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Dove mettere i soldi?

di Marco Giacinto Pellifroni

Leggendo articoli di economia e finanza su vari organi d’informazione, da quelli embedded, e cioè al servizio dei potentati politici e finanziari, a quelli più liberi di esprimere il pensiero degli autori, l’unico dubbio sul nostro futuro prossimo venturo è se cadremo (o resteremo) in stagflation, ossia stagnazione produttiva e prezzi in crescita, ovvero in deflazione piena, senza se e senza ma: una realtà in cui disoccupazione e povertà generalizzate causeranno una capacità di spesa privata talmente bassa da determinare il crollo anche dei prezzi di prima necessità, per tacere di quelli superflui.

In ogni caso, si profila la fine dell’epoca di telefonini, gadgets, SUV e seconde-terze case. Chi è un po’ più avvertito di cosa sta succedendo nelle borse mondiali prova oggi gli stessi brividi che già da tempo angustiano coloro che non riescono a pagarsi neppure l’indispensabile e che sono facili prede delle varie offerte di denaro in prestito a tassi del 14-15%, ossia tali da portare chiunque alla rovina. E parlo di tassi al di sotto della soglia di usura, riservata ai subprime.Mentre ho già in passato trattato della triste situazione di chi non ha risparmi e quindi non ha il problema di come conservarli, oggi voglio occuparmi del popolo di coloro che, nonostante prezzi e tasse in crescita, sono riusciti a mettere qualcosa da parte, magari grazie ai lasciti di una o due generazioni di parenti: le eredità o gli “aiuti” parentali sono sempre più spesso l’unica ancora di salvezza per le odierne, salassate generazioni, alle prese con lavori assenti, precari o autonomi.

Da qualche decennio la giornata del risparmio, il 31 ottobre, è scaduta a patetica farsa, specie se celebrata dal vertice bancario, responsabile della sua scomparsa; così come il 31 maggio, quando il governatore di Bankitalia ci edoce sulle vie di fuga dall’attuale situazione economica. Sarebbe forse una spinta al risparmio il misero interesse, variabile dallo zero dei conti correnti (che nel contempo profilano un tasso passivo del 15%) al 2-3% dei vari strumenti finanziari con un minimo di presunta stabilità, come i titoli di Stato? O non è forse una spinta a spendere tutti i soldi che si guadagnano (beninteso, ammesso che a fine mese ne rimangano in tasca), o, peggio, ad avventurarsi nei labirinti dell’odierna finanza, basata su obbligazioni a rischio ignoto o su azioni spesso fondate sul niente? O ancora, aiutandosi magari con un mutuo, a investire in beni immobili?

Mi torna in mente Severino Boezio, filosofo del VI secolo, giustiziato per motivi politici dopo una lunga detenzione in carcere, durante la quale scrisse il De Philosophiae Consolatione. In essa Boezio sottolinea la vanità delle ricchezze superflue, in quanto la loro proprietà genera più ansie che non la loro assenza a causa dei pericoli cui esse sono esposte per l’incertezza delle vicende umane. All’epoca la maggiore disgrazia era costituita dai ladri veri e propri e dalle confische da parte di mutevoli governi.

E oggi? Ferme restando quelle alee, se ne aggiunge una terza, che all’epoca non esisteva, in quanto vigeva perlopiù il baratto, dopo il crollo dell’impero romano; mentre le monete in circolazione incorporavano in se stesse il proprio valore, essendo d’oro, argento, rame. Oggi la terza alea è rappresentata dal fatto che il denaro che crediamo di avere ci è stato espropriato all’origine dalla banca centrale (BCE) e dalle varie banche commerciali, in quanto è nato dal nulla e ci viene dato in “prestito”, assumendo ipso facto la natura di un nostro debito verso i prestatori. Con la sua resa gravata di robusti interessi.

Severino Boezio

Ma anche le prime due alee permangono in tutta la loro gravità, essendo noi tutti esposti sia al pericolo di furti, ormai all’ordine del giorno, sia all’emungimento insaziabile da parte di uno Stato palesemente al servizio delle banche. L’unica differenza tra i ladri e lo Stato è che il secondo effettua furti resi leciti, in quanto denominati come tasse, da leggi che esso stesso emana, e che servono a pagare alla banca centrale i suoi presunti prestiti (a tassi fissati dalla stessa banca centrale a suo arbitrio), mentre noi siamo altrettanto sistematicamente spogliati dei frutti delle nostre fatiche tramite gli interessi di banche e finanziarie destinati a superare le nostre capacità di onorarli

L’economia dell’Occidente, sulla scia della capofila USA, è ormai basata su un insieme di “attività” simboleggiato dall’acronimo FIRE: finance, insurance, real estate. In italiano: finanza, assicurazioni, immobili. Le prime due sono servizi, che nulla aggiungono alla ricchezza della nazione; la terza voce è il risultato della ricerca di investimenti “sicuri”, ossia presumibilmente al riparo dalle trappole delle prime due. Il territorio si è così venuto riempiendo di cemento e mattoni, per la gioia dei cosiddetti “immobiliaristi”, nome più altisonante del precedente “palazzinari”.

Se l’economia non si fosse data alla macchia, tramutandosi in finanza pura e trasferendo la sua parte concreta, ossia la produzione di beni di pubblica utilità, in Paesi dove vige una selvaggia deregulation ambientale e sindacale, le industrie italiane avrebbero concorso in maniera significativa alla crescita “sana” del PIL e quindi la nuova moneta creata non sarebbe stata l’equivalente, come è oggi, di mera perdita di potere d’acquisto. La gente avrebbe investito i propri risparmi, resi possibili da un lavoro produttivo, in azioni di queste aziende e non avrebbe avuto la spinta, direi quasi l’obbligo, di comprare immobili come unica fonte di sicurezza. Sotto questo profilo credo che l’Italia sia la nazione europea più prossima agli USA in questa scellerata corsa verso il FIRE, con le conseguenti colate di cemento per dare ai risparmiatori quel sentimento di sicurezza che non trovavano in altre, più ambientalmente compatibili, forme di investimento.

Ultimamente la corsa, sull’onda del crollo immobiliare americano, è rallentata. Ma la tenacia della mentalità cementifera è dura a morire; come dimostra la pervicacia con cui è stata portata avanti la vertenza della Piaggio di Finale Ligure, e in prospettiva quella dell’attigua area Ghigliazza, entrambe destinate a colmarsi, una volta di più, di case e villini. La Piaggio è forse uno dei pochi casi in cui un’azienda solida non evapora, per delocarsi ad Est; ma non fa eccezione al cambiamento della destinazione d’uso della sua area ad edilizia residenziale. Non sono così benevolente da augurare all’iniziativa il successo che i suoi fautori auspicano; anzi, vorrei che la crisi immobiliare assuma in questi anni una rilevanza tale da bloccare l’economicità del progetto. Ė l’unica speranza che rimane a noi ambientalisti. Non valgono i ragionamenti, l’evidenza dell’irreversibilità del cancro edilizio, che non a caso, pur corrispondendo alla produzione di oggetti solidi, viene accomunato alle bolle speculative finanziarie nell’acronimo FIRE. Sarà perché negli USA, nostro faro guida, soprattutto nel male, sino al 2005 metà della produzione industriale orbitava in campo immobiliare, più un’altra grossa fetta riservata alla produzione di armi. Case e armamenti: impegnati in questi campi, gli americani hanno trasferito tutto il resto in Cina e Paesi asiatici vari. Tranne i servizi meno avanzati, come bar, ristoranti, alberghi. Un po’ il nostro destino, non vi suona? Abbiamo un fulgido futuro come guide turistiche, ciceroni, intrattenitori e via dicendo. Sullo sfondo, un’Italia neanche più da cartolina, in quanto disseminata, oltreché di rifiuti, di tante case, casette, a volte ecomostri, per la “sicurezza” di chi ha qualcosa da investire; magari di riflusso da Montecarlo o dal Liechtenstein. Tempi duri, forse, per i grossi evasori: quelli che il fisco italiano, impegnato a scovare i mancati scontrini dei negozianti, non aveva ancora scoperto. C’è voluta l’Angela Merkel per additarglieli. Adesso anche costoro avranno il problema di dove investire i soldi che gli rimarranno dopo le scorticate del fisco (sempreché il fisco riesca davvero a mettere le mani sui loro nomi, a differenza di quanto successo con una celebre lista di 500 evasori all’epoca di Sindona, clienti del Banco di Roma, che dichiarò sotto giuramento di averne “dimenticato” i nomi). L’Italia non è la Germania. Un po’ per fortuna e un po’ per disgrazia.

  
Marco Giacinto Pellifroni                                                   2 marzo 2008