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Banche e usura

di Marco Giacinto Pellifroni

 

La maggioranza di chi si accinge a leggere queste pagine ha sempre avuto fiducia nei calcoli effettuati dalla propria banca per determinare interessi e spese dovutile. Ultimamente, però, quanti si sono ritrovati esposti a minacce e ritorsioni per non esser riusciti a pagare le somme richieste, hanno cominciato a chiedersi se i crescenti appetiti degli istituti bancari non siano invece l’unico criterio ispiratore di quei calcoli, sino allora ritenuti insospettabili.

 La maggior parte di coloro che svolgono un’attività in proprio, specie PMI, professionisti,  commercianti, artigiani, godono di un fido dal quale quasi regolarmente sconfinano. In questi casi la banca applica, in base ad una discutibile prassi, la c.d. Commissione di Massimo Scoperto (CMS), variabile tra lo 0,5% e l’1% o più. Tale CMS si applica, non già sul supero dell’affidamento, bensì sul totale di questo più l’importo affidato. A questa forma di penalità si aggiunge un tasso sullo scoperto variabile tra il 14 e il 16%. Per giunta,  le banche continuano imperterrite a praticare l’anatocismo, anche se dichiarato fuorilegge nel 2004 dalla Cassazione: comportamento tipico di chi confida nell’impunità.

Quando, ai sensi della legge 108/96, si va a verificare se la banca non abbia superato il tasso soglia, oltre il quale si configura il reato di usura, tutte le spese di cui sopra vanno per legge conteggiate, mentre le banche “dimenticano” di includerle. Differenza non da poco, se si pensa che spesso, proprio a causa di queste spese, le banche cadono nel reato di usura.

Questo è tanto più vistoso nei casi, tutt’altro che infrequenti, in cui il cliente, magari anche in virtù di queste spese aggiuntive, non riesce a pagare quanto la banca pretende; ragione per cui egli diventa ipso facto inaffidabile e viene tosto segnalato alla Centrale Rischi (CR) o addirittura si avvia una procedura giudiziaria per il pignoramento dei suoi beni a titolo di risarcimento del “danno”(*) subito dalla banca per la sua insolvenza.

Rimando a miei precedenti articoli su Trucioli circa l’apposizione delle virgolette alla parola “danno”, visto che le banche prestano sempre soldi che non hanno, se non in misura del 2%, grazie alla scandalosa istituzione del moltiplicatore monetario.

La CR è un istituto interno, una sorta di clan bancario che inibisce a tutti coloro che vi vengono iscritti l’accesso al credito presso tutte le banche nazionali; il che equivale a distruggere l’attività lavorativa di chiunque, specie in un mondo, come l’odierno, dove sempre nuove norme ci spingono tra le braccia delle banche, limitando in misura crescente il ricorso a transazioni e pagamenti in contanti. La minaccia di iscrizione alla CR, dunque, è un potente deterrente in mano alle banche contro il cliente impossibilitato ad ottemperare alle sue richieste, per legali o illegali che siano. Si tratta di un vero e proprio ricatto, o peggio di una estorsione sui generis, che finisce col buttare il cliente nelle fauci dei prestatori ad usura. Il paradosso consiste nel fatto che spesso, per sfuggire all’usura bancaria, si finisce nell’usura criminale, la cui unica differenza sta nei tassi, enormemente maggiori da parte di quest’ultima. Il prevedibile finale è comunque lo strangolamento economico e in molti casi il suicidio del malcapitato (sembra che questo genere di suicidi venga perlopiù tenuto nascosto dagli organi di informazione, nei cui CdA siedono molti rappresentanti dei banchieri). Per inciso, un sistema analogo vale per le carte di credito nei casi di acquisti via Internet: se siete uno che “rompe le scatole” e denuncia abusi, dovete stare attenti a farlo a ragion veduta, perché anche in un solo caso contrario pagate con il ritiro della carta di credito: una specie di messa all’indice, in quanto cliente “scomodo”, piantagrane. Risultato: uno è indotto a subire un abuso piuttosto che rischiare il ritiro del credito.

La legge 44/99 fu promulgata per proteggere le vittime del racket e dell’usura, sancendo il sequestro dei titoli ottenuti fraudolentemente (“corpo del reato”), nonché l’accesso a un fondo di solidarietà mediante un mutuo decennale a tasso zero concesso all’usurato.

Tuttavia, questo trattamento vale in pratica solo per la criminalità, ma non per le banche che hanno praticato usura, alle quali si applicano modalità ben diverse.
Infatti, se la banca ha promosso un procedimento di sequestro dei beni del cliente, in base a semplici dichiarazioni di dirigenti di filiale, tali beni, pur sempre “corpo del reato”, restano nella disponibilità della banca fino a conclusione del procedimento stesso.

 Il mantenimento dei beni pignorati nella proprietà della banca, anche se usuraia, conferisce a quest’ultima un potere di ritorsione enorme, visto che i giudici non li sbloccano se non al raggiungimento di una sentenza finale favorevole al cliente usurato, la quale arriva in genere dopo parecchi anni, anche oltre 10. Nel frattempo la vittima non ha avuto altra opzione che il fallimento e la rovina economica, sua personale e dell’azienda, con le ovvie ripercussioni sui suoi dipendenti, che vanno a ingrossare le file dei disoccupati. Consci di questi esiti esiziali, i direttori bancari li agitano come spettri davanti ai clienti insolventi per costringerli a saldare, “a qualunque prezzo”, il loro presunto debito. Le richieste di ingiunzioni di pagamento provvisoriamente esecutive seguono un iter privilegiato nei casi in cui i richiedenti siano banche o professionisti con parcelle tarate dai rispettivi Ordini, in quanto i giudici presumono che con queste “credenziali” il credito sia senz’altro “liquido ed esigibile”, col risultato che i malcapitati devono subire l’esecuzione, ovvero pagare, fare indi ricorso e attendere i tempi estenuanti dei tribunali prima di vedere eventualmente riconosciute le proprie ragioni.

Emerge chiaramente la disparità di trattamento, per un medesimo reato, tra banche e usurai, in violazione della Costituzione, che sancisce che la legge sia uguale per tutti.

Questa situazione anomala spiega anche il crescente numero di “nullatenenti”, veri, se frutto di queste spoliazioni bancarie, o falsi, se come escamotage per non incorrere più, vita natural durante, nei rigori dei pignoramenti; che, voglio ricordare, non sono solo di matrice bancaria (oggi peraltro ingrossati dai mutui a tasso variabile), ma ancor più spesso statale o di enti pubblici, per i più svariati motivi, da tasse a contravvenzioni, da canoni a tributi, tutti in crescita esponenziale e sempre meno sostenibili da una cittadinanza vieppiù ricattabile, in quanto oberata da quei debiti sui quali è spesso costretta a vivere.

Riporto dall’Adusbef un dato eloquente: le banche italiane si appropriano ogni anno, grazie alla sola CMS, di oltre 40 miliardi di euro: l’equivalente di due finanziarie.

In linea con ciò, un’indagine della Procura della Repubblica di Ascoli Piceno ha appurato che, a causa dei vari meccanismi di addebito ai correntisti andati in rosso, le banche italiane dovrebbero loro restituire un maltolto di oltre 400 miliardi di euro, limitando il calcolo agli ultimi 10 anni.

E il governo cosa fa, di fronte a queste palesi iniquità? Sta discutendo la depenalizzazione del reato di usura, o quanto meno l’esclusione della CMS dal calcolo degli interessi per valutare se superino il tasso soglia. Ennesima conferma che questo governo è emanazione del sistema bancario, sollecito a promulgare nuove norme a tutela di quest’ultimo anziché a modificare quelle esistenti, che di fatto blindano le banche da ogni noia giudiziaria.

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(*) Il ministro Di Pietro nella puntata del 22/11/07 di Anno Zero, ha esclamato, di fronte alle presunte perdite bancarie per l’insolvenza dei mutuatari: “Ma le banche ci perdono qualcosa quando non vengono pagate?”. La domanda si perse nel clamore di opposte esternazioni, impedendo che venissero alla luce tutte le sue implicazioni. Di Pietro è perfettamente a conoscenza dei meccanismi che solo grazie ai privilegi legali esistenti ci impediscono di chiamarli truffaldini, ma evidentemente ritiene che le piccole dimensioni del suo partito, IDV, non gli consentano di denunciarli in Parlamento con un minimo di garanzia di successo. 

 Marco Giacinto Pellifroni                                 2 dicembre 2007