Nella convinzione che, in un villaggio globale, ogni piccolo passo avanti su questa strada può essere più esplosivo di tante bombe
To be or not to be
Pensieri sparsi sul caso Hina


                                            di
Antonella de Paola       versione stampabile

Chi mi conosce, sa bene come il mio viscerale coinvolgimento nella battaglia per i diritti animali mi induca ad essere alquanto monotematica. Non per disinteresse nei confronti di altre sacrosante battaglie, come qualcuno sostiene, ma per la convinzione che occorrano degli “specialisti” anche nel campo del volontariato e che, a fare tante cose diverse, difficilmente si riesce a lasciare un impronta.

Se non fossi assorbita a tempo pieno dall’ animalismo, però, mi batterei per i diritti delle donne che, per la loro congenita fragilità, sono sempre state soggette ad abusi non molto dissimili da quelli a cui sono sottoposti gli animali.  
Il crescendo di violenza contro le donne, dentro e fuori casa, che emerge chiaramente dalle pagine di cronaca nera della nostra “civilissima” società, sembra del resto indicare che, da questo punto di vista, stiamo attraversando una fase di regressione. Il fenomeno non è imputabile solo alla presenza dei tanti stranieri che vivono nel nostro Paese e che importano usi e costumi a noi fortunatamente estranei, ma anche ad una equiparazione tra i sessi che è stata recepita più a livello giuridico che non a livello culturale. Ne è una prova, ad esempio, il numero spaventoso di donne uccise o perseguitate da uomini, 100% italici, che non tollerano di essere stati abbandonati o traditi. Mogli e fidanzate sono da sempre sostituite con modelli nuovi o di più recente fabbricazione, cornificate ed umiliate senza alcun rispetto. Ma se ora una donna, forte della sua indipendenza economica, restituisce la cortesia, lo “sgarbo” viene punito con la persecuzione o con il sangue. Insomma, chi abbandona, da che mondo è mondo, è l’ uomo. Che diamine! 

In via del tutto eccezionale, ho deciso perciò di dare un piccolo contributo alle riflessioni recentemente esposte da Gloria Bardi nel suo ultimo articolo per Trucioli: “Trilogia in D (Dounia, Donna, Dio)” e, visto che sono poco predisposta per le considerazioni filosofiche, inizierò il discorso con il racconto di una piccola, ma significativa, esperienza personale. 

Quando ero ragazza mi capitò di essere introdotta in un esclusivo e potente gruppo cattolico internazionale, un gruppo tanto apprezzato dalle alte gerarchie romane per la sua aderenza alle antiche tradizioni della Chiesa quanto criticato dal mondo laico per lo stesso motivo oltre che per la sua sospetta natura massonica. Malgrado io provenissi da un'educazione assolutamente laica, il difficile momento personale che stavo attraversando, unitamente alla fin troppo premurosa cura della mia anima che i membri del gruppo si affannarono a prestarmi e, non ultima, la mia natura combattiva che non mi fà indietreggiare di fronte alle sfide, mi spinsero ad abbracciare uno stile di vita pressoché monastico: messa e rosario tutti i giorni, confessioni settimanali, giaculatorie a bilanciamento delle altrui bestemmie, fioretti a tavola e, soprattutto, silenziosa accettazione delle direttive spirituali impartitemi.  

Decidete voi se il cambiamento di vita che ne derivò fu il risultato di una fede faticosamente scoperta o, piuttosto, di un comprensibile sconvolgimento psicologico, tanto più forte quanto operato in nome di Dio. Sta di fatto che modificai radicalmente il mio stile di vita tanto da indurre le mie guide spirituali a pensare di avermi ormai traghettato, una volta per tutte, verso la salvezza eterna. Chi conosce i metodi di questo gruppo religioso, del resto, sa che chi entra a farne parte, difficilmente riesce ad uscirne... non foss' altro perché la paura della dannazione eterna nel frattempo inculcata è di norma sufficiente a convincere i dubbiosi.  

Ma si sbagliavano. Come i migliori matrimoni cominciano a scricchiolare quando, un giorno come tutti gli altri, ci si scopre improvvisamente insofferenti agli alluci del nostro partner – troppo tozzi, troppo grassocci, troppo poco sexy- analogamente la mia ribellione contro Dio - perché ciò in sostanza ti viene fatto credere in certi ambienti religiosi che si ergono a Sua rappresentanza - iniziò quando, essendo estate, mi venne detto di usare il costume intero e non il due pezzi. Premetto che, non essendo mai stata fanatica della vita di spiaggia, la richiesta non era per me motivo di rinuncia tuttavia questa raccomandazione ebbe il potere di mettere in moto un inarrestabile processo di revisione. In quale passo della Bibbia si dice mai che non bisogna indossare il bikini? E quanto profonda poteva essere la scollatura del costume intero perchè non fosse ancora più conturbante di un castigato due pezzi? Ricordo ancora la bella e giovane ragazza che mi diede questo santo consiglio. Era luglio e indossava i collant di nylon. Non certo per non disturbare la serenità mentale degli uomini presenti - le due sezioni in cui si divide il gruppo, quella maschile e quella femminile, fanno vita rigorosamente separata e non si incontrano neppure per sbaglio - ma, coerentemente, per dare il buon esempio. 

Se questa richiesta era una gratuita invasione della mia libertà personale, mi dissi, allora forse erano opinabili anche altri precetti che mi erano state venduti come "parola di Dio". Prima fra tutti, quello che avevo accantonato, così come si fa con le domande più ostiche di un questionario, che mi chiedeva di prepararmi al vero scopo della mia vita: essere moglie e madre. I miei studi erano sì importanti ma più per "guadagnare punti" al fine di un buon matrimonio che non per la mia carriera personale. Di fronte alla scelta tra lavoro e famiglia, non c’era infatti dubbio su quale strada  avrei dovuto seguire. Tanto più che i precetti sulla vita coniugale predisponevano a famiglie molto numerose che non avrebbero di certo lasciato spazio ad altre attività. Se poi si considera che non sfuggiva occasione per ricordarci che una buona moglie, sempre di un gradino inferiore a suo marito, ubbidisce al capofamiglia con il sorriso sulla bocca e non lo irrita con lamentele e richieste moleste quando lui torna a casa, stanco per aver lavorato duramente per il bene della famiglia, allora, aggiungo adesso, molto meglio rimanere in uno stato di ebetismo culturale.  

Se siete arrivati a leggere fin qui, probabilmente vi chiederete con una certa apprensione che fine ho fatto. Tranquilli. Lo stesso coraggio che mi aveva fatto accettare uno stile di vita totalmente diverso da quello a cui ero abituata, mi permise anche di uscirne fuori nel momento in cui smisi di ritenerlo giusto. E la convinzione che la propria coscienza - sempre che si abbia l’ onestà di ascoltarla -  sia la migliore delle guide spirituali, mi ha permesso non solo di sganciarmi dall' invadenza di certa religiosità ma anche, e in questo le mie peripezie sono state ampiamente premiate, da ogni forma di ideologia, conformismo o abitudine che non capisco e non sento miei.  

Un lieto fine, insomma. Tanto più che, pur al di fuori dei canali ufficiali, confesso di non aver smesso di sperare per la salvezza della mia anima. Se l’ astensione dal consumo di carni (quelle rosse, al venerdì, per i cristiani; quelle suine, sette giorni su sette, per gli ebrei ed i musulmani) aiuta a conquistare un pezzetto di paradiso, la mia dieta rigorosamente vegetariana - che mi porta a risparmiare la vita di “tutto ciò che ha occhi”, pesce incluso, ogni giorno dell’ anno e da tempo ormai immemorabile - potrebbe forse bilanciare le numerose e indubbie mancanze in altri campi della vita. 

E pazienza se non aderire ad una confessione religiosa totalizzante toglie sicurezza ed obbliga a farsi carico delle proprie responsabilità quotidiane. Sull’ altro piatto della bilancia c’è il libero arbitrio che, credo, è la cosa più preziosa della nostra esistenza. E’ vero che, a ben vedere, la nostra volontà è in realtà il risultato di un’ infinità di altri condizionamenti esterni ma è pur vero che, nell’ esercizio dell’ autodeterminazione, si può decidere di andare anche controcorrente (sempre per rifarsi al vissuto, si può essere vegetariani anche in una società che considera normale usare gli animali come carne da macello) mentre, quando i nostri impulsi si scontrano  con la (presunta) legge divina, non si può che piegare la testa e ad essa  uniformarsi. 

Ma, e vengo al punto, quanti di coloro che si sono avvicinati a gruppi integralisti, cristiani o musulmani poco cambia, sono rimasti ad essi irrimediabilmente invischiati, per ignoranza, fragilità psicologica o avverse condizioni sociali? E se liberarsi dalla morsa di una religione fagocitante può mettere a dura prova una persona mediamente equilibrata e fisicamente e giuridicamente libera, quali speranze può avere chi nasce in un ambiente caratterizzato dall’ analfabetismo e dal fanatismo? E come possono le donne affrancarsi dalla loro schiavitù, se le religioni, scritte da uomini e da uomini sempre interpretate e tramandate, remano contro di loro? Non so cosa dica il Corano, né potrebbe interessarmi di meno, ma certe “perle” di pura misoginia negli scritti di San Paolo, tanto per fare un esempio, di certo non sono estranee al massacro, fisico e non, di cui le donne sono sempre state oggetto.  

Fatta questa premessa, è inutile che vi nasconda la mia istintiva repulsione per tutte quelle culture in cui la religione, elevata a sistema giuridico, impone alle donne condizioni di vita che, a chi si occupa di diritti animali, non possono che portare alla mente quelle riservate agli animali “da macello”: in entrambi i casi le vittime sono oggetti di proprietà, cose che si comprano e si vendono a piacimento, beni di cui far uso o di cui disfarsi a seconda delle indiscusse necessità del loro proprietario, esseri viventi a cui non vengono riconosciuti né diritti né bisogni. E, in entrambi i casi, il tutto è pienamente giustificato, anzi prescritto, dalla parola ineffabile ed indiscutibile dell’ Onnipotente.  

So di non essere politically correct ma, pur nel rispetto delle differenze tra i popoli e le culture, tanta violenza non può e non deve essere tollerata. Negare ad una persona di imparare a leggere e a scrivere, ricevere cure mediche, scegliere chi sposare e chi no,  guardare la televisione e uscire di casa, sono abusi che nessun Dio del cielo può richiedere (anche perché se così fosse avremmo tutti i motivi per diventare seguaci di Satana) e che nessun dio della terra ha diritto di imporre. 

Se l’ intervento militare fosse in grado di porre fine alla legalizzazione della schiavitù femminile, credo che imbraccerei il fucile ed andrei a dare una mano. Ma, almeno da questo punto di vista, la “liberazione” dell’ Afghanistan non ha apportato significativi miglioramenti: dopo un’ iniziale timida euforia, si continua ad indossare il burqa ed i talebani stanno tornando a guadagnare consensi. Il fatto è che i cambiamenti reali, profondi e duraturi possono aver luogo solo se sono scelti liberamente. Altrimenti è come cercare di far smettere di fumare chi non ha nessuna intenzione di farlo. 

Visto che è improbabile che le religioni si faranno mai promotrici di una società dove le donne non sono relegate a ruoli precostituiti e repressivi, credo che la soluzione non possa che venire, almeno inizialmente, dalle donne stesse. Solo loro, muovendosi all’ interno dei singoli contesti, così come hanno fatto al loro tempo le suffragette e le donne sessantottine, possono trovare il modo di modificare gradualmente ciò che le opprime. E, malgrado l’ infinita diversità dei contesti e della libertà d’ azione, questo vale per l’ Afghanistan come per l’ Italia dove il femminismo ha sì smantellato tanti pregiudizi e tante ingiustizie ma si è comunque arenato prima di aver risolto il problema alla radice.  

Non si può, ad esempio, pretendere pari rispetto e pari dignità quando non si è poi capaci di sottrarsi ad antichi ruoli e ad antiche arti di ascesa sociale. Capisco che una ragazza possa decidere di arricchirsi e diventare famosa mostrando con generosità i doni concessile da una natura benigna. E posso capire anche che, per meglio garantirsi il futuro, ella accetti di stendersi sui divani dei suoi luridi pigmalioni. Quello che non capisco è perché non ci siano proteste per l’ esaltazione mediatica della donna-oggetto, che ha raggiunto livelli mai raggiunti prima o, peggio ancora, come mai siano le stesse donne che, con il loro interesse per le vicende personali delle veline di turno, alimentano una mistificazione che trasforma in icone di successo quelle che fino a non molto tempo fa erano comuni puttane.  

Per quanto possa sembrare paradossale, al momento sembra che le femministe più autentiche e coraggiose siano proprio le musulmane residenti in Occidente. Il confronto ed il contatto con una società così diversa dalla loro, seppure non sempre degna di emulazione, non può non avere messo in evidenza la gratuità delle tradizioni maschiliste delle loro culture né non aver svelato prospettive di vita per loro finora inimmaginabili. La povera Hina, così profondamente diversa dai suoi familiari da non riuscire ad immaginare a quali eccessi la loro ristrettezza mentale poteva arrivare, è un caso emblematico del contrasto di chi, libera di essere se stessa, sa vivere al di fuori di schemi mentali precostituiti e chi, incapace di fare altrettanto, non esita ad imporre agli altri le sue ferree e preconfezionate ideologie. Come è emblematica la decisione delle donne marocchine di uscire fuori dalle mura di casa e costituirsi parte civile nel processo contro i suoi assassini; o, ancora, la grande dignità di Dounia, che non è indietreggiata di fronte alle minacce dei suoi aggressori malgrado essi appartengano ad una cultura dove le donne che non stanno al loro posto vengono zittite ora con acidi devastanti ora con la lapidazione. 

Mi auguro vivamente che la giustizia italiana sia all’ altezza del caso e che, superate le sue tante inefficienze, sappia esprimersi in maniera forte ed inequivocabile, affinché sia ben chiaro a tutti che, almeno nel nostro Paese, per queste tradizioni, che con lo Spirito nulla hanno a che fare, non c’è spazio. Una pena esemplare per i carnefici di Hina, la scorta per Dounia, la solidarietà del popolo italiano non sono solo un doveroso tributo alle tante donne che cadono sotto i colpi di chi è stato a sua volta annientato dal fanatismo religioso ma anche il modo più concreto per dare coraggio a donne che, di certo, ne hanno molto bisogno. Nella convinzione che, in un villaggio globale, ogni piccolo passo avanti su questa strada può essere più esplosivo di tante bombe.  

Antonella de Paola