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IL LIBRO DEL MESE di Massimo Bianco:

 IL GRANDE SERTAO.



Chi segue questa rubrica potrebbe essersi domandato quale sia il mio romanzo preferito. Visto che è iniziato l’anno nuovo e siamo già arrivati all’undicesima puntata mi è venuta voglia di rispondere all’ipotetica domanda. Ebbene, dopo (neanche troppo) lunghe meditazioni ho stabilito che il romanzo in assoluto mio preferito è “Grande Sertao”, opera del 1956 di Joao Guimaraes Rosa, Feltrinelli editore, un testo che ho letto già tre volte, nonostante l’intero scibile letterario reclami debita attenzione, senza mai cambiare il mio giudizio su di esso: lo adoro.

Si tratta dunque di un parere prettamente soggettivo, d’accordo, tuttavia se è vero come è vero che questo scrittore, nato nello stato di Minas Geiras nel 1908 e morto nel 1967, è stato considerato da almeno una parte della critica il più grande scrittore latinoamericano del secolo e per giunta come l’Omero, il Virgilio, il Cervantes o il Joyce brasiliano ed è stato perfino candidato al premio nobel nel 1965, allora magari questa mia ardente passione non è del tutto campata in aria, non credete? 

Tuttavia il perché questo libro mi sia piaciuto così tanto non è facile da spiegare. In effetti esso è molto lontano dalla nostra realtà. Narra le avventure di una banda di jacunços, e cioè all’incirca di banditi, avventurieri e idealisti brasiliani, ed è probabilmente ambientato (l’epoca di svolgimento non è mai specificata) alla fine dell’800 o tutt’al più ai primi del ‘900. Sono avventure raccontate dal punto di vista di uno di loro, il jacunço Riobaldo. E forse è proprio questo il punto: che fascino aveva, infatti, ai miei occhi il mondo del sertao brasiliano descritto nelle pagine di Joao Guimaraes Rosa, così bello forse anche perché per un italiano come me risultava talmente esotico da sembrare quasi alieno, benché si rappresentasse un mondo fondamentalmente reale seppur fantastico, mi si perdoni la contraddizione in termini. Immergendomi nella lettura, diventava per me inevitabile perdermi in quell’incredibile universo descritto in maniera tanto fascinosa e diventava altrettanto inevitabile ritrovarmi, senza neppure accorgermene, a far correre la fantasia. E pensare che le prime pagine le avevo trovate così faticose da indurmi quasi ad abbandonarlo. Nulla di strano, peraltro, perché entrare nel complesso immaginario dell’autore non è così semplice. Poi invece la trama, dapprincipio apparentemente ingarbugliata, cominciò poco per volta a dipanarsi e a prendermi e non mollai più la lettura. D’altronde Joao Guimaraes Rosa sapeva ciò di cui andava scrivendo. Aveva, infatti, trascorso l’infanzia e l’adolescenza tra i bovari e le mandrie di bestiame del sertao, l’arido altopiano del centro del Brasile solcato da più verdi vallate. In seguito si era laureato in medicina per poi appassionarsi alla biologia fino a diventare un vero esperto sia di botanica sia di zoologia locali. E le sue conoscenze, le sue passioni e i suoi interessi ben si riverberano nei suoi scritti, che descrivono la psicologia di questi uomini e la ricca natura circostante con straordinaria precisione e incanto.


Joao Guimaraes Rosa
L’Omero e il Virgilio brasiliano, si diceva qui sopra. E in effetti il suo narrare acquista quasi connotati mitici e la guerra in corso tra le due grandi bande di jacunços, quella dei “buoni” Ze Bebelo, Joca Ramiro, Diadorim e l’io narrante Riobaldo e quella dei cattivi a tutto tondo Riccardone ed Ermogene, si trasforma davvero in una specie di nuova Iliade, senza però le saccenti ed egoiste divinità dell’Olimpo o i loro equivalenti a mettersi in mezzo.
E si tratta di un’epica vera e originale, per nulla derivativa. Oltre a ciò Grande sertao è filosofia di vita, acuta e profonda grazie anche a espressioni fulminanti, che non si dimenticano. “Il sertao è un’attesa enorme”, ad esempio, mi sembra battuta straordinariamente e filosoficamente evocativa.

 Poi Grande sertao è azione e avventura allo stato puro e se vogliamo possiamo anche un po’ considerarlo una versione assai più colta e matura degli scritti di Emilio Salgari, come peraltro Salgari stesso con i suoi Sandokan e Corsari Rossi, Verdi e Neri nemmeno si è mai sognato. Infine è anche parecchio Shakespiriano nel suo procedere tragicamente eroico.

E poi come sa scrivere bene Guimaraes Rosa, con quel suo stile denso, originale e inconfondibilmente personale. E come sa rendere vividi e indimenticabili i personaggi e le loro avventure. E come sa personalizzare i dialoghi. Certo che volgere come si deve questo romanzo fiume dal brasiliano all’italiano deve essere stato un’impresa improba. Ce lo conferma, infatti, nell’introduzione all’opera il traduttore stesso Edoardo Bizzarri:

<<Due elementi concorrono a rendere assai problematica la trasposizione in altra lingua, soprattutto per lettori europei, del mondo lirico narrativo del brasiliano Joao Guimaraes Rosa: il linguaggio, che fonde terminologia, strutture e inflessioni regionali con le più ardite innovazioni e la tipicità del mondo naturale e umano da cui prende le mosse, e che, in molti dei suoi dati concreti, non ha possibile riscontro nel mondo e nella terminologia di un paese europeo.>>

Ed ecco qui di seguito un paio di esempi presi a caso della sua capacità descrittiva e del linguaggio:

Ci inoltrammo in una macchia di mangabeiras, andando sempre dritti, fino a quasi l’ora del pranzo. Ma il terreno si faceva sempre meno consistente. E le piante andavano ad abbassarsi sempre più piccole, rimboccavano la veste sul suolo. Spingersi fin là, solo qualche armadillo, per miele e mangaba. Poi terminavano le piante di mangaba. Lì la pianura si apriva. Gli urubùs spaziavano in largo. Terminò la vegetazione da foraggio, e gli arbusti spinosi, come quei cespugli dai virgulti argentati, e simili. Terminava l’erba, in quei paraggi grigiastri. E tutto questo, arrivando a poco a poco, dava un’oppressione raddensata, il mondo si stava invecchiando, nel viandante. Terminò il sapé selvatico dell’altipiano. Uno si guardava alle spalle. A quel punto il sole non lasciava guardare in nessuna direzione. Vidi la luce, un castigo. Vidi uno sparviere: fu l’ultimo uccello che si scorse.”

Sembra quasi di viverlo, il progressivo addentrarsi nel deserto. Inevitabilmente appaiono termini esotici e del tutto estranei alla nostra lingua, ma un esauriente vocabolarietto in calce al libro ce li spiega. Mangaba, ad esempio: <<frutto della mangabeira (Hancornia amapa), usato soprattutto per la preparazione di dolci>>.

“Uno deve a volte fingere di avere rabbia, ma rabbia proprio non si deve mai tollerare di averla. Perché, quando si nutre rabbia di qualcuno, è la stessa cosa che autorizzare quella medesima persona a venire a governare, durante tutto quel tempo la nostra mente e il nostro sentire; e questa era mancanza di sovranità, e abbondante stupidaggine; e di fatto lo è. Ze Bebelo parlava sempre con la macchina di colpire nel segno – pura intelligenza.”

Passo profondo, quest’ultimo e, se permettete, a mio parere lo diventa ancor di più immaginando di sostituire la parola rabbia con il termine odio. Da assimilare.

E insomma, a farla breve oggi si è parlato di un capolavoro tout court. Non c’è altro modo per definirlo. E credo che valga la pena di dimenticare per qualche giorno la dura realtà quotidiana per immergersi nelle accattivanti avventure di Riobaldo e dei suoi feroci ma generosi jacunços.

 Spero che abbiate apprezzato la recensione, da me condotta in maniera sui generis. Questo mese mi sono lasciato prendere dall’entusiasmo e sono stato eccessivamente autoreferenziale, me ne rendo conto, ma in fin dei conti lo avevo lasciato intendere fin dal numero 0 che questa rubrica era basata più sui gusti soggettivi del suo autore che su pretese di oggettività critica. Io peraltro all’affidabilità oggettiva del giudizio critico, almeno nell’ambito di musica, cinema e letteratura, credo poco. In effetti poi scrivere del proprio libro preferito è un po’ come parlare di se stessi ed è dunque assai presuntuoso, vanitoso ed egocentrico, lo capisco e me ne scuso. D’altronde esprimere i propri pensieri o giudizi sulla carta stampata o su siti e blog internet è presuntuoso, vanitoso ed egocentrico, quindi quando voi acquistate un qualsiasi giornale, perfino un quotidiano, almeno laddove esso non si limita ad articoli di pura cronaca o quando navigate su internet, orbene, ovunque vadano a parare le vostre letture non fate che essere partecipi della vanità e presunzione di colui che firma l’articolo, io signori, vi dice costui, sono la bocca della verità e il mio pensiero e il mio essere sono meritevoli di essere conosciuti dall’universo intero.

Vorrà dire che per farmi perdonare almeno un poco nei prossimi mesi lascerò perdere gli antichi amori e mi dedicherò con oggettiva obbiettività in prevalenza a testi recenti, ai nuovi romanzi a mio parere (così un po’ vi frego lo stesso, sempre di miei amori trattasi, ma recenti) meritevoli di acquisto, ok? Alla prossima.

Massimo Bianco