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Italiani ignavi e inclinati al peggio

di Marco Giacinto Pellifroni

 

Il quadro degli italiani che viene tratteggiato sul 41° Rapporto del Censis sulla situazione sociale italiana è a dir poco sconcertante: vi si delinea un ristretto gruppo di aziende virtuose, che hanno saputo mettersi al passo con lo spirito globalizzante, de-provincializzandosi, anzi de-nazionalizzandosi, senza tuttavia riuscire ad agganciare al loro carro la

sterminata massa amorfa, la “poltiglia mucillaginosa” della stragrande maggioranza del popolo, assimilato al volgo;  la cui vischiosa inerzia ostacola la marcia verso le “magnifiche sorti” della sagace minoranza dei “big players industriali, finanziari e delle utilities”.

Il rapporto pone in risalto l’andamento “più che buono” dell’economia reale, di contro ad “un debito pubblico che pesa come un macigno non solo sui conti, ma anche sulla libertà psicologica dei cittadini, che sanno di pagare ogni anno interessi per decine di miliardi di euro; l’erratica scoperta di ‘tesoretti’ e la loro destinazione erraticamente politica; le turbolenze finanziarie” che rendono drammatico il pagamento dei mutui immobiliari.

Vediamo di capire, sempre frugando nel ponderoso tomo del Rapporto, di ben 683 pagine, quali stratagemmi concorrano, in misura più o meno determinante, alle decantate virtù dei big players, che spiccano rispetto all’abulia della massa.

“Le imprese –vi si afferma, e ben lo sappiamo- sono soggetti con strategia duplice: di high-price sull’esterno, e di low-cost all’interno”. Obiettivo raggiunto, aggiungo io, attraverso la forbice di una finta concorrenza tra i big players, atta a mantenere gli high prices, specie per i consumi incomprimibili; l’appiattimento al minimo dei salari, sempre più precari, e pressoché immutati negli ultimi 6 anni, contro un tumultuoso aumento del costo della vita; la scarsa attenzione alla sicurezza sul lavoro. Questa strategia non può che portare ad una “compressione durissima” della capacità di spesa delle famiglie e ad una loro “spiacevole sensazione di vulnerabilità”, che induce ad adottare una forma di moderno ascetismo: una “low way of life, un’astuzia di massa” per riuscire a galleggiare e a non entrare in default verso le banche.

“La maggioranza –dunque- resta nella vulnerabilità, lasciata a se stessa, più rassegnata che incarognita, in un’inerzia di fondo: una poltiglia di massa. […] La caratteristica fondamentale dei ‘ritagli umani’ senza identità è la dispersione del sé, nello spazio e nel tempo collettivo.” In altre parole, faccio notare, una riedizione hard dell’individualismo di massa già stigmatizzato negli anni ’60 dalla scuola di Francoforte. Secondo il Rapporto, quindi, “non può sorprendere quella sensazione di continua inclinazione al peggio che attraversa quotidianamente l’opinione degli italiani. […] Si può pensare che sia in corso “un’inversione del processo di simbolizzazione’ o più esattamente un processo di ‘de-sublimazione’: […] la patria diventa interesse collettivo, più che identità nazionale; la religione diventa religiosità individuale e di gruppo; la libertà imperfetto possesso del sé; il popolo moltitudine di massa; la famiglia contenitore di soggettività a moralità multiple; il lavoro un’opzione di secondo livello rispetto all’arricchimento facile con mezzi facili.” Insomma, la società italiana si sarebbe, secondo il Censis, trasformata in “una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio, desublimando ogni valore collettivo”, ovvero “un monstrum alchemicum che ci rende impotenti, come di fronte ad una generale entropia”.

Il rimedio a questa situazione di diffuso scollamento tra individuo e società non può venire, secondo il Rapporto, “dall’azione politica e dalla sua tradizionale funzione di mobilitazione sociale. […] Non può venire da lì il ruolo di collettore di energie”, in quanto “la politica è fatta di ‘opinione larga’ (le piazze, anche medianiche, sono le arene obbligate), mentre oggi il rilancio dell’offerta passa per una ‘coscienza stretta’, cioè di culture capaci di incidere sull’inerzia maggioritaria che appiattisce al peggio”.

 Dopo aver riportato nel modo più sintetico possibile i punti salienti del Rapporto,  mi sia ora permesso fare qualche osservazione alle surriportate considerazioni “alte”, calandomi nella quotidianità, in quelle che il Censis qualifica come “percezioni” della realtà da parte dei cittadini comuni, ma che non coglierebbero l’essenza della realtà economica del Paese, che premia le minoranze solerti e punisce la maggioranza ignava.

 Premetto di considerarmi, sin dalla giovanile scoperta del filo ecologico che unisce il mondo intero in un’unica grande famiglia, un individuo conscio e attento alle relazioni non solo sociali ma anche ambientali. In base a ciò, mi sono sempre sforzato di risalire alle cause originarie dei fenomeni, e cioè alla compagine finanziaria, economica e solo per ultimo politica, che determina l’habitat sociale ed ambientale nel quale siamo costretti a muoverci. In questo mio percorso, con un occhio ai vertici e l’altro alle condizioni della base, ho accumulato alcune constatazioni, che non compaiono nell’impietoso affresco della società italiana elaborato dal Censis. Nel mio ordito trovano spazio sia realtà diffuse e “molecolari”, per usare i suoi stessi termini, sia situazioni talmente al di sopra del nostro campo visivo che molti bollano come fantasiose assurdità.

Mi riferisco, nel primo campo, alle vessazioni diffuse e ripetute che martellano l’individuo (il “coriandolo” secondo il Censis), ad opera sia della pubblica amministrazione che di quei big players che il Rapporto non si stanca di elogiare: una pioggia di multe e sanzioni, indebite e sproporzionate alle “colpe”, perlopiù create a puro scopo di cassa da parte degli organi pubblici, cui è attribuito il potere di farlo, in quanto “la legge sono loro” (con i sindaci lodati nel Rapporto, in quanto “casi esemplari di ‘autoregolazione’ della propria capacità di canalizzare risorse private verso le casse comunali mediante le sanzioni per le infrazioni al codice della strada: +52% tra il 2001 e il 2005” [sic!]); le piccole e medie ruberie delle compagnie, come le utilities,  che si rivolgono ad un’utenza a largo raggio, sulla base di contratti spesso estorti con metodi truffaldini e poi fatti valere alle spalle di cittadini impotenti a difendersi, sia per i costi delle cause legali, sproporzionati agli importi in gioco, sia per la difficoltà di far valere le proprie ragioni a fronte di clausole vessatorie: situazione cui si spera porrà rimedio l’entrata in vigore della class action, osteggiatissima, guarda caso, dalla Confindustria, ossia l’insieme di quelle aziende così virtuose da prosperare pur in un contesto di impoverimento generale, cui esse stesse concorrono tramite la “strategia duplice” encomiata dal Censis come un merito. L’insieme di questi piccoli o medi “furti” legalizzati è un virus che aggredisce ogni giorno milioni di persone, specie del ceto medio o ex-medio, già tribolanti per la congerie di prelievi di ogni genere ad opera di uno stato invasivo ed usuraio (come definire altrimenti gli interessi di mora e le esorbitanti penali per ritardati pagamenti?), di aziende sorridenti al momento di prendere e arcigne al momento di dare, di prezzi in perenne lievitazione, ma non riconosciuti da un sistema di rilevazione Istat che sembra vivere su un altro pianeta. Tutto ciò a fronte di entrate familiari ancorate al 2001, anno di ingresso nell’euro, che ha dimezzato il potere di acquisto.

Alzando lo sguardo verso il “cielo” della finanza, cosa che però il cittadino comune non è messo dai media “ufficiali” in grado di fare, potendo solo limitarsi a constatare il continuo aumento dei prezzi e della sua rata di mutuo, cozzo contro l’empireo dei privilegi bancari, che ho denunciato alla nausea su queste pagine e che non voglio qui ripetere, limitandomi a sottolineare come lo stesso Censis si consideri stranamente inadeguato a penetrare un po’ più in profondità quando parla di debito pubblico, quasi che non abbia gli strumenti necessari a rilevarne la provenienza e quindi l’illiceità del governo a farsene carico a nostro nome e a riconoscerne creditore l’apparato parassitario bancario e assicurativo.

In questo contesto di giornaliere frustrazioni, come si possono criticare le famiglie italiane per la loro rassegnata “inclinazione al peggio” (salvo poi gratificarle di un brave! per la loro adattabilità ad una “low way of life”, insomma per l’atavica attitudine a stringere la cinghia)? A me sembra invece che gli ingredienti per un diffuso pessimismo ci siano tutti e che le percentuali degli aumenti delle esportazioni e dei profitti delle imprese, degli emolumenti dei managers privati e dei politici e boiardi di stato, siano motivo di ben scarsa consolazione, anzi di rabbia, al confronto delle percentuali degli aumenti del costo della vita, del degrado ambientale e urbano, dell’insicurezza in senso lato, dell’ammontare e numero di contravvenzioni per ogni minima infrazione a codici di ogni genere che i pubblici poteri disseminano sulla nostra strada a ostacoli. Ha ragione il Censis, anche se poi non ne trae le debite conclusioni, a dire che l’individuo è “lasciato a se stesso”. Lo è ad ogni suo passo, posto di fronte all’onda anomala di minacce pubbliche e private che lo portano a fidarsi soltanto di se stesso nella sua lotta per l’esistenza. Solo e con la netta consapevolezza di contare zero, nella sua forzata lontananza dai luoghi dove le minoranze decidono anche per lui.

Considero peraltro pura astrazione i rimedi indicati vagamente “nell’immaginare spazi nuovi di impegni individuali e collettivi; e nel confrontarsi con i processi che oggi fanno relazione collettiva e sviluppo storico. Sfida faticosa, che le minoranze dovranno verosimilmente gestire da sole”. Se l’unica nostra speranza risiede nell’aiuto da parte di queste sullodate minoranze, un fosco destino attende noi maggioranza, coerentemente ritenuta degna di “ignominia intellettuale” nella  conclusione del primo capitolo del Rapporto.

 Marco Giacinto Pellifroni                                 15 dicembre 2007