A differenza di Paesi più “primitivi” noi siamo ancora talmente convinti della nostra intelligenza e superiorità che consideriamo i discorsi sul signoraggio bancario frutto di esotici e un po’ bizzarri pensatori
BANCAROTTA: CHI LA FA L’ASPETTI

Marco G. Pellifroni

I tempi cambiano, e veloci. L’IMF (Fondo Monetario Internazionale), per decenni e fino agli anni ’90, è stato il grande dispensatore di prestiti ai Paesi in difficoltà ad interessi tali da metterli ancora più in difficoltà, sino alla bancarotta. L’IMF non solo dispensava prestiti a usura, li condizionava anche a precise direttive economiche e politiche, sostituendosi di fatto ai governi dei Paesi “beneficiari”.

Il destino ha voluto che negli ultimi anni, memori dei disastri sociali in cui le ricette dell’IMF li avevano condotti, molti Paesi siano riusciti ad uscire dal tunnel di fame e disperazione nel quale erano precipitati e ad affrancarsi dalle sue inique regole. Regole, tanto per intendersi, che miravano a sostituire sempre più i prodotti locali, consumati in loco, con la produzione massificata di merci destinate ai Paesi industrializzati, sfruttando i terreni e le risorse naturali con tecniche agricole e impianti industriali d’importazione, pagati, in dollari, a carissimo prezzo, mentre il valore in valuta locale dei loro stessi prodotti continuava a decrescere, sino, appunto, alla miseria e al suicidio. Così, ad esempio, al posto di sementi tradizionali, da sempre impiegate per sfamare i suoi propri abitanti, l’IMF imponeva sementi ibride brevettate da società occidentali, come Monsanto o Du Pont, col divieto di utilizzarle per le semine future e l’obbligo di acquistare invece le sementi d’importazione. Ovvero, ai campi di leguminose od altre varietà alimentari atte a nutrire i suoi abitanti, i campi venivano d’imperio trasformati in lande per la produzione di cotone o di mais: quest’ultimo per foraggiare il bestiame destinato a trasformarsi in hamburgers per i consumatori statunitensi, o in “bioalcool” per le loro automobili. L’ordine era: produrre per esportare.

Ogni medaglia, però, ha il suo rovescio; e l’aver delegato tante produzioni industriali e agricole a Paesi del Terzo Mondo ha finito col delocalizzare gran parte di industria e agricoltura fuori degli USA, con la conseguente perdita, negli USA stessi, dei posti di lavoro migliori e un abbassamento generale di salari e stipendi, perlopiù nel terziario. Gli americani si sono così, poco per volta, quasi insensibilmente, trasformati in consumatori-non produttori, una sorta di pensionati del mondo: una condizione che presto non sarà più tollerata dagli attuali vassalli; e il lievitare esorbitante delle spese militari, addirittura con la pretesa di avere il dominio assoluto anche degli spazi siderali, è indice dell’intento, pur velleitario, degli USA di mantenere a qualunque costo l’attuale supremazia planetaria. Ho già avuto modo di esprimere il concetto che chiunque pretenda di vivere a spese di altri deve cautelativamente armarsi fino ai denti, in vista di reazioni non precisamente pacifiche da parte dei pretesi sudditi. L’impero romano ne fornì eccellente esempio. E gli USA stanno seguendone passo passo le orme. A cominciare dalla loro valuta.

Il dollaro è attualmente una valuta “politica”. E questo, per il Paese foro e faro degli ideali del libero mercato, è davvero grottesco. Se lasciato al suo destino sui mercati, si calcola che il dollaro perderebbe dal 35% al 50% del suo attuale valore rispetto alle altre valute (calando da 82 a 40 ca. nel paniere delle valute più importanti) e all’oro (dagli attuali $ 650/oz al doppio): qualora questo sembri esagerato, si pensi che il dollaro ha oggi un potere d’acquisto pari al 2% di quello che aveva quando fu fondata la Federal Reserve, nel 1913. Se i governanti sembrano serafici nel moltiplicare le spese militari nei vari scacchieri, la popolazione americana lo è molto di meno, a quanto è dato leggere su Internet circa le loro preoccupazioni, lì espresse senza censure.

Tornando all’IMF, vari Paesi latino-americani, oberati dai debiti verso questo istituto, sono riusciti a saldarli provvedendo, attraverso governi non corrotti dalla CIA & Co., a nazionalizzare in buone parte le proprie risorse naturali, incamerandone gli utili, sino allora appannaggio delle multinazionali. In più, nazioni come il Venezuela, grazie al petrolio nazionalizzato, concedono prestiti, tramite il Banco del Sur, alle nazioni viciniori a tassi molto più convenienti di quelli dell’IMF. Anche la Russia ha seguito l’esempio, risollevandosi da anni terribili con la nazionalizzazione delle risorse gas-petrolifere, prima in mano ad oligarchi residenti nei paradisi fiscali occidentali. Risultato: l’IMF l’anno scorso è rimasto quasi senza clienti, con prestiti esteri per soli $ 50 milioni e un deficit di gestione di oltre $ 100 milioni. Per evitare una vergognosa bancarotta, dovrà por mano alla vendita di 400 ton di lingotti d’oro e ridimensionare le sue prodighe spese. (Come già scritto in precedenza, tuttavia, non solo l’IMF, ma quasi tutte le banche centrali hanno assottigliato i loro caveau, per evitare un eccessivo apprezzamento di questo simbolo solido della ricchezza, con ciò rivelando quanto poco valga il fiat money con cui hanno inondato il mondo).

E noi? Noi stiamo percorrendo la strada esattamente opposta: stiamo privatizzando tutto quanto c’è rimasto di pubblico e picconando invece i piccoli privati, ossia le PMI (Piccole-Medie Imprese, che sono la struttura portante della nazione che produce), con un accanimento giustificabile soltanto con la volontà di toglierle di mezzo per far posto alla visione “mega”: mega industrie, mega distribuzione, agricoltura industrializzata e chimicizzata, tutte asservite al grande capitale privato. Proprio quello da cui i Paesi ex-poveri si stanno gradualmente affrancando, avendovi individuato le cause del loro trascorso malessere.

Noi per fortuna non abbiamo contratto prestiti con l’IMF, né con la sua degna sorella, la Banca Mondiale, ma in compenso il nostro Stato prende a prestito dalla BCE tutto il denaro circolante, e i cittadini ottengono montagne di prestiti fasulli ad interessi crescenti dalle banche commerciali. Questo strozzinaggio è pari, se non peggiore, di quello delle due suddette banche internazionali, e il nostro debito pubblico altro non è che il cumulo degli interessi accumulati negli anni verso il sistema bancario che opprime la nostra economia attraverso tassi e tasse: un binomio simile non solo etimologicamente.  

A differenza di Paesi più “primitivi” però, noi siamo ancora talmente convinti della nostra intelligenza e superiorità che consideriamo i discorsi sul signoraggio bancario frutto di esotici e un po’ bizzarri pensatori; il “buonsenso” aleggerebbe invece nei saloni bancari, sulle loro targhe in lucido ottone, tra le pagine dei loro resoconti annuali, che nascondono sotto la voce “passivi” quanto prodotto dalle loro attivissime stamperie di banconote e carte di credito, spacciando per perdite, quindi esentasse, i profitti.

Se avremo l’umiltà di imparare qualcosa dai Paesi che siamo adusi guardare col sussiego di baroni bocconiani, la nostra più saggia e significativa nazionalizzazione sarà –dovrà essere- quella della nostra moneta, consegnata con le mani legate alla signoria di Francoforte prima da Ciampi e poi, coi lacci anche alle caviglie, da Napolitano. 

Marco GiacintoPellifroni                                                 1° luglio 2007