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CENTRALITÁ DI STUDIO E LAVORO

  Marco Giacinto Pellifroni

Marco Giacinto Pellifroni

Un antico proverbio cinese suggeriva: “Non dare un pesce a chi ha fame. Dagli una canna e insegnagli a pescare.” In altri termini: non provvidenze, ma competenze.  E in altri termini ancora: non dare sussidi, dai lavoro.

Ora, trasferiamoci ai tempi attuali e vediamo di interpretare questi moniti alla luce dei problemi che stanno rendendo la nostra vita sempre più priva di certezze e di speranza.

Partiamo da un fulgido articolo della nostra Costituzione, che stabilisce la Repubblica italiana esser fondata sul lavoro.

Con velocità accelerata, l’Italia s’è negli ultimi tre lustri allontanata vistosamente da questo criterio, a ruota di tutti i Paesi occidentali, USA in testa. L’illusione era che si potessero ottenere i pesci demandando ad altri il compito di sgobbare per procurarceli. Come compensare i fornitori? Ricorrendo alle rotative delle nostre banche centrali e scambiando i pesci con altrettanti pezzetti di carta o contratti elettronici. Insomma indebitandoci.

Del resto l’esperimento, su scala interna, era stato fatto a più riprese già mille anni prima dai cinesi. Il più famoso fu quello descritto da Marco Polo nel suo Milione a proposito della zecca del Gran Khan. Quasi in contemporanea, nel 1294, fu copiato dal re di Persia dopo un inverno disastroso che decimò le entrate fiscali e lo spinse ad emanare un editto che dava corso forzoso ad una valuta cartacea, comminando la pena di morte a chiunque si rifiutasse di accettarla in pagamento. A simili artifizi era ricorso anche l’impero romano nei secoli del suo declino, togliendo ogni contenuto di pregio alle sue monete, composte di materiali sempre più vili. L’esito comune a tutti questi esperimenti fu tragico: la bancarotta dello Stato emittente e il conseguente dissesto dell’economia reale.

Ma senza andare così lontano, anche il dollaro americano, varato nel 1913 dall’appena fondata, e privata, Federal Reserve, nella sua quasi secolare esistenza ha perso il 98% del suo originario potere d’acquisto, in massima parte dopo il suo sganciamento dall’oro, nel 1971, con un editto urbi et orbi del presidente Nixon. E l’euro è riuscito, almeno in Italia, a perderne il 50% nel giro di soli sei anni.

La morale è che chiunque s’ingegni di ottenere i pesci delegando altri a procurarglieli va incontro ad un destino inevitabile, che purtroppo non travolge solo lui, ma anche coloro che hanno sudato per pescarli. Fuor di metafora, se l’Occidente oggi barcolla sotto il peso dei propri debiti, ossia di tutti i suoi pezzi di carta dati a laboriose nazioni dell’Est in cambio delle loro materie prime e manufatti, trascinerà nella disgrazia anche queste ultime, che si ritroveranno ad aver lavorato ad esclusivo beneficio altrui, sfiancando e spesso schiavizzando la propria forza-lavoro e inquinando e desertificando il proprio territorio: fenomeno vigorosamente in atto negli ultimi mesi.

Ma cosa ha guadagnato l’Italia, trasferendo le proprie fabbriche e i propri talenti migliori oltre confine, esportando cioè il patrimonio lavoro in barba alla Costituzione? Soltanto pesciolini: viaggi aerei low cost, abbigliamento trash, gadgets elettronici a gogo; ma, di converso, prezzi in crescita per i pesci grossi, cioè per i tasselli indispensabili alla sua vita quotidiana: prodotti energetici, materie prime, tariffe (che, pubbliche o private che siano, seguono le materie prime quando sono in salita ma se ne sganciano quando sono in discesa), e, soprattutto, tasse, contributi e sanzioni (per un folle moltiplicarsi di fantasiose infrazioni) sempre un passo avanti  all’inflazione.  

L’Italia ha privilegiato per anni le rendite finanziarie basate sul debito, ha degradato il lavoro a mansione da scansare e addossare ad altri, coi cittadini sempre meno inclini o capaci di usare la canna da pesca. Un’incapacità dovuta anche ad un sistema scolastico in mano a lobby e baroni che hanno moltiplicato il numero di Università tali solo di nome, in quanto sfornano “sancazzisti”, atti a vincere concorsi pubblici solo per titoli, ottenibili a un tanto al chilo, certo non per esami. (*) Da sancazzisti a fancazzisti pubblici il passo è poi breve.

 La gente chiede lavoro, chiede la canna da pesca e le istruzioni per l’uso, al posto dei pesci elemosinati in varie e avare forme di sussistenza, concesse come “ammortizzatori sociali” per evitare il collasso e le sommosse popolari. La gente vuole che ritorni il lavoro dignitoso, esportato al pari dei capitali, vuole che i datori di lavoro tornino ad essere tali e non speculatori finanziari e creatori di fabbriche all’estero. E vuole che la scuola torni ad essere luogo di formazione culturale e di preparazione al lavoro, e non già di collocamento di amici e parenti della casta. È “anti-storico” tutto questo, non è trendy, perché va contromano rispetto a una scuola appannaggio dei tanti baroni la cui ultima preoccupazione è il futuro dei propri studenti?

Si ripete alla nausea che il decreto Gelmini non è una riforma ma solo tagli. Ma non sono proprio i tagli l’azione più coraggiosa di qualsiasi governo che voglia por fine a privilegi e sprechi? Piuttosto si dica che si comincino a tagliare anche i privilegi della casta politica, finanziaria, sindacale, statale e parastatale, e non già solo quella delle baronie scolastiche e universitarie; e si inciti Tremonti ad avere con le prime la stessa fermezza che, spero, dimostrerà con le seconde.

Certo, il taglio più grosso da fare è l’abrogazione del debito pubblico, non per insolvenza, ma per insussistenza; e non mi stanco di ripeterlo in ogni possibile sede. Ma, in attesa del “taglione”, al cui compimento si perverrà solo attraverso situazioni di emergenza epocali (alle quali peraltro sembriamo prossimi), non è più oltre ammissibile la coesistenza di vaste sacche di parassitismo privilegiato con una situazione generale in cui due italiani su tre versano in seria sofferenza economica.

Quindi, tutti quanti stanno male guardino con solidarietà, non con timore, agli sforzi in atto e a quelli promessi contro le varie baronie universitarie, interpretandoli come l’auspicabile inizio di una vasta operazione di pulizia a tutti i livelli, partendo dall’alto, che non potrà che giovare a quanti oggi non riescono a sbarcare decentemente il lunario.

Veltroni e le varie sigle sindacali, ormai ridotte a difendere quasi solo diritti o privilegi acquisiti e pensionati, senza trasparenza, senza bilanci, indicono un referendum abrogativo, sobillando la piazza senza ancora saper bene che cosa si vuole abrogare. Non mi sembra l’atteggiamento giusto; questa volta, e pur con tutte le riserve, sto col governo, perché ritengo assai più rispondente ai bisogni del Paese la sua posizione di quella dei NO a difesa dei san-fancazzisti. Uno spreco in più: di energie, che meglio andrebbero incanalate per reclamare la proprietà pubblica della moneta, cartacea ed elettronica, spazzando via l’iniquo onere di un debito pubblico che è alla radice della nostra crescente miseria. Ma, lo so bene, questo non è permesso dai veri padroni delle varie caste, che dei primi sono i fedeli e conniventi esattori; ragion per cui indirizzano i moti di rivolta contro falsi bersagli, per fare che tutto resti com’è ora. Mai sentito qualche parlamentare o sindacalista proporre un taglio ai propri scandalosi emolumenti e privilegi? È a questo che pensano, terrorizzati, quando qualcuno osa proporre dei tagli?

 (*) “Basterebbe una legge, anzi una leggina: È abolito il valore legale del titolo di studio. Perché qui è tutto il motivo per cui gli studenti scendono in piazza e fanno cortei «con» i docenti, anziché sfilare «contro» di loro, come dovrebbero. Gli studenti sono infatti le prime vittime dei docenti italiani, che difendono il sistema scolastico e universitario italiano: è grazie a loro se escono dalla scuola in gran parte analfabeti, o con lacune immense [“sancazzisti”, NdR], o con pseudo-specializzazioni che li rendono inadatti a qualsiasi occupazione seria, oltre quella offerta dai call-center, e a volte nemmeno a quella. […] Gli insegnanti fanno finta di insegnare, e gli studenti sanno benissimo che non imparano niente. L’unica cosa che fa credere alle vittime di essere nella stessa barca coi loro carnefici e sfruttatori, la casta che rovina  le loro vite e pregiudica il loro futuro, è il valore legale del titolo di studio.” […] Un titolo di studio come ad es. “la laurea in «Scienze della toelettatura del cane e del gatto», o magari una specializzazione in «Mediazione culturale e cooperazione euro-mediterranea» come quella che rilascia la celebre università Kore di Enna…”  Da  «Basterebbero due leggi», di Maurizio Blondet, Effedieffe, 29/10/2008.

Marco Giacinto Pellifroni                                                                       2 novembre 2008