente per niente. Ogni attività scolastica va seguita ed assorbita solo
“se serve”, solo se permette l’accumulo di quei famosi punti validi per
l’Esame di Stato e per la valutazione finale, che hanno trasformato
l’esperienza dell’apprendere e dell’insegnare in un continuo mercato del
comprare e del vendere. Mentre spiego, ogni giorno, i miei alunni mi
guardano fisso cercando di capire quali cose “servano” e quali no.
Pochissimi si entusiasmano affrontando un qualsiasi argomento; perché
l’entusiasmo non paga, non fa punteggio. Persino le attività che un
alunno svolge al pomeriggio, per conto proprio, sono state trasformate
in merce spendibile, utile a conseguire crediti formativi. Il
volontariato, l’apprendimento di un’arte, l’allenamento sportivo, tutto
fa credito, se adeguatamente “certificato”… Fino a che punto i nostri
giovani vivono queste esperienze con reale interesse? (e non parlo certo
dell’interesse bancario, senza dubbio più in linea con le nostre attuali
logiche didattiche: parlo della passione, della dedizione
disinteressata, fine a se stessa!). Fino a che punto sviluppano
“talenti” naturali per realizzare le proprie potenzialità? La maggior
parte, temo, si dedica solo a ciò che può servire a far punti, a ciò che
può fruttare, convenire. Anche lo svago, lo sfogo che noi ci concedevamo
quotidianamente dopo aver finito di studiare: anche questo è diventato
“utile”, “certificabile”, “spendibile”.
Abbiamo seguito la logica delle “esigenze del territorio”.
Nell’età dell’Autonomia scolastica ogni scuola deve rispondere alle
richieste delle aziende locali, della realtà lavorativa circostante.
Sacrosanto, certo. Ma chi si preoccupa più delle inclinazioni personali?
Chi si chiede più se i ragazzi che “orientiamo” verso le occupazioni più
disponibili, più rimunerate e più richieste, riescano poi realmente a
svolgere con passione un lavoro che magari non amano e per il quale non
sono nemmeno molto portati?
La questione non è di poco conto. Parlo di una società come la
nostra: disincantata, annoiata, delusa, infelice, che ha bisogno di
contare su dentisti o carrozzieri che lo facciano perché sono dentisti e
carrozzieri, perché se lo sentono dentro, perché hanno coltivato
l’interesse e la passione. Non perché “conviene”, non perché “serve”,
perché c’è posto. I dentisti che non sono dentisti lavorano male,
pensano solo al guadagno, sono infelici e rendono infelici i loro
clienti. I carrozzieri che non sono carrozzieri fanno lo stesso,
consegnano le automobili riparate magari solo in parte, mal verniciate,
soltanto per ricevere soldi.
In questo senso va considerata anche la questione del voto di
condotta, alla quale da anni mi dedico riflettendo e scrivendo. Se
reputo apprezzabile che il voto di condotta, finalmente, sia tornato a
contare qualcosa, se accolgo con soddisfazione il principio secondo cui
una condotta insufficiente possa finalmente pregiudicare - così come
accadeva un tempo - la promozione, non riesco però a non chiedermi:
com’è possibile giungere a questa sana decisione e, contemporaneamente,
stabilire che tale valutazione faccia media con gli altri voti? Com’è
possibile mischiare così due tipologie di giudizio tanto diverse?
Profitto e disciplina in un tutto unico!
Innanzitutto un provvedimento di questo tipo non può avere altra
conseguenza se non quella di alzare, pressoché in modo indifferenziato,
le medie dei voti di tutti gli alunni; un sei di condotta, infatti,
risulta difficilissimo da dare: sia per il retaggio che ancora ci
portiamo dietro e che ricorda ancora il sette come autentico veicolo di
bocciatura, sia perchè i parametri fissati sono oggettivamente tali da
impedire l’attribuzione di tale votazione se non in casi gravi.
Risultato: già il sette di condotta viene attribuito con grande fatica,
dopo ore di discussioni e liti tra colleghi, mentre a piene mani vengono
elargiti gli otto, i nove ed i dieci che improvvisamente impreziosiscono
le pagelle di tutti, più o meno somari, facendo gravitare i relativi
punteggi. E’ infatti indiscutibile, credo, che un otto di condotta sia
molto più facile da ottenere, piuttosto che un otto di latino o di
matematica.
Il problema, però, è essenzialmente un altro, ed è di una gravità
che reputo assoluta.
Stabilire che il voto di condotta faccia media con i voti di
profitto e contribuisca, quindi, ad incrementare il solito punteggio,
significa insegnare, l’ennesima volta, che anche comportarsi bene
“conviene”! Significa instillare nelle menti di questi giovani l’idea
secondo cui io mi comporto bene se “serve”, altrimenti evito!
Come dimenticare che siamo eredi di una tradizione
etico-filosofica che rivendica la purezza, l’aspetto totalmente
disinteressato dell’autentica azione morale? Se vogliamo restare fedeli
a questa idea e, soprattutto, se vogliamo educare questi ragazzi a
diventare uomini e donne, e non manichini nelle mani delle logiche di
mercato e del potere (ma questo, realmente lo vogliamo?), dobbiamo
tornare ad insegnare che ci si comporta bene perché bisogna comportarsi
bene; dobbiamo ritornare al principio della virtù morale in quanto bene
per sé, fine a se stesso e non condizionato da alcun secondo fine,
dobbiamo far leva sulla condizione essenziale del rispetto, per se
stessi, per i compagni, per i professori ed i genitori. E questo anche
solo per evitare di raccontare bugie ai nostri alunni. Quando mai,
infatti, al di fuori della scuola il comportamento retto paga? In quale
contesto mai la virtù “conviene”? Continuando ad insegnare che bisogna
essere giusti per una convenienza ci ritroviamo poi le città piene di
gente che, appena uscita dalla scuola, capisce che comportarsi bene non
conviene proprio per nulla. E quindi smette di farlo! Alimentare questi
principi deteriori porta alla realizzazione di una comunità biecamente
utilitarista, in cui - per dirla in termini kantiani - ogni imperativo
categorico viene, di fatto, sostituito da un corrispondente ipotetico;
faccio questo solo se posso ottenere quest’altro.
Se proprio un voto di condotta deve far media, perché non pensare
di farlo pesare su quello dell’anno dopo, così da indicare e richiedere
ai ragazzi una continuità nel loro agire correttamente? Perché non
pensare a correggere i comportamenti valutati con la sola sufficienza,
attraverso adeguati corsi estivi di educazione e rispetto del prossimo?
Si pensi all’umiliazione (ed al fastidio), del doversi ritrovare tra i
banchi di scuola a luglio per seguire un corso che spiega come
comportarsi bene, come rispettare gli altri. Si pensi al deterrente che
potrebbe rappresentare nei confronti di comportamenti indisciplinati.
Trovarsi obbligati, d’estate, a “recuperare in condotta”, così come
altri contemporaneamente fanno per colmare le proprie carenze in
matematica o in greco.
Gli errori educativi e formativi che stiamo commettendo, in
realtà, rientrano nell’orribile quadro di una Scuola, e quindi di una
Società, trasformate in un’accozzaglia di persone valutabili solo sulla
base degli “obiettivi” raggiunti. I miei alunni puntano solo agli
obiettivi quantificabili: puntano al fatidico punteggio finale; se ne
fregano dei mezzi per raggiungere il loro scopo. Io stesso vengo
costretto a passare buona parte dell’anno scolastico ad esplicitare i
miei “obiettivi didattici ed educativi quantificabili e misurabili”,
così da permettere a qualcun altro (anche ai ragazzi stessi), di
controllare se li raggiungo o no, magari al solo scopo di mettermi i
bastoni tra le ruote al momento giusto, quando “conviene”.
(“Competenze”, “conoscenze”, “capacità”, “saper essere”…La fiera delle
ipocrisie, dato che gli unici reali “obiettivi” che perseguiamo ed
insegniamo a perseguire sono quelli di una manciata di punti da spendere
alla fine del quinto anno!). Che scuola è questa? Una banca? Un istituto
di credito? Che coscienze “sforniamo”, noi ormai, da questa nostra
Istituzione? Possibile che dalle riflessioni machiavelliche, che tanto
onorano la nostra tradizione culturale filosofica e politica, siamo
stati in grado solo di assorbire concetti come la spregiudicatezza, la
determinazione a raggiungere un fine ad ogni costo, la giustificazioni
di qualsiasi nefanda azione in virtù dell’ottenimento e del
consolidamento del proprio potere sugli altri, ignorando ben più
preziosi valori come, ad esempio, quello di un’effettiva, e non solo
dichiarata, laicità dello Stato o quello della fiducia nelle
potenzialità dell’uomo?
Ma queste riflessioni restano lettera morta. Forse perché, tutto
sommato, questi ragazzi piacciono così come sono; forse perché, a suon
di debiti e crediti, da anni stiamo formando persone facilmente
comprabili. Persone vuote, senza passioni vere, gestibili, manipolabili.
Forse la logica dell’Autonomia tende a perseguire l’obiettivo
dell’annullamento di ogni pensiero autonomo, rispettando l’illogicità di
un paradosso ben poco involontario.
Esattamente come stanno abituandoci a pensare che la vera libertà
coincide con la sottomissione, che la vera pace si ottiene con la guerra
e che la menzogna rappresenta, per noi, l’unica verità possibile. |