Un messaggio in bottiglia da Enrico Bonino
                                                 di
Sergio Giuliani     versione stampabile

Mombaldone, paese di origine di Enrico Bonino A due anni dalla sua scomparsa, per l’affettuosa cura della famiglia e degli amici, Enrico ci parla ancora per una silloge poetica e di prose di ricordi legati al suo paese di origine, Mombaldone, illimpiditi dalla sapienza esperta dello scrivere sempre attento e misurato e dalla filosofia di vita ben costruita e solidissima, fondata sul vivo cemento degli affetti familiari.

                  Con questa personale “sapienza”, Enrico evita due gravissimi rischi, il bozzettismo provinciale (di cui si pensi, Vittorini ebbe l’impudicizia di accusare Fenoglio!), tanto per intenderci, alla Fucini e la melassa della memoria che, quando inelaborata, invischia sul nascere motivi letterari anche non scapaci.

                   Il libro si legge d’un fiato e con interesse partecipe, proprio perché maturato come opera ultima di uno scrittore di già ricco carnet, come un ritorno-addio ad uomini e luoghi d’un tempo che, pur passato, pur tenuto sempre sotteso, mostra, ad una coscienza fattasi via via più avvertita, la propria trama essenziale nel costruire il valore fondamentale del vivere e dello scrivere di Enrico. Il rispetto, dolce, ma non disarmato, per uomini e paesaggi che gli è stato dato di conoscere e, quindi, di amare, insieme di “scogli sommersi” (per citare un suo titolo) che ci sono e danno appoggio, non cozzo, anche quando non si vedono. E si vedono soltanto, chiari, quando la marea si ritira.

                  Al ritrovato e rarissimo oggi piacere della lettura agevole, piana, colorita (in magistrale duetto con le opere di Caldanzano, sodale di Enrico, riprodotte in coperta e nel testo del volume), a quel sussurrare come di foglie o d’acque di fiume che dà il dono infrequente davvero dell’abbandonarsi ai sentimenti, garantiti come si è dalla solida spalliera del tessuto linguistico vengono alla mente ben presto due antecedenti,suggeriti subito (uno, poi, nel titolo, che riprende la sua “Sinfonia proustiana”): Proust e Lee Masters.

                  Ma impossibili i raffronti. A Bonino, vir politicus civisque impiger non si addice lo scivolamento totale nel profumo del ricordo corso fino in fondo da Proust: ben altro era il suo stampo ed ammirare, studiare l’opera di uno scrittore e  farsene compagnia non è diventarne clone. Mancò a Bonino l’assoluta ed annientante fino alla malattia dedizione all’esclusivo recupero dei continui caleidoscopi per leggere la vita come letteratura. Per lui valse il motto di Carlo Bo, ligure: letteratura come (la) vita, che è, innanzitutto.

                  E’ pur vero che anche i morti di Lee Masters “dormono, dormono sulla collina”: ma non è il Toet. E poi, manca nell’americano quella soffusa pietas che non nega certo il male, il caos della guerra, la morte, ma li comprende, li addolcisce e li distoglie dall’invettiva, dall’urlo che squasserebbe l’ordine del paesaggio che, sempre, si ricompone come la natura fa dopo un temporale.

                 La vena più sottile e più valevole della poesie e dell’intero dire, per opere, per parole e per scritti, di Enrico Bonino è l’elegia, il flauto di canna contro il chiassate del “tutti” nell’orchestra. In lui è sempre vivissimo il pudore di “rompere” il canto in…banda. Pudore che, del resto, ritenne per tutta la vita, nell’addio sereno agli amici ed alla famiglia e nel continuo sottotono, quasi una timidezza, con cui trattò la materia più preziosa e più difficile che si ricava dall’esperienza del vivere sempre presenti a se stessi: gli affetti per uomini e paesi e i ricordi.

                Operazione delicatissima: un colpo di stecca fuor di misura del ceramista o un soffio del vetraio rischiano di distruggere nodi che, fuor di leggerezza, si perderebbero subito, come soltanto riflessi. 

Sergio Giuliani 

Enrico Bonino  “Passeggiando con Proust”  Sabatelli ed.re Savona 2007