TRUCIOLI SAVONESI
spazio di riflessione per Savona e dintorni
L’OPINIONE/ Il voto alle Europee ed il tetto del 4 % cosa rappresentano
a sinistra
Potere di “nomina” e di “spesa”
La catastrofica stagione referendaria
Cronistoria ragionata dall’Assemblea Costituente ad oggi tra i partiti
di massa e non
di
Franco Astengo
Savona -
I componenti della Camera dei Deputati, più o meno all'unanimità, hanno
attuato, con la votazione del 3 Febbraio 2008, sulla riforma delle legge
elettorale per le elezioni dei rappresentanti dell'Italia al Parlamento
Europeo, una vera e propria stretta iugulatoria nei confronti di quanti
intendessero, a questo punto, entrare nel loro ristretto “club”.
Si tratta di
un atto politico importante che mette un punto (non definitivo, ovviamente,
ma importante) nella trasformazione del nostro sistema politico avviata,
attraverso una lunghissima fase di transizione, da almeno un trentennio e
che contraddice, nelle fondamenta, il tipo di sistema emerso nel dopoguerra
e consolidatosi attorno al dettato della Costituzione Repubblicana, che, a
questo punto, appare vieppiù vulnerabile anche nella parte riguardate il
Presidente della Repubblica, il Governo ed il Parlamento.
Un insieme di
relazioni fra questi tre soggetti che, nel frattempo, è andato certamente
modificandosi ma senza trovare un momento di sistematizzazione in una
riforma – appunto – dell'assetto costituzionale, modificato invece, come
tutti ricordiamo, nella parte riguardante il rapporto tra potere centrale e
sistema degli enti locali.
In questo
lungo processo sono risultati determinanti due fattori: il primo, proprio
quello del rapporto tra potere centrale e sistema degli enti locali cui si
accennava proprio sopra; il secondo, quello della natura dei partiti
politici che, in una fase di grande espansione della loro egemonia
sull'intera società, appunto la Costituzione, attraverso il dettato
dell'art.49, poneva a salvaguardia dell'intero impianto della neonata
democrazia italiana, all'indomani del travaglio subito con il fascismo e la
guerra ed il ritrovato riscatto avutosi con la guerra di Liberazione al
Nord.
I partiti
politici, all'epoca e per circa un trentennio, hanno esercitato questa
egemonia attraverso fattori “forti” di matrice culturale, di identificazione
sociale, di rappresentanza e partecipazione politica.
Una
caratteristica che avevano non solo i tre grandi “partiti di massa” usciti
così configurati fin dalle elezioni dell'Assemblea Costituente,
DC,PSI, PCI, ma anche quelli di
minor dimensione, come PSDI e PRI
e, financo, ma piuttosto ovviamente anche il
MSI, mentre l'impronta dell'antico
“partito dei notabili” si ravvisava ancora nel
PLI e nelle diverse formazioni
monarchiche.
Non che
fossero rose e fiori, il sistema presentava i suoi difetti, in particolare
derivanti dalla tacita applicazione della “conventio ad excludendum”, cui il
PCI non sapeva ( o poteva)
contrapporre una vera “politica dell'alternativa” , esercitando la
democrazia progressiva soprattutto attraverso il governo di importanti Enti
Locali.
Questo secondo
punto va preso in seria considerazione, perché è proprio a partire dagli
Enti Locali che le cose cominciano a cambiare: l'istituzione delle
Regioni nel 1970 crea le condizioni per la costruzione di un
nuovo ceto politico, intermedio, fra quello di dimensione nazionale e quello
di conduzione dei partiti a livello locale.
Un ceto
politico che reclama una nuova dimensione nelle proprie prospettive di
“professionalizzazione” ed esercita in autonomia funzioni essenziali, prima
delegate o al Parlamento o ai Partiti.
Quasi
contemporaneamente la riforma della finanza locale esalta le possibilità di
spesa di Comuni e di
Province, con il loro diretto intervento sui temi del
territorio non soltanto dal punto di vista della programmazione,
trasformando questi Enti in un passaggio nevralgico del “cursus honorum” dei
funzionari di partito.
Ci troviamo, a
questo punto, ad un'altra fase molto delicata di questa lunga transizione.
L'aumentata capacità di spesa porta con sé anche fenomeni non secondari di
malversazione (in Liguria
abbiamo esempi che fanno di questa regione, un vero e proprio
“laboratorio politico”.
Pensiamo allo scandalo del 1966
che travolse esponenti di spicco del PSI
e negli anni immediatamente successivi) e quindi di crescita di impopolarità
dei partiti che, nel frattempo, stavano già abbandonando quella funzione di
“integrazione di massa” che abbiamo cercato di
descrivere all'inizio.
La risposta
alla crescita dell'impopolarità dei partiti, in seguito all'emergere della
“questione morale”, fu la peggiore.
Quella della
istituzione del finanziamento pubblico. Ravvisiamo qui il primo tratto
concreto di distacco tra il sistema dei partiti e la società civile, segnato
dalla perdita di egemonia da parte dei soggetti politici.
Il
provvedimento che istituiva il finanziamento pubblico, fortemente voluto dal
PCI e dal PRI fu
sottoposto a referendum, su iniziativa dei radicali, nel giugno del 1978,
proprio all'indomani dell'esito tragico della vicenda
Moro.
Si trattò di
un campanello d'allarme che non fu raccolto: i partiti, tutti più o meno
schierati in difesa dell'istituto del finanziamento pubblico salvarono a
stento la pelle, raccogliendo il 53%
dei voti a favore, contro il 47%
dei contrari. Ci furono giudizi affrettati di “qualunquismo” e, ancora una volta, si perseguì
la strada peggiore, anche perché il partito diventato “centrale”del sistema,
il PSI, aveva scientemente
deciso di abbandonare la strada del partito di massa per trasformarsi in un
partito, insieme di “nomina” (sportello indispensabile per accedere agli
incarichi politici e ai pubblici uffici) e di “spesa” (al centro come in
periferia).
Il resto della
storia è noto e può essere riassunto con brevi parole: i partiti, consci di
una sorta di sindrome da isolamento, hanno cercato appunto nella via della
“nomina” e della
“spesa” la strada per una legittimazione della loro presenza,
trascurando l'indispensabilità, in una democrazia compiuta, di soggetti
aggregativi in grado di produrre rappresentanza, quadri, cultura politica.
Via, via che
le possibilità di spesa , per vari motivi dalle scelte europee alla crisi
economica diminuivano spostandosi, tra l'altro, vieppiù dal centro alla
periferia anche per la crescita di esigenze post -materialiste in larghi
strati sociali e del fenomeno dell'immigrazione con una nuova conformazione
della struttura produttiva e del lavoro, ai partiti non restava che
assumersi per intero l'onore e l'onere del
“potere di nomina”.
Andando ad un
restringimento delle possibilità d'accesso verso nuovi soggetti ed
escogitando farraginosi sistemi elettorali, tutti motivati dalle esigenze
della governabilità e della necessità di assecondare il fenomeno della
“personalizzazione della politica”, per evitare l'apertura di una nuova
dialettica politica complessiva ( va ricordato, se mai ce ne fosse bisogno,
che la proliferazione di appartenenze istituzionali avutasi tra il 1994 ed
il 2006 è stata dovuta, per la gran parte, da scissioni dei grandi partiti
pre-92: quindi un fenomeno di ceto, tutto interno al ceto, come
contrariamente ci viene indicato oggi da analisti forse un po' troppo
smemorati).
Intendiamoci
bene il “potere di
nomina” nel senso della sopravvivenza partitica non è stato
usato soltanto dai “servi
del padrone”: Rifondazione
Comunista nel momento della candidatura di esponenti del
Social Forum, dei disobbedienti,
dei centri sociali, di personaggi dello spettacolo, ha agito nella stessa
logica, suffragando così totalmente la propria rinuncia, che pure appariva
chiara fin dal 1993, a rappresentare un soggetto di chiara
“rappresentatività politica”.
Su questi
punti , inoltre, non sta esercitando alcuna riflessione seria tutta quella
“intellighenzia”
anche di sinistra che sposò, per un certo periodo, in nome di una non ben
precisata “semplificazione del sistema” la cosiddetta stagione referendaria
patrocinata da Mario Segni che,
adesso (e senza il senno di poi) può ben essere identificata come una vera e
propria fase “catastrofica”.
Il
rinserramento nel “potere di nomina” da parte dei partiti politici ha
raggiunto il suo apice con l'abolizione delle preferenze nella nuova legge
elettorale per le Politiche del 2005
(non che le preferenze fossero il massimo, ma tant'è...) e, adesso, con lo
sbarramento al 4% che taglia
via ( o rischia di tagliare via) un pezzo di vita reale del sistema politico
italiano in un frangente dove, per ironia della sorte, la ricerca è quella
della rappresentanza e non (vivaddio!) quella della tanto abusata
“governabilità”.
Rischiano di
restare tagliati fuori dal concerto istituzionale (anzi, già lo sono, in
verità , visto l'esito delle elezioni politiche del 2008) molti dei
propugnatori di quella trasformazione alla quale abbiamo così sommariamente
accennato: ma non ci interessano le nemesi.
Alla sinistra
deve interessare soprattutto un processo di ricostruzione della propria
soggettività, a partire dal recupero e dal rinnovo di un circuito virtuoso
posto sul piano della ricerca di una effettiva capacità di rappresentanza,
innovazione dei rapporti, esercizio di egemonia sui contenuti ideali,
culturali, programmatici verso la società.
Naturalmente
c'è da passare lo scoglio delle elezioni europee (non sono così in alto da
snobbare le scadenze immediate e la necessità di sopravvivenza materiale),
ma se andremo all'appuntamento con un chiaro disegno per il futuro, di
ritorno alla politica non occupandoci soltanto di
“spesa” e di
“nomina”,
ma della vita sociale, culturale, politica, economica, forse qualche
speranza potrebbe ancora esserci.
Savona, li 4 Febbraio 2008
Franco Astengo
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