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 A Savona, un omaggio a

 Roberto Rossellini

Sergio Giuliani


Roberto Rossellini

Tra le molte e, spesso, diseguali iniziative culturali cittadine, benvenuto sia una riproposta del cinema di Roberto Rossellini, rivisto coi vigili occhi del nostro tempo.

Sì perché le etichette semplificano e deteriorano il prodotto e collocare film di Rossellini o di Visconti al tempo del bianco e nero nel troppo ingombro faldone del “Neorealismo” significa essenzialmente non comprenderli, malamente accorparli e produrre equivoci.

 Di qui a prendere “I Malavoglia”, tradotti  da Visconti ne “La terra trema”, come un romanzo “proletario” e di riscatto dallo sfruttamento..ce ne vuole, di cattiva intenzione.

“Roma città aperta” fu il primo film prodotto nella Roma liberata nell’agosto 1944 dagli angloamericani in una Cinecittà fascistissima dove, fra tutte le mascherature “romane” o la propaganda di “Alfa tau”, ”La nave bianca”,”Luciano Serra pilota” avanzavano, dopo la fuga dei cineasti di regime a Venezia, con Salò, mi pare 1850 metri di pellicola non impressionata. Non c’era di che scialare,per un film. Ma Roma aveva conosciuto gli scontri di Porta San Paolo,via Rasella,il bombardamento di San Lorenzo e andava scoprendo l’orrida verità delle Ardeatine.

Fame, disagi a non finire, ma anche voglia di repulisti, di ricominciare da capo ed ecco nascere, con gli attori sul posto (e che attori, Magnani e Fabrizi!) un film che pare essersi scritto da solo, come direbbe Montale “nel solco dell’emergenza”, e che fu realizzato all’aperto e con poca o nulla Cinecittà. Attentissimi a non fare “salcicciotti”: non c’era pellicola da sprecare e bisognava sempre far andar “bene la prima!”

Avevo sette anni quando, forse incautamente, un amico-collega di mio padre (cui ero stato affidato perché in casa mia sorella aveva il tifo), forse per divertirmi, mi portò al cinema Ars a vedere questo film.

Rimasi traumatizzato, anche se non lo diedi certo a vedere. Ricordo un particolare, poi “tagliato” nelle successive edizioni:un partigiano viene torturato con una fiamma ossidrica al petto e i peli continuano a bruciare e si arricciano un una spaventosa crosta di sangue.

Ricordo la celeberrima scena di Anna Magnani che rincorre il camion che le porta via il suo Francesco e viene uccisa da una raffica di mitra ricordo il figlio-chierichetto che piange sul suo corpo e la mano alzata a maledire del parroco-Fabrizi.

Ricordo soprattutto la fucilazione del parroco, legato a una sedia (come era accaduto per Ciano e i “colpevoli” della messa in minoranza di Mussolini il 25 luglio; almeno quelli che non riuscirono o non vollero scappare) mentre i ragazzini dell’oratorio accompagnano la sua fine con un commovente fischio d’intesa.

Fu dura; per notti certe immagini mi sono riapparse a svegliarmi di colpo,atterrito. Ma è stata una buona medicina per farmi toccar con mano a che cosa porta la violenza dei disperati, gli occupanti che capivano benissimo di essere ormai dannati, a farmi odiare per sempre il misfatto di rompere abitudini (come la benedizione delle case) con la brutalità guerresca e ad uccidere civili innocui come una donna da casa che non voleva farsi portar via il marito) e per approvare un prete che scaglia,disperato e vinto dal dolore, una maledizione contri i crudeli ed insensati.

Seppi così che Roma non era la città-cuscino che aveva accolto tedeschi come, poi, americani, che considera gli ideali una deviazione ed è intesa soltanto alla concretezza miope. Non era la città che scriveva, sugli argini del Tevere. ”Aridatece er puzzone!”, ma quella del coraggio partigiano, dell’attentato a via Rasella come segnale di presenza di un’opposizione ad ogni cedimento e ad ogni opportunismo verso il potere, qualunque potere.

La mia generazione è cresciuta, così, vaccinata dagli equivoci e da dubbi dissennati. E’ stato facile orientarsi alla democrazia, con paletti così visibili ai lati del cammino. Le grandi emozioni educano, costituiscono, costruiscono una struttura certa che regola ed interpreta i rapporti con la collettività e che fa comprendere che non si danno cammini di vita se non preoccupandosi del tessuto sociale e operando per comprenderlo ed inserirsi in esso al giusto livello.

Ancora su/per Roberto Rossellini. E’ praticamente scomparso di circolazione (al contrario di “Roma città aperta”, di frequente riproposta) “Germania anno zero”,film con cui il regista scavava nella realtà di una germania distrutta nei beni e,soprattutto,nell’anima. Un ragazzino con un gran ciuffo biondo si aggirava tra macerie e scheletri di città, con grandi occhi diventati come assenti e in una solitudine da sopravvissuto. Insopportabile; finchè sale adagio su un serbatoio d’acqua,guarda fisso al suolo in un modo che se ne ha paura e si getta nel vuoto.

Abbiamo appreso e studiato poi che la Germania sconfitta e pressochè rasa al suolo non era un anno zero, ma cominciava a fare i conti con quello che tutti (o quasi) d’accordo avevano combinato al mondo intero e faticosamente, ma ben orientata, risaliva le pareti, lunghissime, del pozzo.

Ma quel cader del corpo vestito di stracci di un bambino che quasi mai parla nel film, schiacciato da chissà che e assente pure a se stesso, è stato ed è, per me, un incubo che non so se ho davvero superato. Credo di no.

Buon lavoro, ”rosselliniani” E vi pregherei di lasciar perdere “Neorealismo”. E’ stato un po’ una sciocchezza. Buona visione dei film!

               Sergio Giuliani