FOGLI MOBILI

La rubrica di Gloria Bardi

Le morti sul lavoro e la fraternité dimenticata

 C’era la Legge, 133/3 agosto, ma non i Decreti attuativi, per cui c’era ma non c’era ovvero c’era ma non del tutto e ora, dopo i fatti di Torino, il Governo  pensa di accelerare i tempi (9 mesi previsti) con un decreto, come ha fatto con la Sicurezza, dopo che la cronaca ne ha evidenziato l’urgenza. Mi riferisco alla Legge sulla Sicurezza nel lavoro.

Ancora una volta sconcerta questo modo di agire politico, sempre a posteriori, sempre preceduto dai fatti, sempre improvvido e quindi sempre colpevole. Tanto più colpevole in quanto aveva cominciato a lavorarci sopra ma con una lentezza  “mortale”. E ora la solita accelerazione. E la solita fretta che, si sa, non è la miglior consigliera.

Ma non si tratta poi solo di Leggi, c’è da considerare la cinghia di trasmissione, quella che dovrebbe trasformare in realtà le leggi: il male italiano per eccellenza.

Così un apparato normativo spesso di tutto rispetto si attenua, si annacqua, si squaglia, si sbugiarda nei fatti, a causa del cialtronismo dei nostri dispositivi, fatti di clientelismo, gioco di fiducia, contropartita, opportunismo, “lei non sa chi sono io” e simili. Fatti di bonomia, cerchiobottismo, una mano lava l’altra, do ut des e simili di nuovo. E fatti anche di medaglie di merito, attestazioni superficiali di conformità alle norme, talvolta con la motivazione “se dovessimo farle rispettare davvero bisognerebbe far chiudere bottega”. Gli operai ringrazino.

Platone, prefigurando lo stato ideale, chiamava i governanti “custodi”.

Ma qui chi sono i custodi? E cosa custodiscono? L’apparato di potere, dal cuore ai capillari? O custodiscono l’uomo?

Il controllo da noi fa fatica a passare. Se te lo accolli, come privato cittadino o come rappresentante eletto, immediatamente qualcuno si risente perché fai qualcosa che nessuno fa e quindi sei anomalo e quindi sei sbagliato, sei uno che rompe, che pianta grane, uno che non si fida.

Ci sono realtà di volontariato che devono sottoscrivere una sorta di “patto di lealtà” rispetto alle strutture in cui svolgono il proprio intervento, impegnandosi a non portare all’esterno eventuali magagne, pena la non ammissione in struttura. Anche se capisco i volontari, credo che una cosa simile sia mostruosa, ma da noi è ritenuta “normale”. Mi è capitato, avendo io una funzione amministrativa di  vigilanza, di chiedere a una dirigente di questo volontariato: “avete qualcosa da segnalare?” per sentirmi rispondere: “non siamo qui per fare segnalazioni”  e alla mia seconda domanda “non intendo denunce ma bisogni, esigenze che posso far presenti in comune?”: “se ci sono bisogni, esigenze siamo qui per soddisfarle!”.  

Era evidente il diktat, a disonore di chi amministra quella realtà (una casa di riposo), che dovrebbe non aver nulla da nascondere e non indurre all’omertà!

La coerenza fa fatica a passare. Portiamo Prodi a farsi un giro per le nostre scuole, ad esempio. Soprattutto le succursali, dove le norme sono disattese dallo stesso soggetto che le emana e che, così facendo, perde la capacità di esigerne il rispetto da altri

E poi c’è il sistema di appalti e subappalti e subsubappalti, che  fagocita il rimando e allontana l’esecutore vero da quello riconosciuto, con un gioco al risparmio che visto dall’altro verso della catena è un gioco allo sfruttamento.

E la fragilità di chi lavora, esposto a ricatti sulla vita, abituato all’idea che la parola “diritti”  fa parte di un esercizio retorico nei discorsi ufficiali, abituato alla propria sostituibilità, abituato a non contare, abituato a non volersi bene.

A distanza di troppi anni, pregni di modernità e di socialismo, ci risvegliamo simili a quel Mastro Misciu di cui dai banchi di scuola ci ha parlato fin troppo a lungo il Verga di Rosso Malpelo: il cottimista che muore sotto una colonna di sabbia che nessun altro aveva voluto spalare.

O forse ci ritroviamo nei panni del “padrone”, che viene distolto dallo spettacolo teatrale per via di quella morte inopportuna.

Qualcuno si riconoscerà nella vittima, qualcuno nell’aguzzino, ma la maggior parte di noi siamo dentro ad entrambi e anche noi –intendiamoci- troppo spesso acquiescenti, siamo responsabili di entrambi. In democrazia la responsabilità non è mai solo di chi governa.

Ma un’altra domanda, più fonda, sostiene quella sui custodi e sul controllo.

Esiste da noi una vera cultura del rispetto? E per “vera” intendo una cultura capace di generare prassi, realtà.

Quel rispetto per l’altro uomo che Kant più o meno così icasticamente formulava: “Agisci in modo da trattare l’umanità in te e negli altri sempre come fine e mai come mezzo”?

O forse siamo più buonisti che rigorosi soggetti morali?

Ci sono studiosi di etica sociale che rimpiangono una parola scomparsa dal nostro dizionario politico, dopo un audace passaggio dal cristianesimo all’illuminismo: “fratellanza”.

La liberté e l’egalité più o meno ce le ritroviamo attorno, se non altro nei soliti discorsi ufficiali, ma la fraternité l’abbiamo depennata e credo che in essa stia l’approccio all’umano in grado di darci maggiori garanzie, ovvero il concetto, ignoto al mercato odierno, di “reciprocità”, di sostanziale intercambiabilità dei destini e dei ruoli, di vincolo antropologico impegnativo. Libertà e uguaglianza impegnano i politici, la fratellanza impegna tutti.

Così credo che anche il pensiero laico e laicista non debba arricciare il naso di fronte a questo termine pregno di cristianesimo, che va speso in termini educativi prima ancora che politici, perché è su di esso che in un mondo globalizzato,  liquido, flessibile e disumano, si può forse fare la leva maggiore per attivare una cultura umanistica, sul riconoscimento e l’introiezione di vincoli significativi, che contrastino il pessimismo –che è realtà- dell “homo homini lupus”.

GLORIA BARDI

L' ESORDIENTE IL PROF E L' EDITORE MANNARO

LUIGI MAIO legge il mio libro

www.gloriabardi.blogspot.com