TRUCIOLI SAVONESI spazio di riflessione per Savona e dintorni
L’ITALIA: PARADISO O PURGATORIO FISCALE?
L’esito più notevole, insperato ed
immediato del G20 è stato senza dubbio la decisa condanna dei paradisi
fiscali e addirittura il loro elenco puntuale, con una zona nera includente
quelli più remoti e famigerati ed una grigia in cui spiccano, per la loro
novità, paesi come il Belgio e l’Austria, cui si appioppa lo stesso “rating”
di altre ben più note contrade, come
E l’Italia? Che sia o no un
paradiso fiscale dipende da cosa si intende col termine. Gli italiani
possono esser suddivisi sotto questo profilo in due categorie: quelli che
guadagnano troppo e quelli che guadagnano appena per campare. Per i primi
l’Italia è un paradiso in quanto riescono ad occultare buona parte dei loro
proventi, ma devono cercare un altro paradiso dove depositarli con un carico
fiscale irrisorio. Per i secondi, l’Italia è un calvario, o, se si
preferisce, un purgatorio, in quanto le maglie del fisco, larghe coi pesci
grossi, diventano strettissime con quelli piccoli, come la miriade di
partite Iva.
Il punto è che, per i politici e
il fisco nostrani, queste due categorie ben distinte vengono messe sotto la
stessa insegna di evasori fiscali. Il fisco in sostanza si comporta come gli
enti pubblici di ogni ordine e grado, che preferiscono multare le infrazioni
più facili da comminare e più rapide da incassare (vedi le contravvenzioni
per divieto di sosta o gli autovelox); in ambo i casi fidando
sull’impossibilità di rispettare regole irrealistiche ed anzi fatte apposta
per essere violate e quindi sanzionate. Chi detiene le leve del potere tutto
questo lo sa, ma continua a battere la grancassa dell’evasione fiscale,
bollando di evasori sia la prima che la seconda categoria, ed anzi
accanendosi maggiormente proprio sulla seconda, per l’estrema facilità di
far pesca facile, rapida ed abbondante.
Propongo quindi per l’Italia una
duplice etichetta fiscale: di paradiso, per la categoria degli esportatori
di capitali, grazie alle maglie larghe dei controlli; di purgatorio per la
seconda, che include pensionati, lavoratori dipendenti e autonomi, ossia la
stragrande maggioranza, quella dei 18.000 euro l’anno di reddito medio. E
nessuno brontoli per averci incluso gli autonomi, denunciando che spesso i
titolari guadagnano meno dei dipendenti: specie di questi tempi, credo sia
pressoché la regola.
Tornando al G20, potrebbe sembrare
incongruente che l’ardore congiunto franco-tedesco contro i paradisi abbia
trovato negli USA un tiepido sostenitore. Ciò in quanto è noto non solo il
pressing della Merkel su Liechtenstein e Lussemburgo (in pratica banche al
governo, come Montecarlo e Sanmarino) perché rendano noti i loro depositanti
tedeschi, ma anche quello del fisco americano sulla Svizzera perché gli
consegni la lista dei conti correnti dei suoi più pingui cittadini.
A questo proposito, penso sia
utile riprendere le considerazioni da me svolte su queste pagine qualche
mese fa, all’epoca dell’elezione di Barack Obama a presidente. Allora facevo
notare che i migliori propositi, anche se sinceri, del neo-eletto avrebbero
dovuto fare i conti con i suoi grandi elettori, ossia i poteri forti di Wall
Street; perché non era minimamente pensabile che un oscuro senatore
dell’Illinois potesse affrontare in prima persona i costi astronomici di
mesi di primarie (contro Hillary Clinton) e poi di campagna elettorale
contro il candidato repubblicano, senza l’apporto concreto di un ingente
flusso di fondi da personaggi non certo noti per la loro magnanimità
disinteressata: lo scandalo dei bonus non ha fatto che confermare l’avidità
dei grandi capi della finanza e il disprezzo per qualsiasi ideale che non
sia la vil moneta. Il loro appoggio ad Obama non poteva quindi che essere
condizionato.
E Obama avrà dovuto firmare un
patto ben chiaro, che non verrà mai direttamente alla luce, ma che si potrà
decifrare in base alle mosse del suo firmatario, o meglio in base alle
restrizioni che tali mosse subiranno. Voglio in tale quadro riportare quanto
ha scritto il 2 aprile scorso Marco Sarli, capo ufficio studi dell’UILCA,
nel suo “Diario della crisi finanziaria” (1), che egli tiene quotidianamente
sin dal suo inizio, il 9 agosto 2007.
< …quella ancora insondabile
road map statunitense che cerca di
salvare capra e cavoli, in base al mandato che i veri poteri forti d’Oltreatlantico
hanno imposto al giovane e ambizioso avvocato di Chicago, in cambio del via
libera al suo ingresso alla Casa Bianca. >
Sempre all’epoca dell’ascesa al
soglio presidenziale di Obama, indicavo nell’assegnazione del Ministero del
Tesoro a Timothy Geithner, ex governatore della
Fed di New York (oltre ad altri
“mastini”) il chiaro intento di circondare il presidente di uomini di
fiducia di quei circoli finanziari il cui cuore era rappresentato dalle
varie investment banks, che la
tempesta perfetta ha poi finito col trasformare in banche commerciali, anche
se ritengo perderanno il pelo ma non il vizio di continuare a fare opera di
pirateria finanziaria a spasso per il mondo, con l’Italia tra i più ambiti
territori di caccia (in primis di Goldman-Sachs, che ha trasformato Gianni
Letta, consigliere di fiducia di Berlusconi, in suo “consulente”, con
operazione analoga a quella dei fiduciari di Wall Street attorno ad Obama:
anche Berlusconi non dovrà “dispiacere” a Wall Street; né penso che la cosa
gli tolga il sonno).
Prosegue Marco Sarli: < …se non vi
fosse un simile mandato da parte di quel che conta a Wall Street e dintorni,
non si capirebbe proprio il motivo della nomina al dicastero del Tesoro e
della successiva e ripetuta difesa a spada tratta di quel Timothy Geithner
che con Obama divide solo la relativamente giovane età (…) È proprio del
tutto evidente che, senza la stipula di un simile patto, il pur bravissimo
Obama non avrebbe vinto neanche le primarie. (…) Il patto che, a seconda dei
punti di vista, può essere considerato più o meno scellerato, consiste nel
tentativo di salvare il salvabile di quel che conta nel sistema finanziario
americano in base ai seguenti punti fondamentali: 1) l’assenza di un vero
accertamento, per via giudiziaria, delle pur gravi responsabilità dei
vertici aziendali [in carcere è
infatti finito solo Madoff, in quanto eclatante truffatore, NdR]; 2) il
pagamento a piè di lista del salatissimo conto, senza pretendere di
comandare, via nazionalizzazione più o meno dichiarata; 3) la piena
collaborazione, sempre a spese del contribuente, all’altrettanto costoso
processo di concentrazione di larga parte del sistema creditizio a stelle e
strisce nelle sei entità al momento sopravvissute a quel durissimo processo
di selezione, molto teleguidata, che ha lasciato in vita, appunto, Goldman
Sachs, Morgan Stanley, Citigroup, Bank of America, J.P. Morgan-Chase e Wells
Fargo… >
Alla luce di tutto questo, destano
fondate perplessità le ovazioni che circondano Obama nei ripetuti bagni di
folla. E forse dimostrano di aver capito molto di più ciò che sta dietro
alle belle dichiarazioni i manifestanti contro le ormai settimanali riunioni
di personalità politiche e finanziarie in vari luoghi del mondo. I no-global
hanno intuito molto meglio del popolo televisivo che chi deve comunque farla
franca sono i grandi banchieri, che se la squagliano senza condanne penali
ed anzi con buonuscite milionarie, per poi riapparire di qui a breve, ne
sono certo, con la fedina penale intatta, a provocare chissà quali nuovi
danni alla gente che lavora e risparmia onestamente.
Ne discende che la strategia di
Obama deve essere ondivaga: osa licenziare Wagoner, grande capo della
General Motors, designato come agnello sacrificale, ma risparmia i
banchieri. E non stento a credere che il discorso sui paradisi fiscali sia
stato il principale ostacolo che ha minacciato di far saltare il comunicato
congiunto del G20. Di certo non lo vuole Wall Street. E neanche Bankitalia,
che tiene conti aperti alle Cayman. Il libro “O
Ma, a prescindere dalla reale
volontà di mettere in atto il lodevole proposito di delegittimare i vari
staterelli canaglia, prendiamo per buono il comunicato finale che li bolla
d’infamia e li condanna alla sparizione. Questo però significa che tutti gli
anatemi scagliati per anni contro il movimento no-global dalla politica
ufficiale erano fraudolenti e la ragione stava proprio dalla parte che si
puntava a criminalizzare. Il che getta una ulteriore luce sinistra sui
misfatti al G8 di Genova (3), quando sembrava che la globalizzazione fosse
la soluzione di ogni nostro e altrui problema.
E adesso? Appurato che l’Italia
non è nella lista dei paradisi fiscali, tant’è vero che i soldi di qui
scappano e nessuno si sogna di portarceli, la smetteranno i nostri politici
e gli uffici esattoriali di parlare di evasione fiscale riferendosi ai
cittadini che si sudano quattro palanche, mettendosi invece di buona lena a
cercarli nei porticcioli, nel PRA denso di auto di lusso e SUV, nelle ville
dei big, nelle abitazioni fuori catasto, ecc. ecc.? Faranno un po’ più di
fatica, ma sarà ampiamente ricompensata, anche dalla riconoscenza di coloro
che sgobbano per arrivare a fine mese e che vedrebbero sgravate di almeno la
metà le loro cartelle.
Ultima nota: i condoni fiscali.
Stante la pratica sin qui seguita e sopra esposta, ritengo siano
indispensabili per rimettere la gente “normale” in carreggiata. L’ultimo
condono, a dispetto di tanti fulmini dei benpensanti, ha salvato
innumerevoli persone dal fallimento e dalla disperazione. Una volta entrati
nel nuovo regime, e solo allora, i condoni, oggi una necessità,
diventerebbero una pratica iniqua e da bandire.
(1) Vedi:
http://diariodellacrisi.blogspot.com/
(2)
Marco Saba, settembre 2008, Arianna Editrice
(3)
Gloria Bardi, Dossier Genova G8, 2008, Becco Giallo Ed.
Marco Giacinto Pellifroni
5 aprile 2009
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