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INSEGNARE: PASSIONI, DUBBI E… RIFLESSIONI

di ANTONIA BRIUGLIA

 

Ebbene sì, sono un insegnante! Insegno una materia che ho amato da sempre e spero di aver fatto amare ai miei studenti: architettura, con tutte le implicazioni disciplinari che questa materia può comportare.

Non è facile insegnare architettura, perché mentre si è chiamati istituzionalmente a insegnare a progettare in modo funzionale e corretto, a conoscere le regole grafiche e le tecniche che questo comporta, non è esplicito quanto invece sia importante sensibilizzare gli studenti ad un’analisi

critica sul gusto architettonico, sulla compatibilità ambientale del costruito, sul rispetto del territorio e cosa questo comporti .

Tutto questo diventa discrezionale e non solo in una scuola secondaria superiore, ma anche nell’ambito di studi universitari. Così mentre, oggi, si fa un gran parlare di sostenibilità e compatibilità ambientale: nelle scuole tutto ciò resta relegato a piccoli o grandi progetti didattici, secondo il grado dell’istituzione scolastica che li promuove.

Fare architettura, invece, passa attraverso un modo particolare di vedere il mondo e di capirlo: non si fa l’architetto, ma si è architetti.

Quelli che quando camminano non guardano i loro piedi, ma osservano e cercano di capire.

Questo, vorrei che fossero i miei studenti domani, che siano architetti o no: persone che camminando per il mondo, non si guardino i piedi!

Non sarà obbligatorio che diventino architetti perché questo abbia un valore, il sapere serve sempre, anche se non garantisce un lavoro o il successo. Ho sempre rifiutato la scuola che ha come valore il solo lavoro e il suo potere economico, perché il sapere è l’arricchimento della persona e solo se il lavoro tiene conto di questo, allora può diventare una disposizione a quell’occupazione per cui si è portati.

In ogni caso “l’homo faber” non è il solo valore dell’uomo, agire con la logica del profitto e pensare senza cultura, porta a fare scelte che rovinano il mondo e le relazioni umane.

La falsa idea di sviluppo e la follia di costruire e produrre a tutti i costi, hanno reso le città intasate e mortifere, ingrandendole e ignorandone la necessità di spazi per vivere.

La logica del denaro non si può imporre con la connivenza di una scuola che deve, invece, produrre sapere e insegnare che prima di “fare” bisogna accertarsi di non provocare danni né ora, né in futuro.

LE PASSIONI

 

Ho capito subito di avere una forte passione per l’insegnamento, tanto da abbandonare la “professione” per dedicarmi in modo più completo a quella che definisco una “ professione” egualmente nobile, anche se meno remunerativa.

Se devo tirare le somme, dopo ventisei anni d’insegnamento, sono felice di non essermi mai fatta sopraffare dalla frustrazione delle mansioni burocratiche, dalle circolari, dagli ordinamenti e regolamenti che, di volta in volta, si sono succeduti, talvolta gli uni persino contraddittori degli altri.

Non li ho mai subiti, ma spesso li ho anche criticati per renderli migliori, perché ho sempre tenuto alla dignità del ruolo del docente.

La mia passione mi ha sempre portato, poi, a combattere la scuola dell’inutile, delle sovrastrutture che non aiutano certo l’apprendimento dei ragazzi, ma assorbono spesso le risorse che dovrebbero essere spese altrove.

La passione per iniziare il dialogo con la classe sul nuovo argomento o sulla nuova attività, mi ha fatto spesso tralasciare come ultimo impegno la compilazione del registro che, ammetto di aver mal sopportato come noiosa regola.

Allo stesso tempo ho sempre creduto nel Programma come uno strumento duttile, non come una corsa da compire perché il Ministero si aspetta questo, e magari senza approfondire nulla.

La scuola è approfondimento, è voglia di sapere di più del libro di testo e non illusione di aver svolto tutto il programma, solo per averlo completato.

Ho sempre rifiutato la valutazione come elemento fiscale, ma l’ho sentita come occasione di crescita e non ho, fortunatamente, mai provato il piacere di cogliere “in castagna” uno studente, mentre ho sempre provato piacere a tirare fuori da ognuno di loro qualcosa di buono.

 

 

DUBBI

 

Con tutti problemi che si possono trovare nella scuola italiana, continuo a non comprendere coloro che si sono talmente disamorati alla professione, da cercare gratificazioni fuori dalla scuola, come se la scuola fosse troppo limitata per la loro grandezza.

 C’è chi si dedica agli studi personali e non prepara più le lezioni, pensando di poter vivere di rendita sui contenuti, ma dimenticando che la lezione ha anche aspetti comunicativi che portano a studiare strategie per accendere l’interesse di quella classe, salvo poi lamentarsene nei consigli di classe, con le solite sterili lamentele.

E’ pur vero che la società attuale dà potere alla stupidità, ( le trasmissioni televisive lo provano ogni giorno), esalta il pragmatismo e non il pensiero e il sapere, collocando la scuola e gli insegnanti come ultima ruota del carro, ma ritengo non si debba mollare ed essere ancora fieri d’insegnare.

Non posso accettare che la scuola si riduca a un peso sia per l’insegnante sia per gli allievi, oppure un ostacolo da cui tutti si cercano di liberare con strategie di sopravvivenza per non….morire di scuola.

Ammalarsi di scuola è un rischio concreto e chi ha figli lo sa, i malesseri inspiegabili portati a casa per angoscia o per stress, sono la prova di una mancanza di gioia dell’apprendere, di una gratificazione piccola o grande che sia, utile a tutti per tirare avanti.

Il livello di divertimento che si prova a insegnare ogni giorno, è il segnale della condizione dell’insegnante che, quando si rivolge alla classe non opera delle selezioni per dedicarsi solo ai “bravi” scegliendone il ritmo di apprendimento, solo perché non possono fermarsi ad aspettare i “ tardigradi” che danno così poca soddisfazione.

Questo è quello che emerge negli scrutini dove votazioni e giudizi si ripetono, spesso, in un’assurda classifica, dove gli stati d’animo e le frustrazioni non solo non si nascondono, ma emergono come le sentenze di giudici con le loro simpatie e antipatie e dove la valutazione del profitto risente ancora di troppe variabili non propriamente tecniche, ma soggettive.

Talvolta accade, inconsapevolmente, che a causa dello stato d’animo si emettano giudizi o valutazioni diverse, talvolta è persino ammesso che alcuni alunni siano antipatici o altri simpatici.

Studi di psicologia attestano come il volto di alcuni alunni sia dentro la memoria visiva del docente che li associa alle proprie esperienze di vita e questo generi simpatia o antipatia, come fosse un meccanismo inconscio di difesa.

I giudizi sulla partecipazione e l’interesse sono poi i più personali. Lo studente, condizionato dal grado di soddisfazione della scuola, prova maggior o minor entusiasmo, o addirittura paura nei confronti di questa o quella disciplina. Il piacere, si sa, dispone all’apprendere, il dolore ci chiude in una dimensione di difesa per evitare l’errore: la paura di sbagliare.

Nelle materie grafico- artistiche poi, il piacere favorisce l’esperienza e la creatività, mentre il dolore, la paura e la fatica servono solo a non sbagliare, per non subire un voto- punizione. Mi chiedo come può portare, un metodo simile, a far perseguire allo studente le finalità di discipline che esso stesso ha scelto come personali interessi, che vede invece mortificare.

Questi dubbi sulla funzionalità didattica della scuola, vanno poi a sommarsi alle problematiche legate all’età degli studenti della scuola superiore, che insieme alle contraddizioni dell’età e alle inevitabili crisi, cercano il rispetto del ruolo, l’autorevolezza, la competenza, ma anche la coerenza e la serenità nei comportamenti dei docenti coi quali giornalmente si rapportano.

 

Tuttavia credo ancora nella scuola e nel ruolo dell’insegnante, per questo non posso non essere critica quando gli atteggiamenti prima descritti diventano fatalmente accettati da tutti, come se non si potesse o non valesse la pena fare qualcosa per cambiare.

Credo ancora in una scuola dove gli insegnanti non si atteggino a padri, madri o psicologi di turno o tanto peggio amici.

Credo in una scuola che non diventi mero intrattenimento, pub o club di amici, ma dove nella convivenza ci siano regole che permettano a tutti di crescere e soprattutto di imparare.

Credo in una scuola “ carismatica”, che sappia entrare nelle teste per comunicare il “ sapere”.

Credo in una scuola dove si sia superato il concetto d’intelligenza univoca, ma dove si potenziano le varie forme e i linguaggi.

 Credo ancora nella scuola come sfida del futuro della nostra società.

                                                   ANTONIA BRIUGLIA