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Economia e Finanza

 Marco Giacinto Pellifroni  

Ho sempre dovuto fare qualche sforzo per riuscire a distinguere questi due vocaboli, che vengono in genere pronunciati insieme, come una coppia di sposi. Ma è da quasi 30 anni che la convivenza di coppia ha cominciato a scricchiolare, fino alla richiesta, concessa, del divorzio.

Tutto cominciò a cavallo degli anni ‘70 e ‘80, quando la Banca d’Italia, dopo la lunga guida di Carli e poi di Baffi, venne diretta da Ciampi e Fazio.

Ci fu, in pratica, un graduale rovesciamento di filosofia, da economica a finanziaria, in concomitanza col passaggio dalla regola keynesiana -che chiama in causa lo Stato, mediante l’immissione di capitali per la realizzazione di rilevanti opere pubbliche, anche a costo di un’inflazione crescente- alla regola friedmaniana, detta monetarista, o anche liberista, che, oltre a credere ciecamente nella feroce concorrenza tra i piccoli e nel cartello dei grandi, si pone come obiettivo primario il contenimento dell’inflazione, ottenuto tramite la leva del TUR (tasso ufficiale di riferimento, in sostituzione del TUS, tasso ufficiale di sconto, dal 1/01/1999), ossia dell’interesse che la banca centrale applica ai prestiti verso le banche commerciali: mito indiscusso cui va sacrificato ogni scrupolo sociale e umano.

Si tratta di due concezioni antitetiche, dove la prima, cui si ispirò Keynes dopo la grande depressione del 1929, mira a creare posti di lavoro, non precari: guarda insomma all’economia reale, fatta di uomini che lavorano, producono, spendono; mentre la seconda, formulata da Milton Friedman, e tuttora dominante, ha un occhio di riguardo per i “mercati”, ossia per le quotazioni di borsa, gli indici monetari, insomma le tabelle finanziarie, secondo cui un’azienda, anziché un aggregato fisico di persone che creano ricchezza, è solo un titolo azionario, oggi quotato 100, e domani scende o sale sulla base di analisi, previsioni,  o semplici rumors.

Torniamo al TUR: poiché si tratta dell’interesse che lo Stato deve pagare sui titoli pubblici (BOT, CCT, BTP, ecc.) che cede alla Banca Centrale in cambio delle banconote che questa stampa, è chiaro che esso ha una diretta e sostanziale influenza sulla formazione del c.d. debito pubblico, ossia su quanto lo Stato “deve” alla Banca Centrale, pur non avendo questa fatto altro che stampare delle banconote di vario taglio e colore.

Lo scopo che i governi succedutisi dal 1981 si erano prefissi, ovviamente dietro diktat dei banchieri, che dai tassi alti hanno tutto da guadagnare, fu pienamente raggiunto. Anche troppo. Infatti, l’inflazione, che negli anni precedenti era sempre stata superiore all’andamento del TUS, fu impietosamente e progressivamente domata, risultando da allora in poi sempre ben inferiore al TUS; a prezzo però di un debito pubblico in esplosiva ascesa, anno dopo anno. Si vedano i due grafici allegati, per rendersene conto. Ciò significa, pertanto, che soltanto nei primi anni del corrente secolo la forbice tra TUR e inflazione s’è quasi annullata (creando peraltro varie bolle speculative, come quella di dot.com e poi quella immobiliare), mentre noi stiamo pagando e continueremo a pagare il fio dei tassi a due cifre con giugulatori prelievi fiscali e contributivi per abbattere un debito pubblico che oggi rappresenta il 107% del PIL; quando esso si aggirava intorno al 60% (ossia proprio l’obiettivo che si prefigge l’UE) prima dell’avvento delle politiche monetarie di Ciampi e Fazio, durate oltre 23 anni. Chi ha fatto questi calcoli e i due grafici in calce* conclude che i due suddetti governatori di Bankitalia sono costati alla nazione oltre il 96% del nostro PIL attuale, ossia il valore dell’area rossa evidenziata sui due grafici; mentre, se fosse proseguita la politica à la Paolo Baffi, il nostro debito pubblico sarebbe oggi un esiguo 13% del PIL!

Eppure, Ciampi è stato salutato come salvatore della patria ed eletto addirittura Presidente della Repubblica, mentre Fazio ha lasciato ingloriosamente l’incarico, ma per motivi che nulla hanno a che vedere con l’enorme debito sopra evidenziato.

I guasti del monetarismo, tuttavia, non si fermano qui. Il 1981 e il 1992 sono due date infauste per l’economia (non la finanza) italiana. Vediamo perché.

Il 1981 segna l’inizio della lunga strada delle privatizzazioni, e cioè della svendita alla mano privata di banche e aziende in toto o in parte dello Stato. La gestione di questa colossale opera di alienazione fu affidata ad un “tecnico” del Ministero del Tesoro, Mario Draghi, suo direttore generale. Se qualcuno a volte si chiede dove alla fine risiedano i poteri forti, cui ogni tanto si fa cenno, ebbene, eccone uno: come altrimenti definire chi ha curato cessioni, o più spesso “saldi”, di beni per un totale sinora stimato ad oltre 130 miliardi di euro? In ciò avvalendosi della consulenza di un gruppo privilegiato di banche d’affari, investment banks, tutte traniere, come Goldman Sachs, JP Morgan, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Credit Suisse. Che Draghi abbia svolto in maniera ineccepibile, almeno per gli acquirenti, il proprio mestiere, lo conferma la sua successiva presa in forza da parte di Goldman Sachs, con un incarico di tutto prestigio: vice-direttore generale e presidente della GS Int’l.

In tale veste egli fece parte dell’esclusivo team di personaggi che nel 1992 si riunì sul panfilo Britannia di SAR la regina Elisabetta II per mettere a punto la successiva marcia verso la moneta unica, a partire dall’entrata in funzione del Trattato di Maastricht, firmato nel febbraio 1992 e, dopo la rovinosa svalutazione della lira, entrato in vigore l’anno successivo, con rigide restrizioni, prima fra tutte quella del tetto del 3% tra deficit e PIL, che oggi tutti ben conosciamo.

Un punto sul quale gli organi d’informazione non si soffermano mai non è tanto l’immissione di nuove banconote nel circuito da parte della banca centrale europea (BCE), fisiche e in quanto tali non moltiplicabili a piacere, quanto invece il moltiplicatore bancario, ossia la legittima immissione di denaro che le banche commerciali creano dal nulla con il credito a privati in rapporto di 2 a 100 (ossia prestando 100, quando in contanti hanno solo 2). Gli scompensi monetari sono in buona parte dovuti a questa facoltà data alle banche private di gonfiare la circolazione di moneta scritturale senza averne che in minima parte la disponibilità. Le leggi che questo governo ha solo accentuato, ma che hanno origini lontane (a cominciare, appunto dalle decisioni innescate nel 1981 e 1992), non fanno che accrescere la sproporzione tra denaro liquido, creato dalla BCE, e denaro virtuale, creato dalle banche, con l’aggiunta dei famigerati derivati, collaterali e leverages: tutti strumenti di pura alchimia finanziaria, con cui l’economia non ha nulla da spartire.

In controtendenza alle recenti disposizioni, varate dal governo Prodi col pretesto di combattere l’evasione fiscale (!), sarebbe auspicabile l’immissione di nuova moneta cartacea, al posto di quella virtuale (assegni, bonifici, carte di credito, ecc.), proprio per limitare la circolazione incontrollata di quest’ultima, responsabile, lei sì, delle spinte inflazionistiche, poiché basata sul debito, che altro non è che il considerare come presente un bene ancora non nato. Il rapporto tra moneta cartacea e virtuale in Svizzera è circa doppio del nostro; e non si può certo dire che si tratti di una nazione sprovveduta in fatto di denaro o malata di inflazione.

Considerazione finale: che Draghi abbia svolto brillantemente i suoi compiti, che inizialmente dovevano essere nell’interesse dello Stato, in quanto Direttore del Tesoro, e poi delle banche d’affari, in quanto presidente della Goldman Sachs International, è comprovato dalla sua successiva nomina a Governatore di Bankitalia, carica riservata a chi cura a dovere gli interessi delle banche che pretende di controllare, ma che in realtà sono sue azioniste: un fatto tenuto segreto fino al passaggio delle sue principali mansioni alla BCE. Come segrti erano gli azionisti della Federal Reserve americana, tra cui spicca, guarda caso, proprio la Goldman Sachs. 

 

Marco Giacinto Pellifroni                                                    18 novembre 2007

 

 

 

·        *Lino Rossi, “La genesi del debito pubblico in Italia”, su www.lavoceditalia.it