Un messaggio in bottiglia da Enrico Bonino |
A due anni dalla sua scomparsa, per l’affettuosa cura della famiglia e degli amici, Enrico ci parla ancora per una silloge poetica e di prose di ricordi legati al suo paese di origine, Mombaldone, illimpiditi dalla sapienza esperta dello scrivere sempre attento e misurato e dalla filosofia di vita ben costruita e solidissima, fondata sul vivo cemento degli affetti familiari. | |
Con questa personale “sapienza”, Enrico evita due gravissimi rischi, il bozzettismo provinciale (di cui si pensi, Vittorini ebbe l’impudicizia di accusare Fenoglio!), tanto per intenderci, alla Fucini e la melassa della memoria che, quando inelaborata, invischia sul nascere motivi letterari anche non scapaci. Il libro si legge d’un fiato e con interesse partecipe, proprio perché maturato come opera ultima di uno scrittore di già ricco carnet, come un ritorno-addio ad uomini e luoghi d’un tempo che, pur passato, pur tenuto sempre sotteso, mostra, ad una coscienza fattasi via via più avvertita, la propria trama essenziale nel costruire il valore fondamentale del vivere e dello scrivere di Enrico. Il rispetto, dolce, ma non disarmato, per uomini e paesaggi che gli è stato dato di conoscere e, quindi, di amare, insieme di “scogli sommersi” (per citare un suo titolo) che ci sono e danno appoggio, non cozzo, anche quando non si vedono. E si vedono soltanto, chiari, quando la marea si ritira. Al ritrovato e rarissimo oggi piacere della lettura agevole, piana, colorita (in magistrale duetto con le opere di Caldanzano, sodale di Enrico, riprodotte in coperta e nel testo del volume), a quel sussurrare come di foglie o d’acque di fiume che dà il dono infrequente davvero dell’abbandonarsi ai sentimenti, garantiti come si è dalla solida spalliera del tessuto linguistico vengono alla mente ben presto due antecedenti,suggeriti subito (uno, poi, nel titolo, che riprende la sua “Sinfonia proustiana”): Proust e Lee Masters. Ma impossibili i raffronti. A Bonino, vir politicus civisque impiger non si addice lo scivolamento totale nel profumo del ricordo corso fino in fondo da Proust: ben altro era il suo stampo ed ammirare, studiare l’opera di uno scrittore e farsene compagnia non è diventarne clone. Mancò a Bonino l’assoluta ed annientante fino alla malattia dedizione all’esclusivo recupero dei continui caleidoscopi per leggere la vita come letteratura. Per lui valse il motto di Carlo Bo, ligure: letteratura come (la) vita, che è, innanzitutto. E’ pur vero che anche i morti di Lee Masters “dormono, dormono sulla collina”: ma non è il Toet. E poi, manca nell’americano quella soffusa pietas che non nega certo il male, il caos della guerra, la morte, ma li comprende, li addolcisce e li distoglie dall’invettiva, dall’urlo che squasserebbe l’ordine del paesaggio che, sempre, si ricompone come la natura fa dopo un temporale. La vena più sottile e più valevole della poesie e dell’intero dire, per opere, per parole e per scritti, di Enrico Bonino è l’elegia, il flauto di canna contro il chiassate del “tutti” nell’orchestra. In lui è sempre vivissimo il pudore di “rompere” il canto in…banda. Pudore che, del resto, ritenne per tutta la vita, nell’addio sereno agli amici ed alla famiglia e nel continuo sottotono, quasi una timidezza, con cui trattò la materia più preziosa e più difficile che si ricava dall’esperienza del vivere sempre presenti a se stessi: gli affetti per uomini e paesi e i ricordi. Operazione delicatissima: un colpo di stecca fuor di misura del ceramista o un soffio del vetraio rischiano di distruggere nodi che, fuor di leggerezza, si perderebbero subito, come soltanto riflessi. Sergio Giuliani Enrico Bonino “Passeggiando con Proust” Sabatelli ed.re Savona 2007
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