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Non ci sono più le intere stagioni

 Ma intanto una massa di stupidi continua a inneggiare al diritto di fare un po’ come ci pare e a fare il gioco di pochi cinici speculatori.

Nonna Abelarda  

Milena De Benedetti

A volte uno si illude che certi colori, profumi, sapori  favoleggiati nella mente siano solo mitizzazioni dell’età giovanile. Inevitabilmente con la maturità tutto sembra migliore, nel ricordo, e il presente più insipido.

Poi ti tocca smentirti. Per esempio, è qualche anno che non ritrovo più, tutto intorno a me, la bellezza dei colori dell’autunno: mi appaiono più smorti, meno accesi, brunastri, di quel giallo e rosso splendente che ricordavo.

Con la siccità estiva a metà agosto certi alberi sono già bruciaticci.

Fisime e pessimismo, mi dico. Ipersensibilità da strapazzo. Ora ti leggo che negli Usa dicono lo stesso, è un effetto dei cambiamenti climatici. Addirittura nel Vermont temono per il turismo, che da sempre accorre in autunno per il famoso rosso degli aceri, ormai diventato bordeaux.

Eh, be’, quando ricevi conferme addirittura dal Vermont, hai voglia continuare a pensare di sbagliarti, di esagerare, o che sia solo un fatto locale. Allora ti viene da supporre che anche tutti quegli alberi che appaiono mezzi secchi, prostrati dalla siccità e spezzati da quell’unica pesante nevicata annuale, sofferenti per cancri e parassiti, ugualmente non siano fisime tue. Che la sofferenza del bosco che ti pare di toccare con mano sia colpa, appunto, di inquinamento e cambi climatici.

Ma noi continuiamo a bruciarli, per vandalismo, disattenzione o, più praticamente, disbrigo veloce di pratiche edilizie. A lacerarli di piloni e viadotti e linee elettriche e antenne per telefonini. A percorrerli in fuoristrada e a sparare impavidi ad animalini minacciati in un sovraffollamento da ripopolamenti sbagliati e da un habitat naturale troppo scarso. A calpestare e frugare e lasciare rifiuti per terra. A sperare in raccolte fungine che di anno in anno, con rare fortunate eccezioni, sono sempre più un’ipotesi.

Tutto va bene così. Non abbiamo più alcun contatto con la natura e non percepiamo il dolore del bosco. Come non ne percepiamo tanti altri, ottusi nel nostro soddisfatto egoismo.

L’altra sera si chiacchierava di porticcioli, enumerando le nuove cementificazioni della riviera di ponente  che sembrano un bollettino di guerra. (“hai visto lì, quel nuovo pontile?” “là non c’è più la spiaggia” “ Lì ci staranno mille barche…” “pare che quel progetto accantonato lo riprendano…”) e qualcuno sosteneva che, dopotutto, siamo lo sbocco al mare della padania, e che tutta questa gente ha diritto di volere una barca, è logico.

Certo, un diritto. Come quello al cemento. Un diritto indiscutibile, che ci renderà presto più poveri tutti quanti. Come sarà bello, tante barche e barchette inquinanti fra propaggini di cemento diportista, portuale, residenziale, a galleggiare su un mare sterile e ormai morto o moribondo. Rimarrà l’abbronzatura, finché i filtri dell’ozono reggono. Poi, neppure quella, tutti sotto coperta e via.

Qualcuno giustamente celebrava, con malinconia, la Milia delle Fornaci, e quelle barchette, e le reti tirate in secca. Un dolce ricordo che non c’è più. Ora, la pesca è sempre più diseconomica, i pesci hanno prezzi da gioielleria. Credete sia colpa solo del caro gasolio? No, è anche il mare che è sempre meno pescoso, sia perché troppo depredato, sia perché contaminato e arido.

 A noi poveri mortali resteranno quei pesci d’allevamento dalle carni sfatte, dal retrogusto di muffa da mangimi all’antibiotico. Che bello.

Ma intanto una massa di stupidi continua a inneggiare al diritto di fare un po’ come ci pare e a fare il gioco di pochi cinici speculatori. A invocare più strade, infrastrutture, parcheggi per il dio automobile. Porti per le barche. Seconde, terze, quarte case. E aggiungiamoci un po’ di nucleare, va’, già che ci siamo. E sbeffeggiamo gli ambientalisti con quello spirito da tifosi, come si trattasse della squadra avversaria da odiare, sconfiggere e irridere. Colmo dell’imbecillità.

Mi tocca invocare la crisi come unica speranza, ed è ben triste, perché in una vera crisi economica sono sempre i più deboli a rimetterci. Eppure, era bastato un picco dei prezzi del carburante per vedere qualche bici in più e qualche auto in meno. E qualche insospettabile sui mezzi pubblici. Chissà che la necessità  non aiuti a ragionare.

Non voglio lanciare minacce da apocalisse. Lo fanno già i giornali, e alla lunga diventa controproducente come non parlarne, e rimane solo un senso di impotente disperazione, o indifferenza da struzzo, nell’idea che tutto sia inevitabile e ineluttabile.

Be’, non lo è. Tutti, con i nostri comportamenti quotidiani, possiamo contribuire. Dalle ipotesi di decrescita felice, per una vita più a misura d’uomo e di pianeta, prospettate da Pallante, a una semplice ricerca di maggiore sostenibilità e austerità in ciò che facciamo, riduzione di consumi inutili e scelte ben precise.

Un esempio semplice. Siamo contro la piattaforma di Vado? Proviamo a chiederci cosa c’è nei container. Che tipo di merci inutili viaggiano in lungo e in largo per il pianeta. Compriamo locale e nazionale, o ci porteranno a consumare quello che vogliono loro,  distruggendo economie e agricolture locali. Abbattiamo questa logica, questa spirale perversa. Senza fanatismi o sacrifici assurdi, ma con buon senso.

Non dico di non mangiare più ananas o banane. Ma le pere argentine fuori stagione, potremmo cominciare a lasciarle perdere, tanto per dire. Guardare le etichette e riflettere. Il mercato siamo noi, se vogliamo. Ogni pera rifiutata è alla lunga un container in meno su quella pila orribile davanti ai nostri occhi.

Il primo passo consapevole è capire che “tenore” di vita e “qualità “ di vita non sono affatto sinonimi. Anzi, spesso fanno a pugni. E la felicità va molto più a braccetto con la seconda che con il primo.

  Nonna Abelarda alias Milena De benedetti