I CITTADINI E L’AMBIENTE: UNA QUESTIONE ETICA,
CULTURALE E POLITICA
“E gli
uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce” . Così ha
scritto l’evangelista Giovanni, o meglio, così ha tradotto dal greco
neotestamentario Giacomo Leopardi, che ha messo testo originale e
traduzione in epigrafe a La
ginestra o il fiore del deserto, composta nel 1836, un anno
prima della sua morte. E perché mai gli uomini preferiscono le
tenebre alla luce? Perché non vogliono essere visti mentre
commettono iniquità, perché vogliono peccare senza pagarne il fio,
perché sanno di agire male però non hanno il coraggio, o l’onestà,
di riconoscerlo; mentre chi opera nella verità ama la luce del
giorno, e la verità, per l’evangelista Giovanni, coincide con la
parola di Dio, con il suo Verbo fatto carne, con il suo Figlio
unigenito mandato a salvare il mondo da se stesso e finanche i
“figli delle tenebre”, purché si convertano, divenendo così “figli
della luce”. Non può essere questo, tuttavia, il significato
dell’antitesi tenebre/luce per l’ateo Leopardi: per il poeta della
Ginestra la salvezza
dell’uomo non può che venire dall’uomo medesimo; non certo da quello
ottenebrato dalle “superbe fole, / ove fondata probità del volgo /
così star suole in piede / quale star può quel ch’ha in error la
sede.” Queste sono le tenebre dell’ignoranza e della presunzione;
no, la salvezza può venire solo da chi
“sé di forza e di tesor mendico / lascia parer senza
vergogna, e noma / parlando apertamente, e di sue cose / fa stima al
vero uguale.” Non si può guarire da un male se prima non lo si
diagnostica esattamente per quello che è. Quando il Leopardi
componeva la
Ginestra
in una villa fra Torre
del Greco e Torre Annunziata, vicino ai “campi cosparsi /di ceneri
infeconde” eruttate dallo “sterminator Vesevo”, la speranza di vita
media non oltrepassava i quarant’anni (e lui stesso non li ha
raggiunti, stroncato dall’asma e dall’idropisia), la mortalità
infantile era elevatissima, colera e tubercolosi falcidiavano la
popolazione urbana, pellagra e malaria infierivano nelle campagne,
non v’erano terapie efficaci per malattie oggi curabili come la
polmonite o la sifilide. Nuove città sono sorte sulle rovine delle
antiche, ma così come aveva sommerso queste di ceneri e lapilli, il
Vesuvio potrebbe in un momento distruggere anche quelle. Altro che
magnifiche sorti e
progressive dell’umanità! La quale, invece di prendersi cura di
se stessa e di confederarsi amorevolmente per difendersi dai colpi e
dagli assalti della “dura nutrice”, si dilania in continue guerre
intestine. Questa è follia e tenebra per il Leopardi, che
considerava l’umile e “lenta” ginestra assai più saggia e sana dei
suoi contemporanei. Chissà come giudicherebbe noi, uomini del terzo
millennio, costretti a difenderci non più solo da una madre divenuta
matrigna, ma anche da quella seconda natura ormai globale costituita
dal potere tecnologico! Qui ci troviamo dinanzi a un tragico
paradosso: il sogno faustiano di dominare le forze della natura e di
piegarle a nostro vantaggio si è trasformato in un incubo da cui non
sappiamo come uscire (cfr. la favola dell’apprendista stregone). La
tecnica, concepita inizialmente come strumento di dominio al
servizio dell’uomo ha finito con il trasformare l’uomo in strumento
al servizio della tecnica. Oggi dunque l’uomo non è più pensato come
un fine ma come un mezzo. Mezzo per che cosa? Ma per il potere della
tecnica e del capitale, per motori sempre più competitivi e macchine
per pensare sempre più “intelligenti”;
per che cosa d’altro? I
valori dominanti effettivi nella società attuale non sono forse
quelli del denaro e del potere? E tuttavia non si possono negare gli
enormi progressi avvenuti, per esempio nel campo della medicina, dai
tempi della Ginestra ai
nostri giorni; prova ne sia che la speranza di vita oggi è
praticamente raddoppiata rispetto ad allora, e che il prolungarsi
tendenziale della durata media della vita (ovviamente nei paesi
ricchi) comincia ad essere percepito come un problema per le future
generazioni. Si vive di più, è vero; ma si vive anche meglio?
L’enorme consumo di alcool, droghe e farmaci che caratterizza il
cosiddetto “primo mondo” di che cosa è sintomo? Di salute (anche
mentale) o di malattia? E il forsennato usa-e-getta di manufatti e
materiali d’ogni tipo prodotto da un sistema consumistico fuori
controllo che non riesce neanche più a smaltire i propri rifiuti più
o meno tossici (leggere, a questo proposito, la profetica “Leonia”
nelle Città invisibili di
Italo Calvino), lo cataloghiamo come progresso o come regresso?
Certo è che viviamo tutti in
un mondo diseguale, asimmetrico e squilibrato: “Si calcola che il
miliardo di persone che vive nei Paesi sviluppati abbia un tasso
relativo di consumo pro-capite di 32. La maggior parte degli altri
5,5 miliardi di abitanti del pianeta costituisce il mondo in via di
sviluppo, e ha un tasso relativo di consumo pro-capite mediamente
vicino a 1.”
(J. Diamond, da “La
Repubblica del 3/01/08). Mentre da noi aumentano le
cosiddette malattie del benessere dovute soprattutto ad eccessi
alimentari e a sedentarietà, altrove si muore per denutrizione e
carenza vitaminica cronica. Forse c’è qualcosa che non funziona nel
nostro sistema economico e valoriale: se i nostri vantati regimi
liberaldemocratici “occidentali” e “aperti” non hanno altro modo per
difendersi dalle minacce esterne se non quello di sganciare
tonnellate di bombe “intelligenti” e “umanitarie” su misere
popolazioni del terzo mondo per “liberarle” dai loro regimi
oppressivi; se, per smaltire illegalmente, con la falsa
denominazione di “beni di seconda mano”, l’accumulo di rifiuti
elettronici ad alto tasso di inquinamento di colossi come Microsft,
Philips, Sony e Nokia si scelgono Paesi poveri come il Ghana o
l’India; se l’ideologia della produttività ad ogni costo e della
crescita illimitata, oltre ad aumentare gli sprechi e le scorie
tossiche, mette a rischio la stesso equilibrio ecologico globale, e
quindi la sopravvivenza dell’intera umanità, forse i nostri “stili
di vita” andrebbero drasticamente rivisti. La nostra responsabilità
di cittadini ormai “globali”, abitanti di un pianeta le cui risorse
non sono inesauribili, non può più limitarsi al tradizionale
antropocentrismo, cioè all’etica del qui e ora, al rapporto
dell’uomo con l’altro uomo, nel momento presente o, tuttalpiù,
nell’arco di una vita. Oggi il cittadino, abitante della
polis globale, deve (o
dovrebbe) prendersi carico non solo dei propri simili ma anche della
natura minacciata dall’uomo stesso; non per niente più che di etica
oggi si parla di bioetica. Ma, in definitiva, il problema è sempre
il medesimo: che senso ha la presenza umana su questa nostra madre
Terra che, per Santo Francesco “ne sustenta et governa”; oppure,
come dice il poeta della
Ginestra “madre è di parto e di voler matrigna”.
Fulvio Sguerso