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Savona Jones e la corriera maledetta

Nonna Abelarda

Il  trasporto pubblico ovunque nei paesi avanzati è oggetto di studio e perfezionamento, come limite al trasporto privato, al caos delle città, all’inquinamento ambientale, come fonte di progresso civile e utilizzo razionale delle risorse.

Naturalmente da noi  in Italia si va tutto al contrario.

La febbre delle semi-privatizzazioni-pubbliche ha lasciato morti e feriti sul campo;  in un ibrido osceno fra redditività esasperata da liberismo avanzato e strascichi di sprechi e prebende da statalismo deteriore si è riusciti a ottenere il peggio: scadimento della qualità dei servizi e deficit costante, tagliando soprattutto su sicurezza, pulizia, efficienza.

 

Le ferrovie sono il più tristo esempio, dove si sponsorizzano improbabili alte velocità per super-ricchi privilegiati o per merci che non possono attendere, lasciando al palo una marea di pendolari trattati alla stregua di vitelli al macello.

Ma è difficile anche risollevare la qualità dei trasporti pubblici urbani. Una recente ricerca, tristemente, sottolineava come dappertutto siano in ribasso, come movimento passeggeri, con tanta gente sempre più costretta e rassegnata  a prendere l’auto e affrontare code interminabili e impossibili ricerche di parcheggio.

 

 Qui da noi a Savona un autorevole esponente del centrodestra ha avuto il coraggio di festeggiare euforico questa notizia, a dimostrazione che lui aveva sempre avuto ragione, la gente vuole usare il mezzo privato, non c’è scampo. Certo, questo è perfettamente in linea con la filosofia del partito della libertà, libertà di fare come cavolo ci pare, con buona pace di qualsiasi spirito sociale, civico, senso della comunità, rispetto dell’ambiente. Tutta roba obsoleta, a fronte della nuova meravigliosa iniziativa individuale senza limiti. Il paradiso in terra, basta solo saperlo cogliere.  E che ci vuole? Costruiamo sempre più strade, creiamo sempre più parcheggi, per auto sempre più mastodontiche, divoratrici di carburante, più inquinanti di una ciminiera,  assolutamente inutili o spropositate per l’uso, ma proprio per questo simbolo di prestigio e individualità. Magari acquistate a rate da chi non se le potrebbe permettere, ma questo è un  dettaglio marginale.

 

Purtroppo qui si innesca un circolo vizioso: più auto circolano,  e auto ingombranti oltretutto,  più il traffico rallenta e si ingolfa, i parcheggi in seconda o terza fila restringono gli spazi, i mezzi pubblici faticano a circolare e sono sempre meno competitivi. Nessuno li prende più, se non costretto. Le rare corsie gialle sono invase da auto o moto. Se si multano, scoppiano sollevazioni popolari, che del resto non sono del tutto ingiustificate, data l’impossibilità spesso di circolare altrove; gli autobus sono sempre più in deficit… e il giro vizioso continua, in una spirale perversa di peggioramento.

Ora, premetto che io sono una assoluta fautrice del trasporto pubblico. Nonostante inefficienze e disagi, lo utilizzo costantemente. Anche perché in famiglia per scelta precisa abbiamo un’auto sola, e non sapendo andare in moto o in bicicletta mi restano spesso poche scelte: sgambate a piedi e/o mezzi pubblici. 

 Abitando alle Fornaci apprezzo particolarmente il n. 6.  Francamente capisco poco chi dice di abitare a Vado o Zinola e lamenta di non trovare parcheggio in città. Uso il 6 da quando ancora si chiamava “Porto Vado” e basta, era un corrierone blu della Sita, e transitava comodo e frequente, con l’eccezione dell’orario di scuola, quando, nonostante le corse bis, i mezzi erano strapieni e imprendibili fin da Zinola. Ora, trent’anni dopo, in orario scolastico, nonostante le corse bis e la diminuzione vertiginosa degli studenti, i mezzi sono ancora strapieni e imprendibili. Una tradizione savonese che si perpetua.

A parte questa linea, comunque,  nonostante io abbia la fortuna di non avere orari fissi e poter gestire il mio tempo, e affronti volentieri qualche piccolo inconveniente, tempi e percorsi medi sono veramente al di sopra delle possibilità di chi abbia bisogno di un minimo di efficienza. Le coincidenze sono pure ipotesi, e i mezzi affrontano percorsi tortuosi quanto un geroglifico atzeco, e spesso di dubbia giustificazione.

ACTS Per chi puoi scegliere

Piccoli esempi. Chi, da zona Fornaci, debba andare all’ospedale Valloria, o va a piedi in corso Tardy e Benech, oppure tenta una coincidenza con il 6 alla fermata vicino piazza Giulio II, allungando i tempi, e si incista nell’infrequente, piccolo e sovraffollato 5, arrampicata alla Villetta compresa, che quando incontri un altro autobus pare un duello da Far West, tutti e due fermi a vedere chi spara, ops, chi passa per primo... Più o meno lo stesso al ritorno.  

 

Ma complichiamo i percorsi. Tempo fa dovevo recarmi ad Albisola, in cima a  via delle Industrie.

Lo dice il nome stesso, trattasi di zona artigianale- industriale. Tra l’altro con nuovi e consistenti insediamenti abitativi. Ma non servita.

Mi informo. O prendo il 7 che va a Luceto e traverso a piedi, o affronto il sinistro 8 di cui molto sentii parlare. Pare che abbia, un paio di volte al giorno e non si sa con che criterio, fermata molto vicina alla mia destinazione.

Bene, allora prendo un 6, scendo in piazza Mameli, attendo l’8. Lo vedo passare in arrivo che va al capolinea in piazza del Popolo, avendo tempo lo raggiungo, attendo che parta. Sono le 13, eppure pochissimi studenti vi salgono. Rimane semivuoto.

Affronto un giro interminabile, strada vecchia di Albisola, giù da via Turati, via Scotto, quasi sul mare, si risale, davanti all’ospedale, giro ad anello fra le case vicine, si ridiscende, Albisola, poi ci si inoltra da via Faraggiana, e finalmente, quando scendo davanti a uno di quei cartelli su piedistallo, anonimi ed essenziali, che dicono, sì, effettivamente, qui c’è, potrebbe esserci, forse c’era una fermata, magari è provvisoria, non si registrano linea od orari, abbi fede, in 24 ore qualcosa passa…

Insomma, quando scendo sono frullata come un frappè. Passeggeri rimasti: due. Tempo totale di percorrenza, dalle Fornaci a casa mia: un’ora e un quarto.

Sono emozionata per l’avventura. Disbrigata la commissione, decido, in un impeto di euforia e dato che stranamente per essere di questi tempi non piove, di non cercare di incrociare improbabili orari o capolinea, ma di avviarmi sul mare, per avere più corse.

Quasi due chilometri e mezzo a piedi. Tra l’altro sperimento come le nostre strade non siano assolutamente a misura di pedone. Sembra di essere a S. Francisco, dove se cammini a piedi ti ferma la polizia e ti chiede se qualcosa non va.

Pseudo marciapiedi invasi da sterpaglie pluriennali con le pietre sollevate. Curve cieche con alte mura ai lati e senza spazio pedonale, con necessità di attraversamenti avventurosi. Auto parcheggiate di traverso.

La giungla, tsè. Mi fa un baffo, a me.

Sudata e affannata arrivo sul mare, becco la linea da Varazze, scendo in via Paleocapa, ribecco il 6 in piazza Mameli. Tempo totale di percorrenza, camminata compresa: tre quarti d’ora. Va già meglio rispetto all’andata.

La seconda volta che ho dovuto affrontare il percorso, ho deciso: prendo il 7 e mi fermo sul mare. Vado a piedi in largo Folconi, il mezzo era già lì pronto, vi salgono rari studenti. In poco più di cinque  minuti dalla partenza (cinque minuti!!) sono ad Albisola, con percorso rettilineo.

Poi, però, ho dovuto farmi venire a prendere. In auto. Altrimenti c’erano i due chilometri e mezzo che mi aspettavano.

Sì, insomma, a non avere fretta e ad essere pazienti è pure divertente e magari salutare, se non ti spiana un Tir. Ma è questa la funzione di un trasporto pubblico?

  Nonna belarda alias Milena De benedetti