TRUCIOLI SAVONESI
spazio di riflessione per Savona e dintorni
Sul
finire degli anni ’70 Lester Brown pubblicò un libro dal titolo “Il 29°
giorno”. Parlava di una ninfea che ricopriva la superficie di uno stagno
raddoppiandosi ogni giorno. Arrivata al 29° giorno, le bastava un solo
giorno per ricoprire l’intero stagno, ossia l’opera di ricopertura svolta in
tutti i 29 giorni precedenti. Chi avesse guardato la scena quel penultimo
giorno avrebbe pensato che c’era ancora parecchio spazio, e quindi tempo,
per correre ai ripari. Secondo Brown, l’umanità era prossima al suo 29°
giorno, ma pensava di avere molto più tempo per porre riparo ai guasti
ambientali di quanto in realtà ne avesse. Forse Brown si sbagliava di uno o
due giorni; e oggi, trent’anni dopo, ci siamo ulteriormente avvicinati al
fatidico ultimo giorno, ma continuiamo a idolatrare la crescita, ossia il
meccanismo che ci porterebbe ancor più spediti verso quella fatidica data.
Alla luce
di quanto sopra, dovremmo interpretare come una salutare correzione
l’apposizione del segno meno di fronte al PIL, dopo decenni di ininterrotto
segno più. Una correzione che nessuno ha avuto mai il coraggio di decidere,
in quanto non si è fatto che stimolare una produzione che, per non crollare,
deve continuamente espandersi. Questa è la stessa logica perversa che spinge
i regimi guerreschi a incalzanti conquiste territoriali, alla ricerca di
materie prime atte a permettere produzioni col costante segno più. Si
vagheggia una crescita infinita in un mondo finito, con risorse finite e
capacità finite di accogliere i nostri crescenti rifiuti. Siamo così
passati dalla fame per scarsità alla fame per sovrapproduzione.
Il
paradosso è talmente elementare che non si capisce come la razza umana, che
ama distinguersi da quella animale e vegetale per il possesso della ragione,
se ne riveli ben inferiore. Animali e piante seguono le leggi naturali, che
non vietano l’espandersi di questa o quella specie, ma soltanto in un
dinamico, regolato equilibrio con le altre popolazioni viventi. Noi invece
abbiamo denaturato il nostro rapporto con l’ambiente, trasformato in
fabbrica. Il che significa aver sostituito a tempi e modi di produzione
limitati dalla cadenza umana quelli di macchine e impianti, progettati per
produrre sempre più merci in un tempo sempre minore. Questo processo non
trova riscontro in natura (o, laddove si instaura, come nei fenomeni di
eutrofizzazione, degenera in scenari di morte) e ci ha condannati a dover
cercare freneticamente sempre nuovi sbocchi per una quantità di “beni”
sproporzionati ai nostri bisogni, secondo questi schemi:
a)
inducendo nei Paesi consumatori nuovi e innaturali bisogni, attraverso
condizionamenti comportamentali e culturali dettati da un incessante
martellamento pubblicitario: per usare le parole di Massimo Cacciari,
“spostando la domanda dai beni di grande utilità ai beni di grande futilità”
(Pensare la decrescita, CantieriCarta, 2006);
b)
facilitando il ricorso al credito al consumo per farvi accedere fasce sempre
più larghe di cittadini, trasformandoli in perenni debitori,
consumo-dipendenti;
c)
fabbricando merci a obsolescenza programmata, intensificando la pratica
dell’usa e getta, incoraggiata da ritmiche “rottamazioni”;
d)
dettando mode variabili in tempi sempre più ristretti;
e)
rendendo antieconomiche le riparazioni di oggetti riutilizzabili;
f)
cercando oltre confine nuovi spazi di smercio delle eccedenze, nonché
lavoratori semi-schiavi, sconvolgendo culture millenarie e devastando sempre
maggiori porzioni del pianeta.
Sviluppo
è parola del mondo organico, ma viene usata spesso come sinonimo di
crescita. La crescita non ammette limiti, lo sviluppo sì. Lo sviluppo
organico, dopo uno stadio di accelerazione, entra in una fase di maturità, a
velocità costante, e poi decelera verso il declino. Questa legge, che vale
per le nostre singole vite, non dovrebbe invece applicarsi all’insieme degli
esseri umani, cui sarebbe consentito di moltiplicarsi senza sosta, con
l’aggravante di un loro crescente
ecological footprint (impatto pro-capite sull’ambiente espresso in
ettari di territorio necessari al sostentamento e assorbimento delle scorie
di ogni singolo individuo).
Ivan
Illich ricorreva a un bell’esempio per indicare la saggezza dello sviluppo
naturale in confronto alla follia della crescita senza limiti: la lumaca. La
crescita delle spirali del guscio avviene agli inizi in proporzione
geometrica, finché a un certo punto la crescita rallenta, diventa cioè
negativa, e procede in proporzione aritmetica, impedendo la creazione di un
guscio troppo grosso e pesante per la futura esistenza della lumaca.
Orbene,
assimilando al guscio della lumaca gli incrementi del PIL, la sua recente
inversione di tendenza dovrebbe rappresentare per il mondo intero
l’occasione propizia per fare finalmente quello che nessuno ha osato fare
finora, gli industriali per generare profitti crescenti e i politici per non
perdere voti e giocarsi la rielezione (la disgrazia peggiore dopo aver
assaporato il nirvana dei nullafacenti), e cioè: diminuire e convertire
la produzione, ridare impulso all’abilità manuale e suddividere il lavoro
tra tutti, senza licenziare nessuno.
Il dogma
finora imperante, e quotidianamente rimpianto dagli schermi TV, è stato ed è
l’aumento della produttività. Il che significa produrre la stessa
quantità di merci con meno addetti, o peggio, produrne di più con sempre
meno addetti. Come si concili questo indirizzo con la pretesa di mantenere
una stabile o addirittura crescente occupazione rimane un enigma volutamente
insoluto. In effetti, gli sviluppi della tecnologia hanno aumentato
enormemente la produttività, ma i proventi non sono andati che in minima
parte ai lavoratori, restando congelati come profitti nelle tasche dei
datori di lavoro. (*) Almeno una parte
non trascurabile avrebbe dovuto tradursi in una riduzione generalizzata
dell’orario di lavoro. Ma questa è una bestemmia per la società lavoristica,
perno del capitalismo, la cui avidità di profitti erige il lavoro a novella
divinità (**). Il paradosso è che le
macchine, che avrebbero dovuto ridurre le ore lavorative, le hanno invece
aumentate (***); per cui, moltiplicando
la maggior quantità di merci prodotte per il maggior numero di ore impiegate
si ottiene, come già accennato, sovrapproduzione, disoccupazione e fame.
I mezzi
adottati dal capitalismo per raggiungere la massimizzazione dei profitti
sono stati: il taglio all’osso dei costi e l’espansione costante dei
consumi. Ho già fatto più sopra un elenco dei metodi adottati per
intensificare il consumismo di massa. Il taglio all’osso dei costi si
ottiene principalmente attraverso:
a) la
standardizzazione dei prodotti, avvilendo l’artigianato e la manualità
(essenziali per il ripristino d’uso di prodotti ricuperabili, ma nemici
mortali dell’uso e getta);
b)
esternalizzando le passività, ossia scaricando nell’ambiente, inquinandolo,
gli scarti di lavorazione;
c)
delocalizzando le attività produttive in Paesi a bassa o nulla attenzione
per i diritti umani e sindacali;
d)
perorando la promulgazione di leggi che consentano flessibilità e precarietà
del lavoro;
e)
ricorrendo in alcuni settori al reclutamento di manodopera illegale,
sottopagata e priva di tutele sia salariali che di sicurezza sul lavoro.
Possiamo
sintetizzare quanto sopra affermando, senza tema di smentita, che il
“progresso” degli ultimi decenni è avvenuto a spese della natura e dei
lavoratori (nonché degli stessi, anche dopo il pensionamento, con
l’inflazione che taglia anno per anno il loro potere d’acquisto).
Circa le
misure che i vari governi stanno mettendo in atto, esse sono tutte ancorate
al sostenimento della produzione per mantenere i posti di lavoro. Non si
vuole prendere atto che gli impianti sono sovradimensionati e a bassa
intensità di manodopera. Tentare di combattere la disoccupazione mantenendo
gli attuali volumi produttivi e l’esiguo numero di addetti significa non
voler cambiare il sistema che sta portandoci verso il disastro sociale e
ambientale. Se la gente ha dato chiari segni di non necessitare del volume
di merci sin qui riversato sul mercato, che senso ha insistere in questa
sovrapproduzione, solo “per dare lavoro”? La logica tuttora vigente vorrebbe
che, se il prezzo delle case è crollato in quanto la gente non aveva la
possibilità di acquistarle e sono finite all’asta, per mantenere
l’occupazione nell’edilizia bisognerebbe dare incentivi all’industria edile
per produrre nuove case, anche se sarebbero senza acquirenti. Analogo
discorso vale per gli incentivi all’industria dell’auto, degli
elettrodomestici, ecc.; né si vede quale settore e perché dovrebbe rimanerne
escluso, visto che tutti “danno lavoro”. Dovremmo, in sostanza, buttar via
apparati ancora funzionanti, trasformandoli precocemente in rifiuti, solo
per creare occupazione, senza nessuna reale utilità. Non equivale ciò alla
barzelletta keynesiana di scavare
delle buche per poi riempirle nuovamente?
Dovremmo
avere imparato che è una fata morgana quella di un progresso basato su merci
a bassi prezzi grazie al saccheggio delle risorse naturali, al riversamento
nell’ambiente degli scarti e ad impianti ciclopici per una falsa economia di
scala, che privilegia solo le tasche dei proprietari dei mezzi di
produzione, a scapito di tutti gli altri, cui si riservano solo misere
briciole di presunto benessere. L’accentramento produttivo si è rivelato un
distruttore di posti di lavoro, un trionfo dei monopoli su una sana
concorrenza, nonché uno spreco di risorse per il trasporto merci su distanze
sempre maggiori.
Uno dei
primi settori sui quali puntare per una virtuosa decrescita è proprio quello
dei trasporti, mediante le produzioni locali e il privilegio da
riservare ai trasporti marittimi e su rotaia, anziché su gomma. Altro
settore da scoraggiare è quello dei mille imballaggi per qualsiasi
prodotto, incentivando la vendita di sostanze sfuse. Infine, va
ridimensionato l’abbaglio della pubblicità, che punta ad una
moltiplicazione indiscriminata dei consumi superflui.
Ridurre
il volume di questi tre settori equivale a ridurre il consumo di materie
prime ed energetiche. Certo, si ridurrebbe anche il PIL. E allora? Il calo
del PIL è virtuoso finché corrisponde alla decrescita di beni drogati dalla
pubblicità consumistica; diventa un nemico se varca la soglia dei bisogni
primari. Solo per questi hanno un senso gli ammortizzatori sociali, già sin
d’ora, per quanti sono stati o saranno sospinti nell’indigenza dall’avidità
dei cultori della crescita.
(*) “In Francia nell’arco di due secoli la
produttività oraria del lavoro è aumentata di 30 volte, la durata del lavoro
individuale si è ridotta soltanto di ½ e l’occupazione è aumentata soltanto
di 1,75 volte, mentre la produzione è aumentata di 26 volte. Si tratta di
ribaltare le priorità: dividere il lavoro e aumentare il tempo libero.”
Serge Latouche,
Breve trattato sulla decrescita
serena. Bollati Boringhieri 2007.
(**) V. la critica del lavorismo in
Il diritto all’ozio di Paul
Lafargue, 1887.
(***)
Rimando chi nutrisse dubbi al riguardo a
Marshall Sahlins: “I nostri antenati dell’età della pietra si accontentavano
di tre o quattro ore di ‘lavoro’ al giorno per assicurare la sussistenza del
gruppo.” Economia dell’età della
pietra, Bompiani 1980. Senza andare così a ritroso nel tempo: “Mille ore
all’anno erano la norma fino all’inizio del XVIII secolo, che fanno una
media di circa 20 ore la settimana.” André Gorz,
Capitalismo, socialismo, ecologia,
Manifestolibri 1992.
Marco
Giacinto Pellifroni
22 febbraio 2009
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