versione stampabile Un capitolo del libro dedicato in vari modi all'ambiente che sto per pubblicare
Sulle rovine della
globalizzazione
|
Giulio Save |
Nasce il pensiero
ambientale? |
Si può ora
[1] presentare
sulla scena attrezzato con la serietà e la concreta progettualità
operativa delle istanze assennate, documentate, scientificamente
sostenibili, ragionevolmente condivisibili e propositive; e liberato, se
vuole, dall’ingombro di tutte quelle banalità omologanti che per troppo
tempo lo hanno fatto schiavo delle peggiori tipologie di rompicoglioni.
E mi riferisco qui ovviamente non ai disinteressati amanti della natura,
né ai coraggiosi e pre-veggenti sostenitori dell’identità d’interessi
fra uomo e ambiente, ce ne sono tanti molto seri e scientificamente
preparati, ma penso invece a quegli insulsi ciarlatani, distinguibili
per la loro vacua e incontenibile verbosità, a quegli spocchiosi
inflessibili paladini del nulla
che hanno stretto nelle loro avvolgenti spire, soffocandoli, tutti quei
progetti di futuro che rifiutavano di fondarsi su cose di
“un certo tipo” su
“dibattiti” e su quegli
indefiniti “momenti
d’aggregazione” che sono riusciti ad avvelenare anche le cose
migliori della ricchissima stagione
“sessantottesca”. Insomma, mi
riferisco direttamente a quell’avvilita schiera di voluttuosi perdenti,
costantemente alla ricerca di una nicchia qualsiasi in cui rifugiarsi ad
analizzare l’equivoca fragranza delle proprie sconfitte. A quel sistema
inerziale che, con il suo asfissiante superficiale integralismo, è stato
sicuramente una fra le principali cause della
ritardata presa di coscienza
ambientale da parte della popolazione.
Bene. Era ora.
Nel nostro piccolo, cercando faticosamente di salvare sempre l’aspetto
scientifico e tecnico di ogni rivendicazione proprio per non svilirne il
senso, anteponendo sempre i diritti della ragione alle richieste
dell’ideologia, abbiamo lavorato anche per questo. È importante, adesso,
far sì che proprio il mondo quotidiano si attrezzi per ricevere quelle
sollecitazioni e per soddisfarle al meglio. La strada che, più di altre,
ci può assicurare nel radicamento degli interessi la memoria delle cose
e l’impulso ad operare efficacemente, è quella classica, anche se fredda
e forse perfino un po’ cinica, che passa per (ma che
non è) l’economia. Ne abbiamo
detto qualcosa in altre note. Guardiamone in trasparenza
qualche aspetto che non avevamo ancora
considerato.
È in corso un
certo ripensamento della validità dell’impostazione generale che ha
condotto la nostra società fin qui e che potremmo definire di
globalizzazione selvaggia,
non solo per le sue evidenti carenze dal punto di vista ambientale,
sociale e umano, ma anche per la sua sostanziale inidoneità dal punto di
vista strettamente economico.
In quel vertice
di Cancun non si trovarono ragionevoli accordi fra i paesi del WTO.
Quelli ricchi, per difendere le loro economie, allarmate dalla
previsione di un probabile rallentamento, decisero di non fare
concessioni sulle politiche agricole (conservando ciascuno
l’impostazione di sostegno economico ai propri agricoltori; cosa
evidentemente penalizzante verso i prodotti agricoli
provenienti dai paesi esterni), mentre i paesi poveri risposero con una
rigida opposizione all’ingresso (invasione?) dei prodotti tecnologici
stranieri e mantenendo il monopolio delle proprie produzioni (o almeno
bloccando le liberalizzazioni dei settori tecnologici avanzati dove i
paesi ricchi/sviluppati sono ovviamente più
innovatori e più competitivi). È uno schema classico, da esercizio
scolastico, che però basandosi esclusivamente su criteri di carattere
puramente economico, direi perfino quasi rigidamente
aritmetico-algebrico all’interno di un panorama temporale molto
limitato, non può che portare a risultati incerti e sconfortanti.
Risultati che peraltro si ripetono ciclicamente, privi del potere
escludente di una memoria selettiva, con preoccupante regolarità.
Un’ulteriore dimostrazione, di cui peraltro non si sentiva affatto il
bisogno, che davvero “la storia
insegna che non insegna niente a nessuno”. Questa è una delle
conseguenze scoraggianti e perverse a cui ha portato l’applicazione
rigida del modello del
“liberismo” spinto, o anche solo lasciato andare, alle sue estreme
conseguenze.
Leggi di mercato
e consigli per gli acquisti.
Con l’occasione forse qui possiamo liberarci, come ci eravamo proposti
all’inizio, almeno di un fastidioso luogo comune. Quello che vede
affiancare, quasi come intercambiabili fra loro, esattamente
convertibili ed essenzialmente equi-valenti, i concetti di
“liberismo” e di
“liberalismo”. Mentre i due
significati sono differenti sostanzialmente, nell’intimo, e non devono
affatto essere confusi; pena: non poter
capire assolutamente nulla dei reali movimenti e moventi che
caratterizzano l’economia.
Nonostante
l’equivoca assonanza, il
“liberismo” ha ben poco a che fare con il
“liberalismo”. Vediamo se si
può chiarire il punto una volta per tutte.
Liberalismo è una
dottrina politico-filosofica, storica, che ha preso l’avvio da un
movimento individualista sorto a difesa dei
diritti umani del singolo,
contro lo strapotere dello “stato” che, nella migliore delle ipotesi,
sosteneva i diritti del cittadino.
È dunque un sistema di pensiero che certamente merita grande rispetto;
di forte spessore culturale, definita anche
“religione della libertà” o
“del dubbio sistematico” o
della “libertà di fare
ragionevolmente”. Nelle splendide parole scandite da Carlo Rosselli
in quella specie di Bibbia laica che è
“Socialismo liberale”
troviamo:”…il liberalismo può
definirsi come quella teoria politica che, partendo dal presupposto
della libertà dello spirito umano, dichiara la libertà supremo fine,
supremo mezzo, suprema regola dell’umana convivenza. Fine, in quanto si
propone di conseguire un regime di vita associata che assicuri a tutti
gli uomini la possibilità di un pieno svolgimento della loro
personalità. Mezzo in quanto reputa che questa libertà non possa essere
elargita o imposta, ma debba conquistarsi con duro personale travaglio
nel perpetuo fluire delle generazioni. Esso concepisce le libertà non
come un dato di natura, ma come divenire, sviluppo. Non si nasce, ma si
diventa liberi.” Ecco cos’è veramente, in poche parole, il
liberalismo; quello vero.
Poi, proseguendo nella sua straordinaria definizione, Rosselli aggiunge
che “…la libertà non accompagnata
e sorretta da un minimo di autonomia economica, dalla emancipazione dal
morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero
fantasma.” e che “… il
socialismo non è che lo sviluppo logico …del principio di libertà; …è
liberalismo in azione, è libertà che si fa per la povera gente…”
Qui, naturalmente ogniduno
può dire la sua.
Il liberismo,
invece, è solo un meccanismo, un dispositivo di funzione, un mero
strumento d’azione; uno dei tanti elementi tecnico-applicativi di rango
non più che ragionieristico che possono regolare il rapporto di una
società civile con i beni economici che essa produce e che usa. Ma nulla
a che vedere con alti principi ideali ed etici, con filosofie, con
visioni del mondo e della società. Il suo opposto e dirimpettaio, il suo
pari grado nello schieramento antagonista, il suo omologo in campo
avverso, dunque, non è certo l’ illibertà o l’illiberalità o la mancanza
di libertà o la sua carenza; come, per tentare di recuperare una
parvenza di grandezza, vorrebbero far credere i petulanti nanetti
inestirpabili untori del pensiero unico, ma è molto più prosaicamente il
grigio dimesso e pericolosamente apprensivo
protezionismo. Facciamoglielo
sapere.
Già Croce
(Storia d’Europa nel secolo
decimonono)
nel 1930 sottolineava, a proposito di liberismo e protezionismo, che
se:” …si raccomanda o l’uno o
l’altro non si può farlo se non con formole di valore affatto empirico;
e tutto sta a cogliere nella pratica, caso per caso, nelle varie e
mutevoli situazioni storiche, il punto giusto, che sarà pur quello
economicamente giovevole, ma non sarà mai determinato da mere ed
astratte considerazioni economiche.” ….
Insomma il
liberismo, che come abbiamo visto non è una filosofia, non è nemmeno un
apparato di salvaguardia morale, e neppure un protocollo di riferimento
per verificare la giustezza di misure e decisioni, ma è molto più
modestamente e semplicemente una tecnica d’intervento, uno strumento, un
attrezzo. Niente di più. Il cui uso è legittimato, quando lo è, da
considerazioni di esclusivo carattere tecnico che ne stabiliscono anche
i confini applicativi. Ed è valorizzato solo dalla qualità del contenuto
e dall’importanza del fine che lo muove e del risultato che riesce a
raggiungere. Da valutarsi attentamente, sempre e comunque, caso per
caso. Lo stesso Croce, e non qualche pericoloso sovversivo infiltratosi
di nascosto nel ragionamento col suo logoro eskimo, non accetta e
risolutamente respinge il tentativo di farlo diventare cifra
identificativa del liberalismo:”…l’utopia
del lasciar fare e lasciar passare, ossia dell’assoluto liberismo
economico come panacea dei mali sociali, era smentita dai fatti.” E
poi:” ..per dippiù, essendo
rimasto il concetto di liberismo pigramente associato con quello di
liberalismo, la sfiducia nella formula liberistica induceva sfiducia
nella verità stessa della libertà politica, che è concetto di altro
ordine e superiore.” Dunque, un semplice dispositivo, un arnese che,
come tale, rifugge da qualsiasi giudizio di valore. Il liberismo
sfrenato assurto invece a sistema, l’economia di mercato applicata senza
regole, e cito “La Stampa” della Fiat del 14 settembre 2003, e non uno
dei quaderni piacentini del
“magico ‘68”, “ha portato, dopo
una fase entusiasmante di rapida apertura, al pericolo di tristi
monopoli non più nazionali ma mondiali, al diradamento del mercato, ad
accentuate instabilità finanziarie, alla necessità di interventi
pubblici di salvataggio.”
Mentre si discute dappertutto di globalizzazione e
quindi di diffusione e integrazione del mercato, l’economia mondiale si
sta frammentando in accordi ristretti fra vicini, in intese spesso solo
bilaterali – è il coinvolgimento minimo, evidentemente, perché si possa
parlare di accordo; salvo il caso, credo unico al mondo, del Silvio
nazionale che, rivestendo ormai tutti i possibili ruoli, può fare
accordi solo con se stesso –
con una sostanziale ritirata dal concetto stesso di mercato globale. Ma
sappiamo che ad ogni ripiegamento corrisponde un’avanzata di segno
opposto per intraprendere l’occupazione degli spazi che si sono
liberati. È una legge ineludibile, bellica ma anche fisica, geometrica
ma anche economica, algebrica e anche logica. In questo caso, c’è stata
l’avanzata di un sistema di potere parallelo, intrusivo e insieme
concertativo, quello delle “protezioni” e dei favori, quello delle
agevolazioni e della “riconoscenza”, quel sistema diffuso in tutti gli
apparati di potere ma che nulla ha a che fare né con il concetto vero di
“pubblico” essendo l’assoluta negazione dello stato sociale seriamente
inteso, né con quello opposto di “privato” sottraendosi di fatto al suo
primo granitico comandamento: la libera concorrenza. Una sorta di
autocontraddittoria economia di mercato a intermittenza o, diciamo così,
“liberamente agevolata”.
Esempi di quest’ossimoro tecnico-concettuale
promosso a sistema, ce ne sono un sacco. In America, il governo Bush che
si diceva difensore del mercato e della libera iniziativa mentre
contemporaneamente concedeva agevolazioni all’industria americana sotto
forma di dazi sulle importazioni di acciaio e legname, e concedeva aiuti
di stato alle compagnie aeree e agli agricoltori. Anche il governo
francese è intervenuto direttamente e pesantemente per sostenere grandi
affari e grandi industrie in difficoltà come Alsthom, mentre è tuttora
proprietario dell’Edf, gigante della produzione di elettricità. In
Italia il ministro dell’economia del governo Berlusconi accanito
sostenitore, a parole, del libero mercato e della libera impresa, chiese
a muso duro l’introduzione di solide barriere commerciali contro la
Cina; senza capire o forse dimenticando, ma comunque trascurando il
fatto che la Cina non è solamente fornitore a prezzi terribilmente bassi
di alcuni prodotti concorrenti con i nostri, ma è anche ottimo possibile
cliente commerciale per l’acquisto delle nostre produzioni. In Gran
Bretagna il governo laburista ha nazionalizzato una banca
[2] finita
sull’orlo del fallimento in seguito alla crisi dei mutui sub-prime.
O, ancora da noi, l’idea del
prestito-ponte per Alitalia – idea della sinistra, realizzata dalla
destra subentrata al governo del paese – che, facendosi beffe di tutte
le regole del mercato, finirà per essere un finanziamento a fondo
perduto pagato dalla collettività, per preparare il terreno ripulito da
debiti e da “esuberi” alla cordata di amici-imprenditori che, se vorrà,
potrà acquistarla a prezzo “di favore”[3].
E, ancora, proprio in questi giorni
[4] il
salvataggio di Freddie e Fannie da parte del governo americano con un
intervento di entità colossale che costerà all’iperliberista
contribuente-elettore americano qualche migliaio di miliardi di dollari.
Insomma, difficile immaginare un mercato più “aggiustato” e meno libero.
Con quelle semplificazioni e quei fulminei
innamoramenti, altrimenti impensabili ma che in queste situazioni
evolutive di perenne transizione sono classici, ci si può senz’altro
impegnare a dare un tocco di finta cultura a meri interessi di partito
di parte e di casta rivalutando molto approssimativamente Colbert
[5] quale
economista padre e costante riferimento dei sostenitori a tutti i costi
(letteralmente) dei prodotti nazionali contro l’”invasione” straniera.
E, quando serve per sfuggire alla lucida e impietosa verità della
concorrenza, perfino celebrare il presunto avvenuto superamento (in
effetti un tentato accantonamento) di Adam Smith quale profeta del
libero scambio. Sempre pronti comunque a tornare sui propri passi e ad
invertire o rimescolare astutamente le proprie preferenze non appena se
ne presenti vantaggiosa (per sé) l’occasione. Al momento
non si può ancora dire se la globalizzazione come grandioso fenomeno
intimamente rivoluzionario di diffusione generale di libertà sia fallita
o superata o solo sospesa; si può dire, però, che il risultato
raggiunto, ad ora, è molto inferiore alle attese. Sì, questo si può
proprio dire. Non c’è l’apertura completa dei mercati, non c’è la
libertà d’impresa senza la mano opprimente dei governi, non c’è la
redistribuzione della ricchezza come si poteva progettare o almeno
sognare all’inizio. Né, tanto meno, si vedono tracce di quell’ipotesi,
per certi versi egualitaristica, di diffusione delle opportunità che
avrebbe dovuto sbocciare e aprirsi spontaneamente come conseguenza
attesa della supposta azione stimolante e nel contempo stabilizzatrice e
quasi redentrice delle leggi di mercato.
Anzi, gli scandali finanziari tipo Enron in America, e in Italia
tipo Cirio e Parmalat e dappertutto i mutui sub-prime, e chissà quanti
altri, hanno dimostrato al mondo intero che il mercato molto libero
riesce a trasmettere con inusitato e veemente spirito egualitario
soltanto le situazioni più critiche.
Liberalizzazioni
controllate Definire un
quadro così contraddittorio e incongruente come questo, con i semplici e
molto intuitivi mezzi che ho scelto di tenere a disposizione in questo
lavoro, è un’impresa terribilmente ardua e problematica. Provo, allora,
a ricorrere di nuovo alla divertente (per me che ne scrivo,
naturalmente) scappatoia lessicale dell’ossimoro. E la definizione di
“liberalizzazione controllata”,
con il suo carico di ambiguità e di
possibili malintesi non completamente domati, e con il rischio di
fraintendimento che equivocamente la pervade, rispecchia molto bene
l’enigmaticità autocontraddittoria della situazione rappresentata, e mi
pare che potrebbe senz’altro fare al caso nostro. Nel mondo reale
questa finzione linguistica (la liberalizzazione controllata, dicevo)
aspira ad eliminare furbescamente
i rischi che l’apertura senza condizioni dei mercati comporterebbe
naturalmente per chi, invece, della libera assunzione di quei rischi – a
fronte di un non trascurabile corrispettivo stabilito comunque dalle
proprie capacità di farsi valere nelle competizioni che propone
costituzionalmente il libero mercato – teoricamente ha scelto di fare il
proprio mestiere (per favore non parliamo di missioni). È una
contraddizione evidente che dovrebbe attivare le funzioni di controllo e
di difesa che una società come si deve tiene sempre pronte. Invece, su
questa contraddizione, opportunamente guidata da politiche
ultrasensibili agli interessi più potenti, si sono fondate abusivamente
enormi fortune. Non c’è bisogno di mettersi a cercare tanto in giro per
il mondo, ce ne sono esempi dappertutto. Anche in Italia, lo sappiamo
bene.
Uno dei tanti
modi per realizzarla è stato quello che i nostri hanno messo in atto con
la “liberalizzazione” di alcuni enti pubblici già operanti in regime di
sostanziale monopolio. Liberalizzazioni apparentemente giustificate,
dunque. Ma nella realtà si sono dimostrate le solite operazioni
“de noantri”, finte, o fatte
su misura, o solo di facciata. Perché come tutti sanno una vera
liberalizzazione si compone di due fasi principali, decisive, ed
entrambe imprescindibili. E queste sono:
a) la privatizzazione cioè il
trasferimento, ai prezzi di mercato, della proprietà pubblica ai privati
interessati; b) l’inserimento
del soggetto privato in un mercato aperto alla concorrenza. Invece,
quasi mai si sono verificate entrambe le condizioni. Quasi sempre
nessuna delle due. E allora le liberalizzazioni di casa nostra si sono
miseramente ridotte a semplici cessioni di proprietà, se non di vere e
proprie svendite, nelle quali si è semplicemente sostituito il monopolio
pubblico con quello privato; con ulteriore arricchimento di quei soliti
happy few che dominano
economia e finanza (e non solo quei quattro pirla dei “quartierini”
mandati avanti a fare da parafulmine o perché “…a noi vien da ridere”) e
il generale impoverimento di tutti gli altri.
I risultati che sono lì sotto gli occhi di tutti
starebbero a dire che non sempre le privatizzazioni sono utili (utili ai
più, alla società nel suo insieme, intendo; lo so anch’io che a qualcuno
sono addirittura utilissime) e che, forse, sarebbe necessario un
ripensamento che metta in discussione l’ansia di privatizzare il mondo
intero che ha ormai conquistato ogni parte politica, sinistra
[6] compresa
(questa è addirittura più assatanata degli altri essendo ancora animata
dal fuoco sacro della grande novità appena appresa).
L’organizzazione
statale, non sempre si rivela un peso insopportabile per un’economia
dinamica. Ovviamente, basta che funzioni. Per dire, i paesi del
NordEuropa leader mondiali dell’innovazione (insieme agli USA), hanno
sviluppato l’utilizzo delle tecnologie della conoscenza in
un’organizzazione statale che ha conservato e perfino rafforzato il
sistema organizzativo strutturato sulle tre tracce tipiche dello stato
sociale della socialdemocrazia nordeuropea: una forte pressione fiscale,
una consistente spesa sociale, una grande protezione dei lavoratori.
Questi fattori che sono spesso indicati, per antica definizione, come
pericolosi agenti inibitori dello
sviluppo, dimostrano invece di poter essere, qualora applicati “come
si deve”, i suoi più solidi
fondamenti e i più efficaci incentivi.
E noi? Per valutare
rapidamente, a volo d’uccello, il grado di inserimento del nostro Paese
nel processo di internazionalizzazione/globalizzazione e così capire, o
quanto meno cominciare a fare ragionevoli ipotesi (devo essere molto
guardingo quando affronto argomenti su cui ho ancora meno certezze che
di solito) sulle ragioni che hanno portato l’Italia in fondo alle
classifiche di produttività, competitività, reattività, dinamicità
economiche a livello mondiale ed europeo, ho preso in considerazione
alcuni elementi che mi sembrano particolarmente indicativi, andando a
rivedere cosa ne è avvenuto negli ultimi anni. 1) Vediamo il
flusso degli investimenti esteri,
in entrata in Italia. Se facciamo un confronto con due paesi che nella
prima metà degli anni ’90 si trovavano, sotto questo punto di vista, più
o meno nella stessa situazione dell’Italia, abbiamo dei risultati
veramente molto interessanti:
flusso investimenti esteri in entrata. In miliardi
di dollari
Nel 1995 Italia, Germania, Svezia ricevevano,
dunque, pressappoco lo stesso flusso di investimento estero: un valore
attorno ai 3,3-3,4 miliardi di dollari all’anno. Solo 5 anni dopo, nel
2000, i valori sono completamente cambiati, le curve d’andamento si sono
ampiamente divaricate; con fattori moltiplicativi d’incremento rispetto
al dato del 1995 che sono: poco più di 3 per l’Italia, oltre 6 per la
Svezia e addirittura oltre 50 per la Germania. Evidentemente, siamo
ritenuti
poco interessanti. 2) Anche per
quanto riguarda le nostre quote
nella UE e nel Mondo, che pur registrano un certo aumento in valore
assoluto, si nota che l’attrazione esercitata dal nostro mercato verso
gli investimenti stranieri è sempre più scarsa:
flusso investimenti esteri in entrata. In miliardi
di dollari
Siamo ritenuti
poco
attraenti.
3) Se poi consideriamo il valore degli
investimenti esteri in entrata in
rapporto al capitale fisso, elemento che ci può dare un’idea forse
più aderente alla situazione reale delle nostre specifiche potenzialità,
si vede che mentre nella UE questi flussi rappresentano il 27,7%, in
Italia non superano ancora il 3,1%!! Siamo ritenuti
poco
affidabili.
4) Anche l’indice
di internazionalizzazione dell’economia che tiene conto di diversi
fattori come la quota di investimenti in entrata e in uscita dal paese,
o come la quota relativa dell’economia nazionale rispetto a quella
mondiale in termini di PIL, o dell’occupazione, o del sistema di
importazioni/esportazioni, dà risultati che sono sulla stessa linea.
Questo è un indicatore piuttosto interessante e molto sintetico che
convenzionalmente ci dice (io lo traduco qui molto grossolanamente) che
quando il suo valore è i=1 il
paese a cui si riferisce riesce a catturare investimenti esteri in
proporzione diretta al proprio peso nell’economia mondiale; valori
dell’indice i<1 indicano che
questa sua capacità è scarsa; per valori
i>1 naturalmente c’è
l’invidiabile situazione di un Paese ritenuto interessante vivace
affidabile dagli investitori esteri. Ebbene, l’Italia che 10 anni fa
aveva un indice di buon livello pari a
1,1, si trova ora a meno
della metà: i=0,5 che
corrisponde agli ultimi posti della classifica mondiale. Siamo ritenuti
dei
provinciali.
Nonostante la
diversità metodologica dei vari approcci, i risultati concordano nel
rappresentarci una realtà
economica italiana poco interessante, poco attraente, poco affidabile,
provinciale. Voi investireste in un Paese con questi caratteri?
Bisogna, dunque,
obiettivamente ammettere che nonostante tutte le acrobazie verbali che
adottiamo e altre che volendo possiamo inventarci (siamo abilissimi in
questo), il nostro Paese è in sensibile declino rispetto al passato
anche recente e, comunque, rispetto ai paesi con i quali abbiamo
l’ambizione di confrontarci. Il nostro ruolo diventa sempre più
marginale.
C’è poco da
aggiungere a questi dati. Se non che devono avere delle cause ben
precise, da ricercare.
Un mondo non esiste più. Un
altro non esiste ancora Ma
per una migliore comprensione dei rapporti
fra ambiente ed economia, che è argomento di queste note, dobbiamo
tornare ad allargare un momento lo sguardo per cercare di cogliere
qualche altro segnale dal sistema economico/produttivo globale. Si è intanto
chiarito un punto fondamentale, il cui riconoscimento non è stato così
semplice e automatico come avrebbe dovuto, talmente evidente è la sua
drammatica consistenza; e il punto è questo: per salvaguardare i
cittadini e l’ambiente e il loro vitale rapporto, è necessario trovare
equilibri più adeguati tra le grandi funzioni economiche e sociali
essenziali: quelle pubbliche e quelle private; o,
secondo una terminologia molto usata anche se
talmente imprecisa da risultare spesso fuorviante, fra
stato e mercato. Da questo
punto di vista la globalizzazione è stata fondamentalmente asimmetrica e
la grande espansione dei mercati che essa ha attivato non è stata
accompagnata da analoga espansione della società civile. In altre parole
c’è stato un “trasferimento del
potere da autorità che erano gerarchiche ma anche pubbliche, trasparenti
e verificabili, verso autorità che sono ugualmente gerarchiche, ma
private, non trasparenti e non democratiche.” La pressione non solo
economica sulla parte più debole della popolazione mondiale è diventata
insopportabile e, forse, non è lontana dal provocare qualche
“scontento”.
Ma non è tutto.
La globalizzazione, così come si è sviluppata, ormai possiamo dirlo, ha
mantenuto pochissime delle sue rosee illusorie promesse. Invece di
diffondere i sistemi economici e produttivi più giusti ed efficienti e i
comportamenti sociali più virtuosi, ha messo drammaticamente in crisi il
sistema generale facilitando l’universale diffusione per contagio di
crisi iniziate in ambito locale o strettamente settoriale. Si può
pensare al caso dei sub-prime
da una parte e all’incontrollabile flusso migratorio dall’altra. Quello
che si è attivato è un meccanismo perverso che, se lasciato a sé, andrà
ad attaccare anche il sistema delle economie reali e dei rapporti fra
popolazioni e fra strati sociali. Le famose leggi del libero mercato che
secondo i loro ciechi adoratori avrebbero dovuto liberamente (!)
controllare i prezzi, sono sfuggite di mano (o forse lasciate andare
volentieri) e di controllo automatico e calmieratore dei prezzi non si
ha traccia. Se ne vede chiaramente, invece, il lato peggiore: l’enorme
aumento degli scambi commerciali ha reso assai più facili le istantanee
variazioni di prezzo dei materiali, vedi petrolio, prodotti agricoli e
alimentari. Certo, se gli innumerevoli (ma quanto veramente utili?) enti
di controllo avessero avviato interventi coordinati, più tempestivi e
più incisivi, avrebbero potuto ammortizzare qualcuno di quei dirompenti
scossoni che hanno destabilizzato soprattutto le economie meno protette,
ma non l’hanno fatto. O non l’hanno fatto in maniera sufficiente.
Ma, come diceva spesso De Mita:
“il problema è un altro”. Ed
è che questa globalizzazione, con queste regole di mercato, con questa
mancanza totale d’indirizzo, più che un radicale rinnovamento di
rapporti nella piena libertà di tutti, sembra piuttosto un ultimo
tentativo gattopardesco di
cambiare qualcosa affinché nulla cambi. I risultati
incontrovertibili che rappresentano un continuo allargamento della
forbice fra ricchi e poveri del mondo, con i ricchi sempre più ricchi ed
i poveri sempre più poveri, lo confermerebbero. Forse ha ragione Flavio
Baroncelli quando dice in una delle sue ferocissime battute fulminanti
che questa globalizzazione
non è altro che
”la liberazione del capitalismo dalle sue catene”
[7].
Il mondo su cui
tutto questo sistema si è lungamente regolato ormai non esiste più. E il
mondo nuovo non c’è ancora.
Tutto sommato è
un’occasione meravigliosamente ricca di costruire un po’ del nostro
futuro. [1] non sempre, ma diciamo che siamo sulla buona strada [2] la Northern Rock, da La Stampa del 6 agosto 2008
[3] su
questo punto non posso fare a meno di inserire uno spunto
dall’articolo che Luca Ricolfi ha scritto su “La Stampa” del 31
agosto 2008 e che sembra fatto apposta:
”Ci
sono sistemi particolaristici, o corporativi, in cui moltissimo
dipende dai legami con il potere politico, e assai poco dal
talento individuale, dall’innovazione, dal duro lavoro: le
regole si fanno e si disfanno continuamente, e la
discrezionalità di politici e amministratori è massima, perché
c’è una giungla di concessioni, autorizzazioni, deroghe,
concertazioni, agevolazioni, incentivazioni. Il caso Alitalia,
in cui le regole antitrust sono state sospese per favorire un
disegno politico, è un esempio da manuale di come operano i
sistemi di questo tipo.” Lo stesso Economist (secondo la Stampa del 5 settembre 2008) dice che il piano di salvataggio dell’Alitalia è sbagliato e costoso. Costerà a ciascun contribuente italiano 125 euro per un totale di circa 5 miliardi di euro. [4] Settembre 2008
[5]
Riporto qui, integralmente, la
nota sul personaggio di Jacob Burckhardt nel suo
“Considerazioni sulla storia universale”:”Jean Baptiste Colbert
(1619-1683), figlio di mercanti, attraverso la protezione del
cardinal Mazzarino riuscì ad ottenre il favore di Luigi XIV, di
cui divenne ministro delle Finanze. Attraverso una fitta rete di
tributi e controlli, instaurò una severa politica
mercantilistica accentratrice e disciplinatrice. Le sue audaci
riforme amministrative vanno sotto il nome di sistema di Colbert”.
[6] Continuo a chiamarla così solo per semplicità di riferimento. [7] Flavio Baroncelli (1944-2007) Viaggio al termine degli Stati Uniti
|