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Un capitolo del libro dedicato in vari modi all'ambiente che sto per pubblicare

Sulle rovine della globalizzazione

GIULIO SAVE



Giulio Save

Nasce il pensiero ambientale?

Da qualche tempo (forse possiamo considerare un buon punto di partenza il vertice del WTO di Cancun del 2003. O giù di lì), le preoccupazioni per lo stato dell’ambiente e l’inquietudine per le condizioni generali di salute del nostro pianeta, insieme con la coscienza che è necessario e prioritario intervenire per cambiare radicalmente la direzione del corso degli eventi, si sporgono ormai con forza sul mondo del nostro vivere quotidiano. Dimostrando che il pensiero ambientale diffuso – di proposito cerco di evitare l’aggettivazione ambientalista che, probabilmente contro le genuine intenzioni di chi l’ha coniata, ne rappresenta di fatto la noiosissima derivazione integralista – sta superando la dura selezione delle primordiali fasi evolutive: la profetica, la predicatoria, la quaresimale, l’autoflagellante.

Si può ora [1] presentare sulla scena attrezzato con la serietà e la concreta progettualità operativa delle istanze assennate, documentate, scientificamente sostenibili, ragionevolmente condivisibili e propositive; e liberato, se vuole, dall’ingombro di tutte quelle banalità omologanti che per troppo tempo lo hanno fatto schiavo delle peggiori tipologie di rompicoglioni. E mi riferisco qui ovviamente non ai disinteressati amanti della natura, né ai coraggiosi e pre-veggenti sostenitori dell’identità d’interessi fra uomo e ambiente, ce ne sono tanti molto seri e scientificamente preparati, ma penso invece a quegli insulsi ciarlatani, distinguibili per la loro vacua e incontenibile verbosità, a quegli spocchiosi inflessibili paladini del nulla che hanno stretto nelle loro avvolgenti spire, soffocandoli, tutti quei progetti di futuro che rifiutavano di fondarsi su cose di “un certo tipo” su “dibattiti” e su quegli indefiniti “momenti d’aggregazione” che sono riusciti ad avvelenare anche le cose migliori della ricchissima stagione “sessantottesca”. Insomma, mi riferisco direttamente a quell’avvilita schiera di voluttuosi perdenti, costantemente alla ricerca di una nicchia qualsiasi in cui rifugiarsi ad analizzare l’equivoca fragranza delle proprie sconfitte. A quel sistema inerziale che, con il suo asfissiante superficiale integralismo, è stato sicuramente una fra le principali cause della ritardata presa di coscienza ambientale da parte della popolazione.

Bene. Era ora. Nel nostro piccolo, cercando faticosamente di salvare sempre l’aspetto scientifico e tecnico di ogni rivendicazione proprio per non svilirne il senso, anteponendo sempre i diritti della ragione alle richieste dell’ideologia, abbiamo lavorato anche per questo. È importante, adesso, far sì che proprio il mondo quotidiano si attrezzi per ricevere quelle sollecitazioni e per soddisfarle al meglio. La strada che, più di altre, ci può assicurare nel radicamento degli interessi la memoria delle cose e l’impulso ad operare efficacemente, è quella classica, anche se fredda e forse perfino un po’ cinica, che passa per (ma che non è) l’economia. Ne abbiamo detto qualcosa in altre note. Guardiamone in trasparenza qualche aspetto che non avevamo ancora considerato.

È in corso un certo ripensamento della validità dell’impostazione generale che ha condotto la nostra società fin qui e che potremmo definire di globalizzazione selvaggia, non solo per le sue evidenti carenze dal punto di vista ambientale, sociale e umano, ma anche per la sua sostanziale inidoneità dal punto di vista strettamente economico.

In quel vertice di Cancun non si trovarono ragionevoli accordi fra i paesi del WTO. Quelli ricchi, per difendere le loro economie, allarmate dalla previsione di un probabile rallentamento, decisero di non fare concessioni sulle politiche agricole (conservando ciascuno l’impostazione di sostegno economico ai propri agricoltori; cosa evidentemente penalizzante verso i prodotti agricoli provenienti dai paesi esterni), mentre i paesi poveri risposero con una rigida opposizione all’ingresso (invasione?) dei prodotti tecnologici stranieri e mantenendo il monopolio delle proprie produzioni (o almeno bloccando le liberalizzazioni dei settori tecnologici avanzati dove i paesi ricchi/sviluppati sono ovviamente più innovatori e più competitivi). È uno schema classico, da esercizio scolastico, che però basandosi esclusivamente su criteri di carattere puramente economico, direi perfino quasi rigidamente aritmetico-algebrico all’interno di un panorama temporale molto limitato, non può che portare a risultati incerti e sconfortanti. Risultati che peraltro si ripetono ciclicamente, privi del potere escludente di una memoria selettiva, con preoccupante regolarità. Un’ulteriore dimostrazione, di cui peraltro non si sentiva affatto il bisogno, che davvero “la storia insegna che non insegna niente a nessuno”. Questa è una delle conseguenze scoraggianti e perverse a cui ha portato l’applicazione rigida del modello del “liberismo” spinto, o anche solo lasciato andare, alle sue estreme conseguenze.

 

Leggi di mercato e consigli per gli acquisti.

Con l’occasione forse qui possiamo liberarci, come ci eravamo proposti all’inizio, almeno di un fastidioso luogo comune. Quello che vede affiancare, quasi come intercambiabili fra loro, esattamente convertibili ed essenzialmente equi-valenti, i concetti di “liberismo” e di “liberalismo”. Mentre i due significati sono differenti sostanzialmente, nell’intimo, e non devono affatto essere confusi; pena: non poter capire assolutamente nulla dei reali movimenti e moventi che caratterizzano l’economia.

Nonostante l’equivoca assonanza, il “liberismo” ha ben poco a che fare con il “liberalismo”. Vediamo se si può chiarire il punto una volta per tutte.

Liberalismo è una dottrina politico-filosofica, storica, che ha preso l’avvio da un movimento individualista sorto a difesa dei diritti umani del singolo, contro lo strapotere dello “stato” che, nella migliore delle ipotesi, sosteneva i diritti del cittadino. È dunque un sistema di pensiero che certamente merita grande rispetto; di forte spessore culturale, definita anche “religione della libertà” o “del dubbio sistematico” o della “libertà di fare ragionevolmente”. Nelle splendide parole scandite da Carlo Rosselli in quella specie di Bibbia laica che è “Socialismo liberale” troviamo:”…il liberalismo può definirsi come quella teoria politica che, partendo dal presupposto della libertà dello spirito umano, dichiara la libertà supremo fine, supremo mezzo, suprema regola dell’umana convivenza. Fine, in quanto si propone di conseguire un regime di vita associata che assicuri a tutti gli uomini la possibilità di un pieno svolgimento della loro personalità. Mezzo in quanto reputa che questa libertà non possa essere elargita o imposta, ma debba conquistarsi con duro personale travaglio nel perpetuo fluire delle generazioni. Esso concepisce le libertà non come un dato di natura, ma come divenire, sviluppo. Non si nasce, ma si diventa liberi.” Ecco cos’è veramente, in poche parole, il liberalismo; quello vero. Poi, proseguendo nella sua straordinaria definizione, Rosselli aggiunge che “…la libertà non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dalla emancipazione dal morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero fantasma.” e che “… il socialismo non è che lo sviluppo logico …del principio di libertà; …è liberalismo in azione, è libertà che si fa per la povera gente…” Qui, naturalmente ogniduno può dire la sua.

Il liberismo, invece, è solo un meccanismo, un dispositivo di funzione, un mero strumento d’azione; uno dei tanti elementi tecnico-applicativi di rango non più che ragionieristico che possono regolare il rapporto di una società civile con i beni economici che essa produce e che usa. Ma nulla a che vedere con alti principi ideali ed etici, con filosofie, con visioni del mondo e della società. Il suo opposto e dirimpettaio, il suo pari grado nello schieramento antagonista, il suo omologo in campo avverso, dunque, non è certo l’ illibertà o l’illiberalità o la mancanza di libertà o la sua carenza; come, per tentare di recuperare una parvenza di grandezza, vorrebbero far credere i petulanti nanetti inestirpabili untori del pensiero unico, ma è molto più prosaicamente il grigio dimesso e pericolosamente apprensivo protezionismo. Facciamoglielo sapere.

Già Croce (Storia d’Europa nel secolo decimonono) nel 1930 sottolineava, a proposito di liberismo e protezionismo, che se:” …si raccomanda o l’uno o l’altro non si può farlo se non con formole di valore affatto empirico; e tutto sta a cogliere nella pratica, caso per caso, nelle varie e mutevoli situazioni storiche, il punto giusto, che sarà pur quello economicamente giovevole, ma non sarà mai determinato da mere ed astratte considerazioni economiche.” ….

Insomma il liberismo, che come abbiamo visto non è una filosofia, non è nemmeno un apparato di salvaguardia morale, e neppure un protocollo di riferimento per verificare la giustezza di misure e decisioni, ma è molto più modestamente e semplicemente una tecnica d’intervento, uno strumento, un attrezzo. Niente di più. Il cui uso è legittimato, quando lo è, da considerazioni di esclusivo carattere tecnico che ne stabiliscono anche i confini applicativi. Ed è valorizzato solo dalla qualità del contenuto e dall’importanza del fine che lo muove e del risultato che riesce a raggiungere. Da valutarsi attentamente, sempre e comunque, caso per caso. Lo stesso Croce, e non qualche pericoloso sovversivo infiltratosi di nascosto nel ragionamento col suo logoro eskimo, non accetta e risolutamente respinge il tentativo di farlo diventare cifra identificativa del liberalismo:”…l’utopia del lasciar fare e lasciar passare, ossia dell’assoluto liberismo economico come panacea dei mali sociali, era smentita dai fatti.” E poi:” ..per dippiù, essendo rimasto il concetto di liberismo pigramente associato con quello di liberalismo, la sfiducia nella formula liberistica induceva sfiducia nella verità stessa della libertà politica, che è concetto di altro ordine e superiore.” Dunque, un semplice dispositivo, un arnese che, come tale, rifugge da qualsiasi giudizio di valore.

Il liberismo sfrenato assurto invece a sistema, l’economia di mercato applicata senza regole, e cito “La Stampa” della Fiat del 14 settembre 2003, e non uno dei quaderni piacentini del “magico ‘68”, “ha portato, dopo una fase entusiasmante di rapida apertura, al pericolo di tristi monopoli non più nazionali ma mondiali, al diradamento del mercato, ad accentuate instabilità finanziarie, alla necessità di interventi pubblici di salvataggio.”

Mentre si discute dappertutto di globalizzazione e quindi di diffusione e integrazione del mercato, l’economia mondiale si sta frammentando in accordi ristretti fra vicini, in intese spesso solo bilaterali – è il coinvolgimento minimo, evidentemente, perché si possa parlare di accordo; salvo il caso, credo unico al mondo, del Silvio nazionale che, rivestendo ormai tutti i possibili ruoli, può fare accordi solo con se stesso – con una sostanziale ritirata dal concetto stesso di mercato globale. Ma sappiamo che ad ogni ripiegamento corrisponde un’avanzata di segno opposto per intraprendere l’occupazione degli spazi che si sono liberati. È una legge ineludibile, bellica ma anche fisica, geometrica ma anche economica, algebrica e anche logica. In questo caso, c’è stata l’avanzata di un sistema di potere parallelo, intrusivo e insieme concertativo, quello delle “protezioni” e dei favori, quello delle agevolazioni e della “riconoscenza”, quel sistema diffuso in tutti gli apparati di potere ma che nulla ha a che fare né con il concetto vero di “pubblico” essendo l’assoluta negazione dello stato sociale seriamente inteso, né con quello opposto di “privato” sottraendosi di fatto al suo primo granitico comandamento: la libera concorrenza. Una sorta di autocontraddittoria economia di mercato a intermittenza o, diciamo così, “liberamente agevolata”.

Esempi di quest’ossimoro tecnico-concettuale promosso a sistema, ce ne sono un sacco. In America, il governo Bush che si diceva difensore del mercato e della libera iniziativa mentre contemporaneamente concedeva agevolazioni all’industria americana sotto forma di dazi sulle importazioni di acciaio e legname, e concedeva aiuti di stato alle compagnie aeree e agli agricoltori. Anche il governo francese è intervenuto direttamente e pesantemente per sostenere grandi affari e grandi industrie in difficoltà come Alsthom, mentre è tuttora proprietario dell’Edf, gigante della produzione di elettricità. In Italia il ministro dell’economia del governo Berlusconi accanito sostenitore, a parole, del libero mercato e della libera impresa, chiese a muso duro l’introduzione di solide barriere commerciali contro la Cina; senza capire o forse dimenticando, ma comunque trascurando il fatto che la Cina non è solamente fornitore a prezzi terribilmente bassi di alcuni prodotti concorrenti con i nostri, ma è anche ottimo possibile cliente commerciale per l’acquisto delle nostre produzioni. In Gran Bretagna il governo laburista ha nazionalizzato una banca [2] finita sull’orlo del fallimento in seguito alla crisi dei mutui sub-prime. O, ancora da noi, l’idea del prestito-ponte per Alitalia – idea della sinistra, realizzata dalla destra subentrata al governo del paese – che, facendosi beffe di tutte le regole del mercato, finirà per essere un finanziamento a fondo perduto pagato dalla collettività, per preparare il terreno ripulito da debiti e da “esuberi” alla cordata di amici-imprenditori che, se vorrà, potrà acquistarla a prezzo “di favore”[3]. E, ancora, proprio in questi giorni [4] il salvataggio di Freddie e Fannie da parte del governo americano con un intervento di entità colossale che costerà all’iperliberista contribuente-elettore americano qualche migliaio di miliardi di dollari. Insomma, difficile immaginare un mercato più “aggiustato” e meno libero.

Con quelle semplificazioni e quei fulminei innamoramenti, altrimenti impensabili ma che in queste situazioni evolutive di perenne transizione sono classici, ci si può senz’altro impegnare a dare un tocco di finta cultura a meri interessi di partito di parte e di casta rivalutando molto approssimativamente Colbert [5] quale economista padre e costante riferimento dei sostenitori a tutti i costi (letteralmente) dei prodotti nazionali contro l’”invasione” straniera. E, quando serve per sfuggire alla lucida e impietosa verità della concorrenza, perfino celebrare il presunto avvenuto superamento (in effetti un tentato accantonamento) di Adam Smith quale profeta del libero scambio. Sempre pronti comunque a tornare sui propri passi e ad invertire o rimescolare astutamente le proprie preferenze non appena se ne presenti vantaggiosa (per sé) l’occasione.

Al momento non si può ancora dire se la globalizzazione come grandioso fenomeno intimamente rivoluzionario di diffusione generale di libertà sia fallita o superata o solo sospesa; si può dire, però, che il risultato raggiunto, ad ora, è molto inferiore alle attese. Sì, questo si può proprio dire. Non c’è l’apertura completa dei mercati, non c’è la libertà d’impresa senza la mano opprimente dei governi, non c’è la redistribuzione della ricchezza come si poteva progettare o almeno sognare all’inizio. Né, tanto meno, si vedono tracce di quell’ipotesi, per certi versi egualitaristica, di diffusione delle opportunità che avrebbe dovuto sbocciare e aprirsi spontaneamente come conseguenza attesa della supposta azione stimolante e nel contempo stabilizzatrice e quasi redentrice delle leggi di mercato. Anzi, gli scandali finanziari tipo Enron in America, e in Italia tipo Cirio e Parmalat e dappertutto i mutui sub-prime, e chissà quanti altri, hanno dimostrato al mondo intero che il mercato molto libero riesce a trasmettere con inusitato e veemente spirito egualitario soltanto le situazioni più critiche.

 

Liberalizzazioni controllate

Definire un quadro così contraddittorio e incongruente come questo, con i semplici e molto intuitivi mezzi che ho scelto di tenere a disposizione in questo lavoro, è un’impresa terribilmente ardua e problematica. Provo, allora, a ricorrere di nuovo alla divertente (per me che ne scrivo, naturalmente) scappatoia lessicale dell’ossimoro. E la definizione di “liberalizzazione controllata”, con il suo carico di ambiguità e di possibili malintesi non completamente domati, e con il rischio di fraintendimento che equivocamente la pervade, rispecchia molto bene l’enigmaticità autocontraddittoria della situazione rappresentata, e mi pare che potrebbe senz’altro fare al caso nostro. Nel mondo reale questa finzione linguistica (la liberalizzazione controllata, dicevo) aspira ad eliminare furbescamente i rischi che l’apertura senza condizioni dei mercati comporterebbe naturalmente per chi, invece, della libera assunzione di quei rischi – a fronte di un non trascurabile corrispettivo stabilito comunque dalle proprie capacità di farsi valere nelle competizioni che propone costituzionalmente il libero mercato – teoricamente ha scelto di fare il proprio mestiere (per favore non parliamo di missioni). È una contraddizione evidente che dovrebbe attivare le funzioni di controllo e di difesa che una società come si deve tiene sempre pronte. Invece, su questa contraddizione, opportunamente guidata da politiche ultrasensibili agli interessi più potenti, si sono fondate abusivamente enormi fortune. Non c’è bisogno di mettersi a cercare tanto in giro per il mondo, ce ne sono esempi dappertutto. Anche in Italia, lo sappiamo bene.

Uno dei tanti modi per realizzarla è stato quello che i nostri hanno messo in atto con la “liberalizzazione” di alcuni enti pubblici già operanti in regime di sostanziale monopolio. Liberalizzazioni apparentemente giustificate, dunque. Ma nella realtà si sono dimostrate le solite operazioni “de noantri”, finte, o fatte su misura, o solo di facciata. Perché come tutti sanno una vera liberalizzazione si compone di due fasi principali, decisive, ed entrambe imprescindibili. E queste sono: a) la privatizzazione cioè il trasferimento, ai prezzi di mercato, della proprietà pubblica ai privati interessati; b) l’inserimento del soggetto privato in un mercato aperto alla concorrenza. Invece, quasi mai si sono verificate entrambe le condizioni. Quasi sempre nessuna delle due. E allora le liberalizzazioni di casa nostra si sono miseramente ridotte a semplici cessioni di proprietà, se non di vere e proprie svendite, nelle quali si è semplicemente sostituito il monopolio pubblico con quello privato; con ulteriore arricchimento di quei soliti happy few che dominano economia e finanza (e non solo quei quattro pirla dei “quartierini” mandati avanti a fare da parafulmine o perché “…a noi vien da ridere”) e il generale impoverimento di tutti gli altri.

I risultati che sono lì sotto gli occhi di tutti starebbero a dire che non sempre le privatizzazioni sono utili (utili ai più, alla società nel suo insieme, intendo; lo so anch’io che a qualcuno sono addirittura utilissime) e che, forse, sarebbe necessario un ripensamento che metta in discussione l’ansia di privatizzare il mondo intero che ha ormai conquistato ogni parte politica, sinistra [6] compresa (questa è addirittura più assatanata degli altri essendo ancora animata dal fuoco sacro della grande novità appena appresa).

L’organizzazione statale, non sempre si rivela un peso insopportabile per un’economia dinamica. Ovviamente, basta che funzioni. Per dire, i paesi del NordEuropa leader mondiali dell’innovazione (insieme agli USA), hanno sviluppato l’utilizzo delle tecnologie della conoscenza in un’organizzazione statale che ha conservato e perfino rafforzato il sistema organizzativo strutturato sulle tre tracce tipiche dello stato sociale della socialdemocrazia nordeuropea: una forte pressione fiscale, una consistente spesa sociale, una grande protezione dei lavoratori. Questi fattori che sono spesso indicati, per antica definizione, come pericolosi agenti inibitori dello sviluppo, dimostrano invece di poter essere, qualora applicati “come si deve”, i suoi più solidi fondamenti e i più efficaci incentivi.

 

E noi?

Per valutare rapidamente, a volo d’uccello, il grado di inserimento del nostro Paese nel processo di internazionalizzazione/globalizzazione e così capire, o quanto meno cominciare a fare ragionevoli ipotesi (devo essere molto guardingo quando affronto argomenti su cui ho ancora meno certezze che di solito) sulle ragioni che hanno portato l’Italia in fondo alle classifiche di produttività, competitività, reattività, dinamicità economiche a livello mondiale ed europeo, ho preso in considerazione alcuni elementi che mi sembrano particolarmente indicativi, andando a rivedere cosa ne è avvenuto negli ultimi anni.

1) Vediamo il flusso degli investimenti esteri, in entrata in Italia. Se facciamo un confronto con due paesi che nella prima metà degli anni ’90 si trovavano, sotto questo punto di vista, più o meno nella stessa situazione dell’Italia, abbiamo dei risultati veramente molto interessanti:

 

flusso investimenti esteri in entrata. In miliardi di dollari

 

anno 1995

anno 2000

Italia

3,3

11,4

Germania

3,3

176,0

Svezia

3,4

21,0

Nel 1995 Italia, Germania, Svezia ricevevano, dunque, pressappoco lo stesso flusso di investimento estero: un valore attorno ai 3,3-3,4 miliardi di dollari all’anno. Solo 5 anni dopo, nel 2000, i valori sono completamente cambiati, le curve d’andamento si sono ampiamente divaricate; con fattori moltiplicativi d’incremento rispetto al dato del 1995 che sono: poco più di 3 per l’Italia, oltre 6 per la Svezia e addirittura oltre 50 per la Germania. Evidentemente, siamo ritenuti poco interessanti.

2) Anche per quanto riguarda le nostre quote nella UE e nel Mondo, che pur registrano un certo aumento in valore assoluto, si nota che l’attrazione esercitata dal nostro mercato verso gli investimenti stranieri è sempre più scarsa:

flusso investimenti esteri in entrata. In miliardi di dollari

 

anno 1990

anno 2000

quota di flusso dell’Italia nell’UE

4,3%

1,8%

quota di flusso dell’Italia nel Mondo

1,8%

0,9%

Siamo ritenuti poco attraenti.

3) Se poi consideriamo il valore degli investimenti esteri in entrata in rapporto al capitale fisso, elemento che ci può dare un’idea forse più aderente alla situazione reale delle nostre specifiche potenzialità, si vede che mentre nella UE questi flussi rappresentano il 27,7%, in Italia non superano ancora il 3,1%!! Siamo ritenuti poco affidabili.

4) Anche l’indice di internazionalizzazione dell’economia che tiene conto di diversi fattori come la quota di investimenti in entrata e in uscita dal paese, o come la quota relativa dell’economia nazionale rispetto a quella mondiale in termini di PIL, o dell’occupazione, o del sistema di importazioni/esportazioni, dà risultati che sono sulla stessa linea. Questo è un indicatore piuttosto interessante e molto sintetico che convenzionalmente ci dice (io lo traduco qui molto grossolanamente) che quando il suo valore è i=1 il paese a cui si riferisce riesce a catturare investimenti esteri in proporzione diretta al proprio peso nell’economia mondiale; valori dell’indice i<1 indicano che questa sua capacità è scarsa; per valori i>1 naturalmente c’è l’invidiabile situazione di un Paese ritenuto interessante vivace affidabile dagli investitori esteri. Ebbene, l’Italia che 10 anni fa aveva un indice di buon livello pari a 1,1, si trova ora a meno della metà: i=0,5 che corrisponde agli ultimi posti della classifica mondiale. Siamo ritenuti dei provinciali.

Nonostante la diversità metodologica dei vari approcci, i risultati concordano nel rappresentarci una realtà economica italiana poco interessante, poco attraente, poco affidabile, provinciale. Voi investireste in un Paese con questi caratteri?

Bisogna, dunque, obiettivamente ammettere che nonostante tutte le acrobazie verbali che adottiamo e altre che volendo possiamo inventarci (siamo abilissimi in questo), il nostro Paese è in sensibile declino rispetto al passato anche recente e, comunque, rispetto ai paesi con i quali abbiamo l’ambizione di confrontarci. Il nostro ruolo diventa sempre più marginale.

C’è poco da aggiungere a questi dati. Se non che devono avere delle cause ben precise, da ricercare.

 

Un mondo non esiste più. Un altro non esiste ancora

Ma per una migliore comprensione dei rapporti fra ambiente ed economia, che è argomento di queste note, dobbiamo tornare ad allargare un momento lo sguardo per cercare di cogliere qualche altro segnale dal sistema economico/produttivo globale.

Si è intanto chiarito un punto fondamentale, il cui riconoscimento non è stato così semplice e automatico come avrebbe dovuto, talmente evidente è la sua drammatica consistenza; e il punto è questo: per salvaguardare i cittadini e l’ambiente e il loro vitale rapporto, è necessario trovare equilibri più adeguati tra le grandi funzioni economiche e sociali essenziali: quelle pubbliche e quelle private; o, secondo una terminologia molto usata anche se talmente imprecisa da risultare spesso fuorviante, fra stato e mercato. Da questo punto di vista la globalizzazione è stata fondamentalmente asimmetrica e la grande espansione dei mercati che essa ha attivato non è stata accompagnata da analoga espansione della società civile. In altre parole c’è stato un “trasferimento del potere da autorità che erano gerarchiche ma anche pubbliche, trasparenti e verificabili, verso autorità che sono ugualmente gerarchiche, ma private, non trasparenti e non democratiche.” La pressione non solo economica sulla parte più debole della popolazione mondiale è diventata insopportabile e, forse, non è lontana dal provocare qualche “scontento”.

Ma non è tutto. La globalizzazione, così come si è sviluppata, ormai possiamo dirlo, ha mantenuto pochissime delle sue rosee illusorie promesse. Invece di diffondere i sistemi economici e produttivi più giusti ed efficienti e i comportamenti sociali più virtuosi, ha messo drammaticamente in crisi il sistema generale facilitando l’universale diffusione per contagio di crisi iniziate in ambito locale o strettamente settoriale. Si può pensare al caso dei sub-prime da una parte e all’incontrollabile flusso migratorio dall’altra. Quello che si è attivato è un meccanismo perverso che, se lasciato a sé, andrà ad attaccare anche il sistema delle economie reali e dei rapporti fra popolazioni e fra strati sociali. Le famose leggi del libero mercato che secondo i loro ciechi adoratori avrebbero dovuto liberamente (!) controllare i prezzi, sono sfuggite di mano (o forse lasciate andare volentieri) e di controllo automatico e calmieratore dei prezzi non si ha traccia. Se ne vede chiaramente, invece, il lato peggiore: l’enorme aumento degli scambi commerciali ha reso assai più facili le istantanee variazioni di prezzo dei materiali, vedi petrolio, prodotti agricoli e alimentari. Certo, se gli innumerevoli (ma quanto veramente utili?) enti di controllo avessero avviato interventi coordinati, più tempestivi e più incisivi, avrebbero potuto ammortizzare qualcuno di quei dirompenti scossoni che hanno destabilizzato soprattutto le economie meno protette, ma non l’hanno fatto. O non l’hanno fatto in maniera sufficiente.

Ma, come diceva spesso De Mita: “il problema è un altro”. Ed è che questa globalizzazione, con queste regole di mercato, con questa mancanza totale d’indirizzo, più che un radicale rinnovamento di rapporti nella piena libertà di tutti, sembra piuttosto un ultimo tentativo gattopardesco di cambiare qualcosa affinché nulla cambi. I risultati incontrovertibili che rappresentano un continuo allargamento della forbice fra ricchi e poveri del mondo, con i ricchi sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri, lo confermerebbero. Forse ha ragione Flavio Baroncelli quando dice in una delle sue ferocissime battute fulminanti che questa globalizzazione non è altro che ”la liberazione del capitalismo dalle sue catene” [7].

Il mondo su cui tutto questo sistema si è lungamente regolato ormai non esiste più. E il mondo nuovo non c’è ancora.

Tutto sommato è un’occasione meravigliosamente ricca di costruire un po’ del nostro futuro.

 Giulio Save   Osservatorio per la Qualità della Vita

[1] non sempre, ma diciamo che siamo sulla buona strada

[2] la Northern Rock, da La Stampa del 6 agosto 2008

[3] su questo punto non posso fare a meno di inserire uno spunto dall’articolo che Luca Ricolfi ha scritto su “La Stampa” del 31 agosto 2008 e che sembra fatto apposta: ”Ci sono sistemi particolaristici, o corporativi, in cui moltissimo dipende dai legami con il potere politico, e assai poco dal talento individuale, dall’innovazione, dal duro lavoro: le regole si fanno e si disfanno continuamente, e la discrezionalità di politici e amministratori è massima, perché c’è una giungla di concessioni, autorizzazioni, deroghe, concertazioni, agevolazioni, incentivazioni. Il caso Alitalia, in cui le regole antitrust sono state sospese per favorire un disegno politico, è un esempio da manuale di come operano i sistemi di questo tipo.”

Lo stesso Economist (secondo la Stampa del 5 settembre 2008) dice che il piano di salvataggio dell’Alitalia è sbagliato e costoso. Costerà a ciascun contribuente italiano 125 euro per un totale di circa 5 miliardi di euro.

[4] Settembre 2008

[5] Riporto qui, integralmente, la nota sul personaggio di Jacob Burckhardt nel suo “Considerazioni sulla storia universale”:”Jean Baptiste Colbert (1619-1683), figlio di mercanti, attraverso la protezione del cardinal Mazzarino riuscì ad ottenre il favore di Luigi XIV, di cui divenne ministro delle Finanze. Attraverso una fitta rete di tributi e controlli, instaurò una severa politica mercantilistica accentratrice e disciplinatrice. Le sue audaci riforme amministrative vanno sotto il nome di sistema di Colbert”.

[6] Continuo a chiamarla così solo per semplicità di riferimento.

[7] Flavio Baroncelli (1944-2007) Viaggio al termine degli Stati Uniti