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UOMINI E BESTIE

8: Prospezioni dell’immaginario

 

I Giganti

Qinta parte

 

 

Gigantum catalogus 2

 

ENCELADO, fulminato da Zeus (CLAUD. γιγ. 58 sqq.), o abbattuto da Dioniso (EUR. Cycl. 5 sqq.), o da Atena (PAUS. VIII 47, 1; EUR. Ion. 209: infra), e sepolto sotto la Sicilia (PSAP. I 37; app. Verg. Aet. 70 sqq.: infra) o l’Etna (CALL. fr. 1, 36 PFEIFFER: Aet. prol., e schol. PIND. Ol. IV 11c).

 

 

"Anche noi guardiamo, amiche".
"Vedila contro Encelado
palleggiare il tondo scudo onde minaccia la Gorgone".
"Vedo Atena, mia Signora".
"Ma il baleno non scorgi cinto di fiamma, impetuoso nella mano
di Zeus che lungi saetta?".
"Lo scorgo: arde
nel fuoco l’ostile Mimante".
"E Bacco il Fremente un altro [Eurito: infra]
dei figli della Terra
uccide col tirso inoffensivo".
(EUR. Ion 205-18)

 

proxima uiuaces Aetnaei uerticis
ignes impia sollicitat Phlegraeis fabula castris.
temptauere, nefas, olim detrudere mundo
sidera captiuique Iouis transferre gigantes
imperium et uicto leges inponere caelo.
his natura sua est aluo tenus: ima per orbes
squameus intortos sinuat uestigia serpens.
construitur magnis ad proelia montibus agger,
Pelion Ossa premit, summus premit Ossan Olympus.
iam coaceruatas nituntur scandere moles,
impius et miles metuentia comminus astra
prouocat, infestus cunctos ad proelia diuos
prouocat †admotisque tertia† sidera signis.
Iuppiter et caelo metuit dextramque coruscam
armatus flamma remouet caligine mundum.
incursant uasto primum clamore gigantes.
hinc magno tonat ore pater geminantque fauentes
undique discordi sonitum simul agmine uenti;
densa per attonitas rumpuntur fulmina nubes,
atque in bellandum quae cuique potentia diuum
in commune uenit; iam patri dextera Pallas
et Mars laeuus erat, iam cetera turba deorum
stant utrimque †deus†; ualidos tum Iuppiter ignis
increpat et †uicto† proturbat fulmine montes:
illinc deuictae uerterunt terga ruina
infestae diuis acies atque impius hostis
praeceps cum castris agitur materque iacentis

i
mpellens uictos. tum pax est reddita mundo,
†tum liber cessat uenit per sidera caelum
defensique decus mundi nunc redditur astris.
gurgite Trinacrio morientem Iuppiter Aetna
obruit Enceladon, uasto qui pondere montis
aestuat et petulans expirat faucibus ignem.

 

Segue il mito blasfemo che narra delle schiere in Flegra accampate
e ottunde il fuoco inestinguibile che avvampa sulla cima dell’Etna.
Ardirono i Giganti un tempo il turpe tentativo d’abbattere
dal firmamento gli astri e mettere in catene Giove togliendogli
il comando e imporre la loro legge al soggiogato cielo.
Hanno natura d’uomo sino alla vita, ma un rettile scaglioso
in torte spire si svolge in basso al posto delle gambe.
Elevano per la battaglia un baluardo e stipano alti monti,
sí che l’Ossa grava sul Pelio e sopra l’Ossa al culmine l’Olimpo.
Già si provano di scalare la catasta immane
gli empi combattenti e sfidano allo scontro a corpo a corpo le stelle
atterrite, ostili sfidano alla lotta tutti
gli dèi movendo le insegne contro gli astri intimiditi.
Persino Giove in cielo è in ansia e armato il braccio destro
d’una fiamma corrusca squarcia la caligine che copre il firmamento.
Iniziano con un gran grido di guerra i Giganti l’assalto.
Ed ora il Padre degli dèi tuona con fonda voce e in suo soccorso raddoppiano

il fragore i Venti, che tutti insieme d’ogni dove s’adunano con soffio discorde.
Fitti balenano per le nubi sconvolte i fulmini,
e quanto ogni dio può nel combattere
tutto vien messo in comune: già s’è schierata alla man destra del padre
Pallade e alla mancina Marte, già la compagnia degli altri dei
stà ritta ai fianchi di lui. Ecco Giove fà esplodere i fuochi
possenti e colla folgore ch’è solo sua dirocca i monti.
Sconfitte si ritirano dal campo, rovinando dal cielo,
le squadre ostili agli dei, gli empi nemici
precipitando cadono coi loro accampamenti, mentre la Madre Terra ancora

 spinge allo scontro
i vinti figli che giacciono al suolo. Torna allora la pace al firmamento,
allora la volta riposa e Libero s’avanza fra le stelle,

alle costellazioni è reso finalmente il cielo che con gloria fu protetto.
Nei gorghi del mar di Sicilia morente piomba Encelado e Giove
lo copre coll’Etna: ora sotto il vasto gravame del monte
si dibatte e irriverente spira dalle fauci fuoco.
(app. Verg. Aet. 41-73).

 

"Segue" (v. 41) ai primi due “blasfemi”, ossia menzogneri, racconti del mito, registrati nei vv. precc., che l’Etna sia l’abitazione di Vulcano o la fucina dei Ciclopi. Al v. 53 il testo è corrotto, e forse anche la ripetizione di provocat è frutto di una dittologia: traduco a senso. Anche al v. 64 testo corrotto e senso incerto. Infine il v. 69 è corrotto e senza significato.

EURIMEDONTE, il re dei Giganti dell’Odissea (VII 59: v. Prima parte), amante di Era da cui ebbe Prometeo secondo alcuni (schol. HOM. Il. XIV 296a), secondo Euforione invece la violentò e fu inabissato nel Tartaro da Zeus (schol. D HOM. Il. XIV 295; in evidente concorrenza con Porfirione, secondo quanto ricordato nella scheda prec.: Terza parte).

EURITO, ucciso da Dioniso col tirso (PSAP. I 37: Seconda parte).

MIMANTE, combatté in Flegra, che non è la piana napoletana bensí quella tracia (schol. AP. RHOD. III 1226), trafitto da Ares (CLAUD. gig. 85 sqq.: tradotta integralmente in una prossima scheda) o da Zeus (EUR. Ion. 215), imprigionato sotto l’isola di Procida (SIL. IT. XII 147: infra) o sotto il monte presso Chio che da lui prese il nome (schol. HOM. Od. III 169)

 

 

tradunt Herculea prostratos mole Gigantas
tellurem iniectam quatere, et spiramine anhelo
torreri late campos, quotiensque minantur
rumpere compagem impositam, expallescere caelum.
apparet Prochyte saeuum sortita Mimanta,
apparet procul Inar<i>me, quae turbine nigro
fumantem premit Iapetum flammasque rebelli
ore eiectantem et, si quando euadere detur,
bella Ioui rursus superisque iterare uolentem.

 

Narrano che abbattuti dalla possa d’Ercole i Giganti
scuotano la terra che li copre e dall’anelante lor fiato
sian per ampio tratto inariditi i campi, e ogniqualvolta par s’avveri
la minaccia d’infrangere la salda reclusione il cielo impallidisca.
Procida appare che il feroce Mimante in sorte ottenne,
da lungi appare Inarime che schiaccia Giapeto
ed egli un nero nembo di fumo spira e dalle fauci ribelli
getta fiamme, pronto se mai gli sia dato
d’uscire a rifar guerra a Giove ed ai Superni.
(SIL. Pun. XII 142-150).

 

"Procida appare" ad Annibale, che dopo gli "ozi di Capua" tenta ora di espugnare Pozzuoli. Giapeto è in realtà il Titano figlio di Urano e Gea rinchiuso nel Tartaro da Zeus dopo la battaglia contro gli Olimpii. Ebbe dall’Oceanina Climene quattro figli: Atlante, Menezio, Prometeo ed Epimeteo (ACUS. fr. 2F7, HELLAN. frr. 4F6a e 19a JACOBI FGrH; PSAP. I 2, e 8 dove il nome della moglie è Asia; HES. theog. 507 sqq., e schol. 48 che indica Asope, Climene o Temi; schol. AESCH. Prom. 347a e 18c: Asope, ecc.); si noti però che l’Etymologicum magnum (iota 269) scrive: "Giapeto, nome proprio di un dio o di un gigante". Quanto ad Inarime, la spiegazione piú probabile (presso SERV. in VERG. Aen. IX 712) è che, avendo Virgilio frainteso in causa della scriptio continua HOM. Il. II 783:

 

 

[

 

sui monti Arimi [nella Misia Calcinata secondo Demetrio di Scepsi: fr. 39 GÄDE; in Cilicia o in Lidia: schol. HOM. ad loc.] ove dicono sia di Tifeo il giaciglio,

 

ed avendo letto nella Teogonia di Ferecide (fr. 14 FHG I MUELLER) che Tifeo fu sepolto sotto Pithēkoũsa (Ischia: “l’isola delle scimmie”, si v. la didascalia dell'illustrazione qui sotto), coniasse il nuovo toponimo. Altri (STRAB. XIII 4, 61; SERV. loc. cit.) affermarono con molta fantasia che in etrusco scimmia si dice arimus. A Virgilio si richiama Plinio là (III 82) dove scrive:

 

in Puteolano autem sinu Pandateria, Prochyta, non ab Aeneae nutrice, sed quia profusa ab Aenaria erat, Aenaria a statione navium Aeneae, Homero Inarime dicta, Pithecusa, non a simiarum multitudine, ut aliqui existimavere, sed a figlinis doliorum

 

Nella baia di Pozzuoli si trovano queste isole: Ventotene, Procida, il cui nome non viene dalla nutrice di Enea bensí dal fatto che si distaccò [pro-chéō] dall’Aenaria, Aenaria, [già in Sisenna: fr. 125 HRR PETER] cosí chiamata perché fu l’ancoraggio delle navi di Enea, presso Omero Inarime, Pithecusa, nominata non già dal gran numero di scimmie [píthēkoi] che vi si trovavano, come ritengono alcuni, ma dalle sue manifatture di giare [píthoi].

 

È però evidente che per lui Inarime-Aenaria non è Ischia, come del resto in Livio (VIII 22: <in> insulas Aenariam et Pithecusas egressi) e in Mela (II 106: sed Pithecusa, Leucothea, Aenaria, Sidonia, Capreae, Prochyta, Pontiae, Pandateria, Sinonia, Palmaria Italico lateri citra Tiberina ostia <ad>iacent), ed anche se in tal modo un’identificazione diventa impossibile, non giova certo seguire chi integra Aenaria a statione navium Aeneae, Homero Inarime dicta, <Graecis> Pithecusa (“Aenaria, cosí chiamata perché fu l’ancoraggio delle navi di Enea, presso Omero Inarime, in greco Pithecusa”), o traduce Pithecussa come fosse apposizione di Aenaria, o espunge dal testo liviano Pithecusas interpretandola quale una glossa. Altre notizie, in particolare su Pindaro (Pyth. I 17 sqq. e frr. prosod. 92-3 MÄHLER) e su Timeo (fr. 566F58 FGrH JACOBI), in STRAB. loc. cit. e V 4, 9.

 

 

 Frammento di cratere tardogeometrico ischitano da Mazzola con iscrizione sinistrorsa in alfabeto “rosso”: INOS M'EPOIESE. Il Peruzzi (Le scimmie di Pithecusa, in “PP” CCLXIII, 1992) suggerisce d’interpretare nella figura sotto la scritta una scimmia, ciò che confermerebbe l’etimo tradizionale (supra nel testo), ed in effetti non è impossibile che nell’VIIIa esistessero ancora sull’isola simili animali, ma piú mi convince l’affermazione di Ridgway, il quale nell’Alba della Magna Grecia (trad. it., 1984, p. 50) scrive che il nome è probabilmente la “forma ellenizzata di un toponimo indigeno preistorico riferito all’isola, o forse all’intero arcipelago flegreo”.]

MISERRIMUS