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LA SPERANZA COME SENTIMENTO E COME VIRTU’

(DIVAGAZIONI IN MARGINE ALL’ENCICLICA SPE SALVI)

di Fulvio Sguerso

 

Anzitutto una constatazione: il tema della speranza è più che mai attuale, e non sarà certo per caso che la seconda enciclica di Benedetto XVI sia dedicata proprio a questo, in un momento storico in cui le grandi speranze secolari, dopo il fallimento delle ideologie otto-novecentesche, sembrano ormai definitivamente sepolte sotto le macerie di due guerre mondiali, vanificate dagli orrori di Auschwitz, di Hiroshima e dei gulag sovietici.

Altro che libertè, egalitè, fraternitè; altro che “tutti gli uomini divengano fratelli / sotto la morbida ala della gioia”  come canta il coro nella Nona Sinfonia di Beethoven! Se poi si pensa che anche le speranze di concordia e di pace universale che erano fiorite dopo la fine della guerra fredda e la caduta del muro di Berlino sono state quasi subito gelate dalle guerre del Golfo, dalle nuove guerre balcaniche e dagli attacchi terroristici culminati con il crollo delle Torri Gemelle proprio all’inizio del nuovo millennio, pare quasi impossibile continuare a sperare in un mondo migliore. E se volgiamo lo sguardo al cortile di casa, alla nostra amata (?) patria sempre più umiliata e offesa dalle persistenti ”emergenze”nazionali ( criminalità organizzata, connubi politico-mafiosi, gestioni affaristico-familiari della cosa pubblica, sistemi clientelari per gli incarichi negli enti locali o statali, smaltimento rifiuti, ecc.)   le parole più adatte al tempo presente sembrerebbero quelle di colore oscuro che si leggono sulla porta dell’Inferno dantesco: lasciate ogni speranza, voi ch’entrate! Eppure se venisse meno ogni speranza, verrebbe meno anche la stessa vita umana: cadrebbero le motivazioni coscienti o inconsce che, a torto o a ragione, ci spingono a lavorare, a progettare, a combattere le nostre piccole o grandi battaglie per migliorare il nostro futuro e quello dei nostri cari. Una vita senza speranza è quindi una contraddizione in termini. Fin qui il senso comune. Ma è questo il senso proprio anche della speranza cristiana? “Spe salvi facti sumus – nella speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai Romani e anche a noi”. Così comincia l’enciclica, che si rivolge in primis, oltre che ovviamente ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, “alle persone consacrate e a tutti i fedeli laici”; tuttavia, questa lettera sulla speranza cristiana, parla a tutti gli uomini, credenti e non credenti, laici religiosi e laici atei, cattolici e protestanti, musulmani e buddisti, nichilisti e materialisti, per il semplice fatto che tutti gli uomini sperano in qualcosa. Ma che cosa distingue la speranza cristiana da quella comune? “La redenzione, la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto.
La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino”.

Dunque la speranza cristiana è, anzitutto, un dono, un dono attuale, che vale per il presente e per il futuro perché vale in eterno, pur essendo connesso con il nostro essere nel tempo. Che cosa si può ancora sperare, infatti, una volta giunti nell’eternità? Là le dimensioni del tempo sono abolite, e dove non c’è più né passato, né presente, né futuro non c’è più nemmeno speranza :Là pas d’espérance” (Rimbaud, Une saison en enfer). Tempo e speranza sono quindi strettamente legati uno all’altra; nondimeno, mentre per il senso comune la speranza è vissuta come vago desiderio, come incertezza riguardo ad avvenimenti futuri che sono, appunto, solo sperati e quindi nient’affatto certi, per il cristiano la speranza riguarda una realtà già presente, sicura, indistruttibile, ma non ancora completamente rivelata: il regno di Dio. Per mezzo della fede il cristiano comincia a vivere in questo regno già qui sulla terra, perché crede nella promessa del Vangelo; tuttavia sa che non si tratta di un regno di questo mondo soggetto a corruzione e decadenza, ma del regno invisibile e spirituale in cui, come scrive Benedetto XVI: “la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità”. Si può mai concepire una speranza più grande di questa? Non vale forse la pena di attendere con perseveranza “il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più”? Non si tratta però di un’attesa passiva e inerte: scrive san Paolo, ancora ai Romani:” Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità”. La speranza cristiana, dunque, non sarebbe tale se non fosse, da un lato, innestata nella fede, e dall’altro non fosse perseverante nella carità. Quindi tutto può essere meno che soltanto soggettiva e individuale: non è un vago sentimento ma una virtù che richiede forza e coraggio pur nella letizia dell’attesa della vita piena ed eterna. Questo significa anche, tuttavia, che la nostra vita mortale non è non sarà mai né piena né eterna. D’altronde, quando mai una parte, per quanto si sforzi, potrà diventare il tutto? Come poi sia effettivamente la vita oltre la vita non possiamo saperlo altrimenti che morendo.

Fulvio Sguerso