Evviva!
Quest’è l’Italia nel 2007, questo il nostro occidente.”

Aldo Nove per Arnaldo Pomodoro


                                                 di
Sergio Giuliani     versione stampabile

 L' arte, quella davvero grande, torna a Savona con una mostra di qualità e di impatto anche ambientale di assoluta eccellenza. Solo i savonesi di antica data possono ricordare il deprimente abbandono dell’area del Priamàr e, peggio, del sottofortezza fino a Corso Mazzini con gatterie, campi da bocce disordinate e sudiciume zingaresco.

Si potrà essere d’accordo o meno sui lavori attuati in area, su quanto siano costati e se si potesse far di meglio, ma non è qui il caso per polemiche consunte.
La grande ruota di Arnaldo Pomodoro (col fratello Giò, morto prematuramente, all’avanguardia della scultura non soltanto italiana) accoglie chi transita in corso Mazzini e definisce, rifinisce quel paesaggio: il taglio a scarpa del muro della fortezza, il verde fra cui risaltano i reperti archeologici di quello che fu Borgo Monte (prima del “taglio” imposto da Genova nella prima metà del Cinquecento e di quello voluto, a fine Ottocento, dal sindaco Luigi Corsi per aprire la via Paleocapa, lunga e prestigiosa “finestra” sulla “Torretta”, dal Ponticello si raggiungeva il Priamàr per altura: ciò si legge ancora nella “scarpa” per cui si sale, ad est, verso il Garbasso e ad ovest, per Sant’Andrea, in via Spinola),la ciminiera-ricordo dell’Ilva, le grandi navi Costa che paiono sempre una nuova palazzata, la “Campanassa” e, perché no? La torre Bofil che dialoga ottimamente con la nuova stazione marittima, col borgo del porto rinato a nuova vita e persino con l’accademico grattacielo Standa (il nome resta; la Standa no) sono diventati un insieme moderno e gradevolissimo: vogliamo dire: bello?

     E’ tornata la grande scultura moderna, quella che conoscemmo con Arturo Martini che operava e viveva a Vado Ligure, quella che praticò anche Lucio Fontana, al lavoro a Pozzo Garitta di itta di itta di itta di Albissola.

     “Scultura lingua morta” la definì in un suo libro uno sfiduciato Martini. Arte da piazze ed arte da cimiteri: la committenza era sempre (ed è ancora!) monumentale e retorica, perché a comando, a tema prefissato.

     In epoche di chiasso retorico e vuote si riempiono le piazze di “monumenti” e Savona anche in questo fa eccezione perché il “Garibaldi” di Leonardo Bistolfi è opera davvero riuscita, moderna e movimentata: subentra la “stanchezza” dell’artista mécontent di se stesso ed alla ricerca dell’impossibile: lavorare e modificare la materia grezza secondo un proprio, libero punto di vista; cercare l’espressività senza alienazione e senza comando del committente.

     Arnaldo Pomodoro c’è riuscito. Là dove un amareggiato Martini si fermò, egli ha eluso le irte difficoltà della fusione di metalli adoperando il fiberglass,materiale sintetico moderno, leggero e che tiene il “segno” con assoluta precisione. Su questo materiale Pomodoro ha raccontato la storia atomizzata e drammatica dell’uomo del nostro tempo; forse l’ha privato di una fede, sia religiosa sia politica, l’ha fatto vittima dei mille e mille spigoli di suoi congegni, ma ha mirabilmente riassunto e definito la condizione del vivere. Pomodoro usa gli spazi piani dei parallelepipedi e quelli convessi-concavi delle ruote e delle sfere per una processione di continuo spezzata, caotica sì, ma sempre unidiretta da un senso: la milizia del vivere situazioni mai pacificate, ma sempre irte e puntute.

    Se la “ruota” su Corso Mazzini vive nel paesaggio abitato e trafficato,mobilissimo e distratto e, quindi, ha un impatto immediato, si salga al Piazzale di San Carlo dove,verso ponente, sono sistemate nove opere,di cui la più suggestiva è, certamente, il grande pannello (lungo 12 metri!) che nel titolo simboleggia l’urgenza del messaggio della scultura di Arnaldo Pomodoro: “Le battaglie”. Si tratta di frantumi di umanità, di tempi, di ideali, di fedi, di energia che paiono, a prima vista, intossicanti e disordinati ma che, se affrontati con umiltà ed attesa, comprovano lo sforzo dell’artista per riportare ad unità, a un senso, il caos degli svetrinii, delle sconfitte, delle “urla del silenzio” Il tutto in una prospettiva acquietata come si vive dall’altura del Priamàr: la storia del pannello sta nel cielo che muta luce ad ogni ora e nel golfo e pare eternarsene.

    Come nel teatro greco, vi si accede per due propilei mobili a leggera spinta di mano, col nastro consueto della rovina spezzettata, del soffrire puntuto, rimasto a dolere come denti di sega. Classiche “colonne” aperte come frutti a destra e, a sinistra, le “sfere” sbucciate parzialmente a far altra sfera di minor raggio e di uguale storia. Perché “il tempio”,il “murale” (che ha dietro il meraviglioso,incantante “chiodo” (del crocifiggere? Ma è tetraedrico e splendente!) e gli “scudi” rigati,graffiati che se ne sente ancora lo stridere.) e le “sfere”. Perché sono forme perfette (la sfera è il solido di minor spazio occupato e di maggior volume contenuto!), nate col mondo ed in esse si vogliono riassumere  riscattare, per forza della visione d’artista, i moti browniani dell’umano esperire.

 Sergio Giuliani

 (la prossima puntata riguarderà considerazioni generali e, nello specifico, i lavori di Pomodoro esposti alla galleria Conarte di via Brignoni)