SCENDERE NEL FUTURO
C’erano una volta due
continenti divisi da un vasto oceano, che non
aveva permesso che esigui scambi materiali e
umani tra le opposte sponde. Uno si chiamava
Futuria; l’altro Antiqua.
Futuria aveva
sperimentato un tumultuoso sviluppo industriale
e tecnologico; uno sviluppo in buona parte
autogeno, con ridotti scambi commerciali con
l’estero, in quanto ricco di materie prime.
Negli ultimi tempi, però, i giacimenti rendevano
sempre meno e a crescenti costi energetici e di
manodopera, i cui compensi, a seguito di
agitazioni sindacali, si adeguavano al continuo
miglioramento del tenore di vita, che però
doveva fare i conti con un degrado ambientale
sempre meno tollerabile. I movimenti
ambientalisti si moltiplicavano ed erano
riusciti ad ottenere leggi severe contro
l’inquinamento, aumentando ulteriormente i costi
di produzione delle merci, anche superflue, cui
nessuno intendeva più rinunciare. Per giunta, il
denaro circolante era di proprietà di una Banca
Centrale privata, che assorbiva l’intero valore
della produzione, com’era ormai evidente dai
pignoramenti dei beni dei cittadini non più in
grado di restituire i finti prestiti che le
banche ormai lesinavano, per arginare le diffuse
sofferenze.
Antiqua era invece un
continente prevalentemente agricolo, dedito in
buona parte al baratto. Le campagne producevano
derrate alimentari in abbondanza e solo una
minima frazione della popolazione viveva nelle
città, di dimensioni a misura d’uomo, e non di
macchina come in Futuria. I rari viaggiatori
provenienti da quest’ultimo continente
raccontavano storie mirabolanti sulla loro
civiltà, lasciando a bocca aperta gli ingenui
agricoltori di Antiqua. Questi cominciarono a
premere sul governo -peraltro unico ente
autorizzato ad emettere il denaro corrispondente
ai modesti e reali scambi di merci e servizi-
affinché si “modernizzasse” e togliesse dalle
loro spalle il peso della fatica che la
coltivazione della terra e delle miniere
comportava. La richiesta di cambiamento era
diventata tale che il governo stava pensando ad
un abboccamento con la sua controparte in
Futuria al fine di trovare un accordo in grado
di soddisfare gli aneliti popolari.
In questo clima due
delegazioni si incontrarono su un’isola neutrale
al centro dell’oceano, per tentare di addivenire
ad una soluzione che risolvesse i problemi delle
rispettive popolazioni.
Futuria propose di
trasferire le sue industrie a maggior impatto
ambientale, non più tollerate in patria, sul
suolo di Antiqua, trasferendovi una grossa fetta
della manodopera agricola a salari che
consentissero ai neo-operai un tenore di vita
non troppo diverso da quello delle campagne, con
la promessa però di futuri miglioramenti; forse,
chissà, pure un’automobile. Futuria aveva
imposto, per procedere alla delocalizzazione
delle proprie industrie e mantenere bassi i
costi di produzione, che esse fossero esenti da
vincoli ambientali e che si reprimesse sul
nascere, col pugno di ferro, il sorgere di
eventuali organizzazioni sindacali. Le materie
prime, ovviamente, dovevano essere reperite in
loco a prezzi irrisori, dovuti al fatto che non
ne era stata estratta che una minima parte.
Ultima clausola: in
compenso per questo “paradiso industriale”,
Antiqua si impegnava a fabbricare in massima
parte merci da esportare a Futuria; merci
infatti non assorbili da un mercato locale che,
abituato da secoli di duro lavoro agricolo a
spendere il minimo indispensabile, era restio a
lasciarsi lusingare da articoli non strettamente
necessari. Futuria avrebbe pagato le merci in
talleri, sua valuta imposta al resto del mondo
con la forza delle armi, in quanto non garantita
da alcun bene concreto e per giunta emessa da
una conventicola di banchieri privati che, senza
palesi colpi di stato, se n’erano con ciò
impossessati. Questo fatto, pur basilare, non fu
tuttavia rivelato al governo di Antiqua (come
non era noto, d’altronde, agli stessi cittadini
di Futuria), che dava per scontato che anche a
Futuria vigesse l’ovvia condizione che il denaro
per il pubblico uso fosse pubblico e regolato
dallo Stato, e non da banche private.
Affare fatto. Sulle
prime vissero tutti felici e contenti, come
nelle favole. Futuria era compiaciuta di aver
promosso un’orgia consumistica con valanghe di
merci, anche inutili, a prezzi stracciati,
pagati con valuta cartacea stampata a rotta di
collo dalle rotative private; per giunta, si
erano potute varare leggi antinquinamento sempre
più rigide, migliorando l’ambiente in patria (di
pari passo al peggioramento in Antiqua). L’unica
cosa che sembrava essersi messa di traverso era
il numero crescente di disoccupati e il calo dei
salari, con i sindacati privati di ogni forza
contrattuale, proprio per la rarefazione della
domanda di lavoro, dopo il trasferimento su
Antiqua di molte attività produttive (tranne
l’industria delle armi!).
Anche sull’altro lato
dell’oceano, dopo i primi entusiasmi, gli ex
contadini cominciavano a tumultuare per il
progressivo crollo delle condizioni di lavoro e
di vita in quartieri suburbani degradati. Ma
anche lo stesso governo era ogni giorno più
inquieto per l’accumularsi del proprio credito
verso Futuria; un credito racchiuso in una
montagna di carta che diminuiva di valore quanto
più cresceva. A completare l’opera, la crescente
disoccupazione di Futuria e il conseguente minor
reddito medio faceva calare le esportazioni di
merci da Antiqua, che vide chiudere a ritmi
impensabili un gran numero di fabbriche e
piccole attività nate e cresciute all’ombra
delle grandi realizzazioni promosse da Futuria.
File di neo-operai dovettero gettare la tuta e
tornare ai propri campi, per trovarli spesso
inquinati dal disordine ecologico permesso dal
governo e/o privi di acqua, imbrigliata in
colossali dighe idro-elettriche o risucchiata
dai grandi agglomerati industriali e poi resa ai
corsi di origine altamente tossica. Stava
affondando il mito dell’agricoltura industriale,
che trascinava con sé anche quella tradizionale,
avvelenata dalle fabbriche deregolate. Lo Stato
si ritrovò con un pugno di mosche, essendosi
accorto troppo tardi che la superiorità del
creditore rispetto al debitore vale fino a una
certa soglia, oltre la quale le posizioni si
invertono e il credito non può essere riscosso
se non a costo di perdere tutto. Antiqua si
accorse di essersi legata a doppio filo a
Futuria, dopo averle sacrificato la propria
forza-lavoro e il proprio territorio. I corni
del dilemma erano ormai questi: rovesciare sul
mercato trilioni di talleri, causando la
bancarotta di Futuria, e la propria; ovvero
dimenticare i talleri e stampare la propria
moneta, già pubblica, in proporzione alla
produzione di beni, non più mirati
all’esportazione, ma al consumo interno. Tanto
meglio se sobrio: ne avrebbero guadagnato
l’ambiente, le campagne, i contadini di ritorno.
Ma una grossa
incognita restava tuttora irrisolta oltre
oceano: una Futuria ormai povera di materie
prime, piena di disoccupati e con una valuta
inaffidabile, non avrebbe ceduto alla tentazione
di aggredire Antiqua per depredarla di ciò che
le mancava, puntando sulla propria superiorità
tecnologica e militare? I suoi banchieri
privati, inoltre, non potevano tollerare una
situazione di deprezzamento del denaro che
producevano a costo zero, né che ad Antiqua il
denaro fosse emesso, e quindi garantito, dallo
Stato, in ragione della ricchezza nazionale
reale, svalutando per confronto il tallero. Un
esempio troppo stridente e pericoloso.
D’altronde, Futuria non aveva sempre risolto con
la minaccia o addirittura l’impiego di portaerei
e bombardieri ogni sua decisione penalizzante
per il resto del mondo? Forse che qualcuno aveva
osato fiatare quando aveva imposto l’equivalenza
del tallero all’oro obbligando tutti a riferirsi
al primo come fosse oro colato in tutte le
transazioni internazionali? E qualcuno aveva mai
sparato anche un solo colpo quando, anni dopo,
venuta alla luce la scopertura aurea del
tallero, aveva ciononostante preteso che il
primo mantenesse lo status di valuta di riserva,
e cioè che si prestasse fede ad una ormai palese
finzione?
Fuor di metafora,
oggi siamo a questo punto, con Cina-Antiqua il
cui yuan è emesso e garantito dallo Stato grazie
al lavoro di tutti, e quindi pubblico e libero
da interesse; e di converso con Futuria-USA
vittima di una cricca di banchieri privati,
usurpatori dello Stato americano tramite la Federal Reserve,*
che batte moneta con criteri arbitrari e a
proprio esclusivo profitto, e che è ovviamente
contraria alle richieste cinesi di addivenire ad
una moneta di riferimento legata ad un paniere
delle principali monete mondiali, in
sostituzione del dollaro.
Un ultimo punto: la
moneta unica globale è l’obiettivo ultimo dei
banchieri privati transnazionali, perlopiù
giudaici, che però ne vorrebbero regolare senza
interferenze esterne l’emissione attraverso
l’IMF da loro controllato, arrivando così di
fatto al dominio assoluto del mondo. La Cina è oggi un baluardo contro
queste mire, e credo che il ricorso, pur da essa
perorato come primo obiettivo, agli SDR (Diritti
Speciali di Prelievo) di matrice IMF, non giochi
a loro, né nostro, favore. Questo baluardo
monetario pubblico cinese contro i giganti
mondiali del credito privato mi ricorda tanto
l’analoga situazione creatasi negli anni ’30 in
Germania e Giappone, che ebbero la forza di
respingere quei giganti e stamparsi la propria
moneta, con una prosperità economica solo
sognata sino a pochi anni addietro. Spero solo
che l’esito di questo scontro tra titani non
prenda la stessa tragica piega di allora.
* Situazione
pressoché speculare a quella europea, dove
domina la BCE, parimenti privata e posta al di sopra degli
Stati dell’area euro.
Marco Giacinto
Pellifroni
7 giugno 2009
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