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UN NO-GLOBAL ANOMALO: GIULIO TREMONTI

     Marco Giacinto Pellifroni  



Ė uscito il mese scorso “La paura e la speranza” di Giulio Tremonti. Un libro che mi ha portato ad apprezzare il suo autore, a prescindere dalla sua appartenenza politica. Attraverso alcune spigolature, liberamente riportate in corsivo, vedrò di giustificare questo mio apprezzamento; che tuttavia, lo premetto, si affievolisce nelle ultime pagine, quando l’autore passa dai mali ai rimedi.
“Low cost” può ancora essere un viaggio di piacere, ma non la spesa di tutti i giorni. Come in un mondo rovesciato, il superfluo viene a costare assurdamente meno del necessario.

La rivoluzione della globalizzazione, preparata da illuminati, è stata messa in atto da fanatici, da predicatori partiti con fede teologica alla ricerca del paradiso terrestre.

Dicendo questo, T. si dissocia dal rigore, davvero “teologico”, con cui il suo partito, FI, si è schierato nella difesa a oltranza della polizia e contro i no-global nei fatti di Genova del 2001.

Per la massa della popolazione il paradiso terrestre, salariale, sociale, ambientale si sta trasformando nel suo opposto: sta meglio chi stava già meglio e va a stare peggio chi stava già peggio, non solo in termini economici, ma di insicurezza personale, sociale, ambientale.

Quindi, le reazioni alla legge Biagi non erano così fuori luogo; né facevano del terrorismo ecologico i movimenti ambientalisti, i cui timori, a partire dai mutamenti climatici, si sono rivelati profetici.

Il “mercatismo”, la fanatica forzatura del mondo nel liberismo economico, ha un antenato molto illustre: l’”illuminismo”.

Giustamente T. affianca l’uno e l’altro nella pretesa di sollevare l’individuo dal buio precedente mediante l’unica leva della ragione, garantendogli la felicità attraverso un continuo progresso materiale. Prende forma così una società…

…basata sugli interessi anziché sulle idee, e sui desideri anziché sui vecchi bisogni materiali.

Questo nuovo modello di società affluente ha così posto le basi per un…

…colonialismo all’incontrario, di seconda generazione: il colonialismo del XXI secolo, che vede i nostri negozi pieni di merci prodotte in Asia a basso costo, la produzione industriale delocalizzata in Asia, così da preservare il nostro ambiente naturale, gli immigrati chiamati a fare al nostro posto i lavori più duri e sporchi, col posto “fisso” sostituito da quello “rotativo”, col denaro reso disponibile a volontà dalla “tecno-finanza”.

“From Marx to market”: dall’utopia comunista all’utopia mercatista, popolata di nuovi totem: pop, rap, e-bay, pc, on-line, i-pod…, e insieme segnata dallo straniamento, dalla solitudine nella moltitudine, dalla diffusione massiva della droga, dello squadrismo calcistico…

L’utopia-madre della globalizzazione prese l’avvio dalla caduta del muro di Berlino, esasperando le convinzioni dei liberali, drogati dall’implosione dell’ideologia avversa; trasformando i post-comunisti in liberisti, per salvarsi dalla sparizione politica; travestendo i banchieri in statisti, gli speculatori in benefattori, gli economisti in sacerdoti e falsi profeti del nuovo credo.

Dandone per scontata la sincerità, tutte queste affermazioni portano a chiedersi in quale schieramento politico possa nel concreto militare l’autore, confermando che i vecchi steccati ideologici sono stati totalmente spazzati via dagli sconvolgimenti epocali di cui la globalizzazione è inestricabilmente causa ed effetto.

Globalizzazione e finanza sono due facce di una stessa medaglia. Lubrificata all’inizio dal magico fluido del denaro, la nuova macchina miracolosa si sta inceppando, proprio a partire dalla finanza.

E qui T. si inoltra nel campo finanziario, su cui, nel mio cantuccio, insisto da quasi due anni. Quanto segue sul tema mi trova sulla medesima lunghezza d’onda.

Le megabanche, sorte dalla fusione di grandi banche internazionali, hanno applicato in forma radicale e su scala globale la forma nuova della tecno-finanza: l’OTD (originate-to-distribute), che permette la distribuzione del rischio sul credito, trasferendolo dalla banca originaria a terzi. Ciò ha determinato la rottura del vecchio equilibrio tra rischio e responsabilità, col trasferimento di entrambi ad acquirenti attratti dagli alti rendimenti e quasi sempre inconsapevoli del rischio “spazzatura”  che venivano così ad assumere.

Chi mi legge, anche saltuariamente, su queste pagine, sentirà in queste parole un tono vagamente familiare. Che continua anche nelle spigolature che seguono, laddove T. descrive…

…la lunghissima catena di fuga dal rischio e di corsa ai profitti degli hedge funds, trasformatisi nel loro opposto (hedge = copertura antirischio). Con la beffa aggiuntiva di coperture assicurative rivelatesi fasulle, al pari dei positivi giudizi di merito certificati da società di rating [poi risultate in vari modi colluse con le società che dovevano giudicare]. Qualcosa di simile ai vecchi assegni scoperti. Col risultato che i banchieri non si fidano più dei banchieri.

Nessuno, infatti, conosce i truffatori meglio dei truffatori stessi. E qui T. si ferma riverente, mentre mi sarei aspettato un affondo più deciso, denunciando che il vizio di trasferire a terzi rischi e responsabilità è truffa e vale, a maggior ragione, per i vertici delle megabanche, che, dopo il

 crollo dei profitti e il licenziamento di migliaia di dipendenti alla base della piramide, si sono ritirati a vita privata carichi di prebende pluri-milionarie, con tanti saluti al moral hazard. Non posso che condividere, invece, la sua critica ad un peloso “ritorno del pubblico”.

Il mercatismo, l’ideologia totalitaria inventata per governare il XXI secolo, demonizzava lo Stato  e quasi tutto ciò che era pubblico o comunitario, ponendo la sovranità del mercato in posizione di dominio su tutto il resto. Ora si assiste invece all’intervento della mano pubblica attraverso sistematiche, illimitate e permanenti iniezioni di liquidità nel mercato finanziario da parte delle Banche Centrali e cioè da banche pubbliche [?].

Qui, e nuovamente nell’intervista concessa a Minoli per Rai Educational il 7 maggio scorso *, T. cade nuovamente (come già anni fa quando propose di rendere cartacee le monete da 1 e 2 euro) nell’errore (?) di considerare le banche centrali come pubbliche, assimilandole ai governi, quando ne è stata addirittura legittimata la proprietà da parte delle banche commerciali private nel dicembre 2006, con uno dei primi atti legislativi del governo Prodi, con l’avallo del retore Napolitano. Del resto, i capitalisti sono maestri nel demonizzare il pubblico finché fanno profitti, per poi chiedere le stampelle governative quando, spesso per loro stesse colpe (leggi: eccessiva esposizione al rischio), i conti vanno in rosso: la proverbiale privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite. Verissimo invece quanto T. dice a proposito dell’impiego dei mezzi finanziari.

La tecno-finanza ha immesso sul mercato enormi quantità di liquidità, a sua volta moltiplicata con la leva del debito. Con una particolarità: in Asia lo strumento del debito è stato utilizzato in modo tradizionale per finanziare la costruzione di industrie “nuove”; mentre in Occidente è servito per finanziare a debito i consumi o per specularepan> sul valore di industrie esistenti e non per creare ricchezza nuova.

Infatti, mentre l’Occidente è venuto de-industrializzandosi e de-qualificandosi con il parallelo passaggio al terziario, ossia ai servizi, il contrario avveniva in Asia, impegnata in una crescita industriale tumultuosa, finanziata con la vendita di merci di consumo a noi occidentali, America in testa. Quando il processo raggiungerà la maturità, saranno state poste le premesse per una nostra sudditanza nei confronti dei paesi asiatici, in specie la Cina, venendosi così ad attuare quel colonialismo di ritorno di cui T. parlava più sopra. Un colonialismo dell’Oriente sull’Occidente che T. propone saggiamente di contrastare sin d’ora, prendendo coscienza che non è accettabile un globalismo a macchia di leopardo, geograficamente e normativamente:

Se il mondo è unico, le regole non possono essere parziali, con l’Europa – l’Italia- impegnate in una corsa a fabbricarsi regole-handicap, producendo per le nostre imprese costi artificiali e addizionali che le ingessano e le spiazzano nella competizione globale, nell’assurdo miraggio di una società perfetta. Un suicidio causato dalla crescita abnorme della nostra produzione giuridica, mentre in campo avverso regna un mercato totalmente anarchico.

NelNell’inseguimento di una società perfetta, pretendiamo di combattere lealmente contro concorrenti che sfruttano i lavoratori e l’ambiente senza la “palla al piede” di scrupoli sociali, morali o legali.


Il Ministro Giulio Tremonti

Come risultato, si ingenera qui da noi un livellamento dei salari occidentali con quelli orientali, mentre i nostri costi, al contrario, restano occidentali, e salgono. Ė in questo modo che la povertà entra nella busta paga occidentale e il conflitto sociale non è più solo tra operai e robot [ossia la versione moderna dell’ottocentesca rivalità tra lavoratori e macchine, alla base del movimento luddista], ma anche tra l’operaio occidentale e il nuovo proletariato orientale, con questo che non solo riduce a quello la busta paga, ma finisce per rubargli il posto di lavoro.  

Mentre il totale spregio di ogni elementare norma ambientale contamina il mondo intero, avviandolo verso il disastro ambientale finale. Mercatismo e ambientalismo sono termini tra loro incompatibili.

Niente di più vero; e meglio tardi che mai: ci son voluti 40 anni per convergere sulle posizioni degli ecologisti.

T. affronta poi un’attualissima questione ideologica, considerando il mercatismo, “ultima follia ideologica del Novecento” come “la sintesi di liberalismo e comunismo”. La sinistra ha esaurito la sua spinta vitale, con l’accettazione neofita ed enfatica del mercatismo. Per la prima volta nella sua storia, la sinistra non è più proiettata verso il futuro, ma impigliata nel passato, come un albero con le radici rovesciate.

Il mercatismo fonde insieme consumismo e comunismo, sintetizzando un nuovo tipo di materialismo storico: “mercato unico”, “pensiero unico”, “uomo a taglia unica”: un tipo umano che non solo consuma per esistere, ma esiste per consumare. Ė l’”uomo normale” idealizzato per primo dal comunismo; che non è finito, peraltro, ma si è solo trasformato, in una stretta alleanza col capitalismo, spostando il controllo dai mezzi di produzione al consumatore, ridotto ad una scheggia di PIL.

E come si è ratificata questa “strana alleanza” di ex-rivali?p>

Attraverso la precipitosa e superficiale costituzione del WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio: un comitato d’affari delle multinazionali. Per l’Europa il WTO è stata la replica, su scala mondiale, del Mercato Comune Europeo, divenendone di fatto non solo socio fondatore, ma anche suo incubatore ideologico. E oggi l’Europa, nata col mercato e dal mercato, proprio di mercato rischia di morire.

D’altro canto, l’Occidente si comporta come se, al di fuori dei suoi confini, questo famoso mercato libero esistesse davvero; mentre così non è, in quanto dilaga il capitalismo di Stato, che ne è l’esatto contrario.

Noi consentiamo libero accesso ai “fondi sovrani”[soverreign wealth funds] di Cina, Russia, Emirati Arabi, ecc., nei quali l’aggettivo dice molto più del sostantivo, in quanto essi operano, più che nella logica del mercato, in quella dell’influenza sull’Europa dei loro Stati. Qui da noi vigono regole di anti-trust e norme che proibiscono gli aiuti di Stato alle imprese in difficoltà, mentre nulla di tutto questo è precluso ai fondi sovrani.

Quindi, ancora una volta, la partita commerciale ammette regole diverse per i giocatori degli opposti fronti; e sempre sfavorevoli per noi, costretti a competere coi lacci alle caviglie.

Siamo soggetti ai ricatti dell’imperialismo energetico dei Paesi produttori di petrolio e gas, riuniti addirittura in cartelli, come l’OPEC [mentre sta nascendo l’OREC, analogo trust dei produttori asiatici di riso] o in monopoli, come la Gazprom russa, mentre alle nostre aziende è richiesta la massima trasparenza in materia di anti-trust; così come in materia di dumping –la concorrenza asimmetrica-, che viene invece accettata se proveniente dall’estero.

E il buonismo della Vecchia, “gentile” Europa si esplica anche nei campi della politica demografica e dell’immigrazione.

L’immigrazione non è infatti la soluzione dei nostri problemi demografici e sociali, ma sarà la causa della loro radicalizzazione. La pianta maledetta della xenofobia sta già crescendo in Europa.

Come non ho mancato di sottolineare in miei interventi su queste pagine, gli immigrati vengono in Europa senza aver niente da perdere e con un bagaglio di “doti”, come la forza bruta, utili nei loro paesi d’origine, dove violenza e illegalità sono la regola, con ciò scardinando il nostro ordinamento civile e minando la nostra sicurezza, aggiungendosi, e spesso alleandosi alla nostrana criminalità organizzata.

Ė quindi sbagliata la politica volta a metter le mani su un nuovo “bottino elettorale” [quello degli immigrati], che si ipotizza voti a sinistra, ma che potrebbe invece far blocco a sé, destabilizzando dall’interno il sistema. […] O sono gli “altri” che, venendo in Europa, cessano di essere tali e diventano “noi”, rinunciando alla loro identità, o è l’Europa stessa che perde la sua identità e va così a porte aperte incontro alla sua disintegrazione. L’Europa che vogliamo deve avere le porte, ma non aperte solo verso l’interno; non vogliamo un’Europa dominata dal buonismo e dall’”entrismo”.

T. si sofferma poi sul fallimento delle ideologie, in specie quelle connotatrici della sinistra, come la fiducia cieca nel progresso, nella scienza e nel collettivo, intesi in blocco come le basi di una “modernità” positiva.

Ė in crisi ed è ragione di crisi l’insufficienza dell’analisi che la sinistra fa sul lavoro e sulla società. Il cambiamento nella struttura del lavoro non è stato interno, ma esterno: è venuto dalla globalizzazione e dal mercatismo.

T. sembra riversare ogni colpa per l’attuale situazione a cause esterne. Ma hanno concorso anche le numerose anomalie nostrane, in primis un insopportabile gravame fiscale sulle retribuzioni e le abnormi assunzioni clientelari da parte di ogni forza politica, al solo scopo di fare incetta di voti.

Infine, T. indica “sette parole d’ordine, per salvarsi dalla crisi globale”:

Valori, famiglia e identità; autorità; ordine; responsabilità; federalismo. E, in primis, una rivalutazione dello spiritualismo, contro il materialismo oggi dilagante.

Come spesso succede, si può convenire sui mali ma dissentire sui rimedi. Prendo simbolicamente il punto di maggior divergenza: l’auspicata autorità dei governi. Fintanto che in Parlamento ci mandiamo una sostanziosa dose di incapaci, manovrati da interessi estranei e privati; fintanto che assistiamo a scandalosi sprechi e privilegi di politicanti in ogni struttura pubblica, dallo Stato alle Comunità Montane, non si può neppure accennare ad un ritorno di autorità dei governanti, ossia di stima e fiducia da parte della popolazione. E venendo a mancare questo essenziale requisito, vengono meno anche tutti gli altri, non ultimo quel federalismo che il governo entrante vede come la panacea di tutti i mali della nazione. Ma non mancano, anzi, i punti di convergenza, come

L’applicazione universale delle “clausole sociali e ambientali” a tutela di lavoro e ambiente; l’introduzione di un’IVA perequativa o una tariffa doganale equivalente sulle importazioni dai Paesi che producono violando tali norme; applicazione delle regole anti-trust anche ai cartelli internazionali delle materie prime (tipo OPEC) e ai monopoli energetici extra-comunitari (tipo Gazprom); in casi estremi di restrizioni all’operatività delle imprese europee, uscita unilaterale dal WTO; l’applicazione di una nuova Bretton Woods, estesa alla tutela dell’ambiente, alle clausole sociali e ambientali, al controllo sui mercati finanziari; semplificazione e riduzione della nostra regolamentazione…

A mio giudizio, quello che manca nell’analisi di T., tuttavia, è una denuncia dei mali endogeni dell’Italia, come il legame tra Stato e mafie, la sudditanza del mondo politico alla lobby bancaria, il cancro del signoraggio, la corruzione dai massimi ai minimi livelli, il “mercatismo” dei voti dietro la concessione di privilegi illegali, ecc.: tutti mali elencati nel già citato “Basta Italia” di Marco Della Luna, uscito in contemporanea a quello di T., che tende invece a spostare tutte le cause dei mali italiani fuori dei suoi confini, vedendoli, appunto, soltanto come esogeni. Forse non si poteva pretendere di più da un ministro ombra dell’economia, quale egli era all’epoca della stesura del libro. Apprezzo comunque il suo coraggio e la sua autonomia di giudizio, che temo incontrerà parecchi bastoni tra le ruote: mi sembra più in sintonia con la Lega che non col suo partito di appartenenza. Riuscirà a lavorare in pace? Auguriamocelo.

 Marco Giacinto Pellifroni                         11 maggio 2008

 * Vedi  http://www.giuliotremonti.it