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RACCONTO

 

Il seguente breve racconto, ambientato in un epoca in cui le scorrerie saracene (gli islamici, sempre gli islamici!) erano una triste realtà, al contrario del precedente sui Romani, elaborato appositamente per Trucioli, è stato da me scritto sei anni fa e inserito come prologo di un romanzo pubblicato nel 2003 con il titolo di “Civiltà violenta”. Col senno di poi so che sono presenti degli errori e, a dirla tutta, credo che Finale Ligure e forse Varigotti stessa neppure esistessero nell’anno in cui è ambientato il racconto. Inoltre in questo frattempo la mia scrittura si è, almeno spero, parecchio evoluta. Ciononostante ho deciso, seppure a malincuore, di proporlo senza ritocchi. Come si suole dire: cosa fatta capo ha. Chiedo dunque venia per i suoi evidenti limiti. Come dice il titolo la storia è violenta. Questo perché guerre, banditismo, scorrerie, saccheggi, malattie oggi facilmente curabili ma allora mortali, epidemie, miseria, carestie, sopraffazioni e ingiustizie, lavoro duro e privo di garanzie e sofferenze varie nel passato facevano parte della vita di tutti i giorni. Vorrei che i lettori se ne rendessero conto, quando criticano i tempi odierni. Nonostante molte cose oggi non funzionino e ci si debba giustamente battere perché migliorino, noi viviamo nell’era migliore che l’umanità abbia mai attraversato. Pensateci, mentre ve ne state comodamente spaparanzati davanti alla tv e vi lamentate: se foste vissuti 500 o 1000 o 2000 anni fa probabilmente vi sarebbe andata molto peggio. (N.d.A.).

VIOLENZA A VARIGOTTI

 

Vi era un’intensa e spessa foschia che riduceva molto la visibilità in quel caldo, sereno e anormalmente umido pomeriggio avanzato della tarda estate dell’anno di grazia 967 d. c.. Forse fu questo, o forse furono il sonno e l’affaticamento degli occhi, causati dalla stanchezza e dal riflesso abbacinante del mare nel lucore pomeridiano, che impedirono alla sentinella, appostata sulla torre di avvistamento sovrastante una collinetta, di notare la presenza delle tre navi saracene, che si avvicinavano rapidamente, se non quando queste erano pericolosamente prossime al punto di approdo. 

Alla vista di Alì Kemal, capitano dello sciabecco riadattato “Perla del mediterraneo” e della spedizione saracena, si apriva uno spettacolo di pace e serenità. Il tranquillo e non grande villaggio di pescatori si allargava, con le sue case basse, di non più di uno o due piani e vivacemente colorate nello stile mediterraneo, sul lato sinistro di un piccolo promontorio proteso verso il mare. Sulla sua cima era stata costruita la torre, appositamente per impedire ad imbarcazioni come quella del pirata saraceno di avvicinarsi inosservate.

Il villaggio era immerso nel silenzio. Le barche da pesca erano ormai tutte rientrate a terra e gli equipaggi, scaricato tutto il pescato e portato già al mercato della vicina città di Finale, riposavano all’ombra delle loro case. Stavano in attesa che, intorno all’ora del desinare e terminato il pasto serale, iniziassero i tradizionali chiacchierii di piazza, che rappresentavano il principale contatto sociale tra i rappresentanti di questa pacifica, piccola e uniforme comunità.

Un leggero senso di molle abbandono e di pigrizia coglieva sempre Alì Kemal prima dell’inizio di una battaglia. Sicuramente si trattava di un effetto della normale tensione che provava prima di affrontare una situazione pericolosa, ma sia lui, sia i suoi fedeli marinai e guerrieri, veterani d’innumerevoli scorrerie, avrebbero combattuto con entusiasmo e decisione quando sarebbe giunto il momento della lotta.

E’ un bel paese questo” - pensò Alì – “mi ricorda quasi il mio villaggio natio, sulla costa dell’Afrikiia. Se le case fossero verniciate di bianco, anziché di cento colori, non si vedrebbe quasi differenza. E’ un peccato doverlo mettere a ferro e fuoco. D’altronde si tratta di uno dei principali centri di pesca del ponente della regione. Il bottino sarà certamente ricco e forse, domani, potrò nuovamente puntare le prue delle nostre navi verso sud per rivedere la mia famiglia.

Siamo fortunati oggi, da un pezzo avrebbero dovuto intuire chi siamo, invece l’allarme tarda molto a essere lanciato e per i miei ragazzi, cui prudono le mani, l’occasione è da non perdere.”

Pochi secondi dopo sentì infine partire il segnale d’allarme, proveniente dalla torre e, poco dopo, anche dalla terra ormai vicina e, contemporaneamente, egli si voltò verso i comandanti delle altre due navi per impartire gli ordini necessari. Due delle imbarcazioni puntarono verso la grande spiaggia sabbiosa sull’altro lato del promontorio, approdo ideale per loro. La terza si diresse invece direttamente verso le case del paese, con lo scopo di creare scompiglio e confondere ulteriormente le forze non ancora organizzate degli atterriti locali per poi, in conclusione di tali manovre, approdare per partecipare al saccheggio.  

Fu un gran brutto risveglio dalla pennichella pomeridiana per Antonio e Alberico Driano, figli di Joanni il fabbro e di Gilda la levatrice. C’erano grida, strepito, confusione, la paura prodotta dal repentino pericolo, già percepito ma a loro ancora sconosciuto, che attanagliava il cuore.

Conosciuto il motivo dell’allarme, non ci fu più tempo di provare paura. Gli eventi incalzavano inarrestabili. Gli abitanti del villaggio ebbero appena modo di organizzare la difesa e cercare di allontanare donne e bambini, portandosi via solo alcuni dei loro averi più preziosi. I due giovani corsero freneticamente avanti e indietro, insieme a molti loro concittadini, per allestire una qualche forma di difesa e intanto, quando volgevano rapidamente lo sguardo in direzione del mare, vedevano le imbarcazioni saracene dividersi e prepararsi all’attacco, puntando decise verso terra, rese confuse e quasi spettrali, nonostante non fossero più molto lontane, dall’insolita presenza di una forte foschia particolarmente densa.   

Quando i Saraceni giunsero, con le scialuppe, sulla costa e misero piede sulla candida spiaggia sabbiosa della piccola baia, erano pieni di entusiasmo e di eccitazione per quanto stava per accadere e attendevano con ansia. I musulmani, coi loro turbanti, i caldi e ingombranti vestiti e le scimitarre già sguainate, erano pieni di adrenalina e ansiosi di uccidere. Guidati dall’esperto Alì Kemal, si lanciarono immediatamente all’assalto di un gruppo di paesani che era intervenuto per tentare di rallentarne l’avanzata e che solo per poco non erano riusciti a precedere l’approdo degli assalitori.

Kemal, in testa al gruppo, osservò le proprie future vittime. Costoro erano uomini bassi e relativamente scuri di pelle, non poi così diversi da lui.

Erano visibilmente spaventati, vestiti semplicemente e male armati. Egli, guardandoli, si sentì sicuro di una facile vittoria. Si voltò verso i propri uomini, come lui affamati di bottino, tutti guerrieri ben rodati, e gridò ipocritamente loro:

“Avanti miei prodi e ricordatevi che la nostra è una vera azione di guerra, che muoviamo contro gli infedeli. Allah ve ne renderà merito. Tutto quello che prederemo rappresenterà il segno della sua benevolenza su di noi per aver contribuito alla lotta contro coloro che hanno voluto vedere un dio nel penultimo dei profeti.”

Dal piccolo esercito si alzò un eloquente grido di entusiasmo.

Antonio, che faceva parte di coloro che erano accorsi alla spiaggia, non comprese, ovviamente, il significato dell’invocazione del comandante straniero, né delle urla di risposta, ma il tono di entrambe gli fece capire immediatamente quanto costoro fossero decisi. Egli osservò con timore i nemici, dai vestiti elaborati e vivacemente colorati, armati fino ai denti, ma, quando costoro partirono all’assalto, ogni paura svanì e si preparò a riceverli.

I musulmani fecero irruzione tra le non bene ordinate fila dei locali con un grido selvaggio. Portarono scompiglio e scatenarono una mischia furibonda e una furiosa battaglia, mentre, contemporaneamente, il terzo vascello assaliva i pescherecci e si preparava ad approdare a sua volta, direttamente di fronte agli edifici del paese.

 I guerrieri dell’islam combatterono con risolutezza e gioia feroce, quella era la vita che si erano scelti volontariamente e che gli permetteva di scaricare le loro pulsioni violente. Quando uccidevano qualcuno e vedevano il suo sangue imbrattargli le armi ne provavano piacere e solo il carisma del loro capo gli impediva di lasciarsi andare ad eccessi di ogni sorta. Naturalmente loro stessi rischiavano ogni giorno la vita, ma ciò faceva parte del gioco e, anzi, contribuiva a renderlo più stimolante.

Poco alla volta penetrarono verso il villaggio e presto si finì per combattere in mezzo alle case. Gli scorridori islamici erano interessati sia alle prede materiali sia a quelle umane, che avrebbero poi venduto come schiave. Loro entrarono nelle case con energia e furia. Per fortuna quasi tutte le donne e i bambini si erano messi in salvo, ma, durante i minuti in cui si era sviluppata l’incursione, i saraceni non esitarono ad appropriarsi di quanto trovarono, a fare prigionieri tutti coloro che ritennero adatti a essere in seguito rivenduti come schiavi e a uccidere chiunque avesse tentato di ostacolarli.

Antonio era accorso, insieme a numerosi compagni, verso il luogo in cui i feroci nemici avevano toccato terra, nel disperato quanto vano tentativo di ricacciarli, mentre gli altri, tra cui Alberico, cercavano di salvare i pescherecci. I mori combattevano con energia inesauribile. Egli dovette lentamente indietreggiare, sull’onda d’urto dell’avanzata degli stranieri e alla fine, raggiunte anche da lui le case del villaggio, si trovò coinvolto nella pugna in atto lungo i vicoli del paese, in mezzo al sangue, alla violenza e alla distruzione.

I due fratelli, con grida concitate e combattendo coraggiosamente, si fecero largo nelle rispettive mischie, giungendo rapidamente ad affrontare i nemici. Quando gli scorridori finalmente si ritirarono, vincitori, dal campo di battaglia, le perdite, da una parte ma, soprattutto, dall’altra, erano state ingenti. Nelle numerose mischie a corpo a corpo che si erano susseguite, Antonio e Alberico videro molti dei loro parenti, amici e colleghi, cadere uccisi davanti ai loro occhi.

Alla fine tutto ebbe termine, le imbarcazioni si allontanarono e sparirono lentamente all’orizzonte. Rimase allora un silenzio opprimente, rotto soltanto da sporadici lamenti.

L’azione, dal momento dell’approdo a quello della partenza, era durata meno di un’ora. Gli assalitori si trovavano in regioni per loro infide e densamente abitate. Loro dunque contavano, per la riuscita dell’impresa coronata da una fuga sicura, proprio sulla sorpresa e sulla rapidità d’esecuzione dell’attacco ed erano disposti, a tal scopo, a rinunciare a parte delle prede che avrebbero potuto procurarsi.

Gli equipaggi delle navi pirata nord africane vogavano con lena, per mantenere le distanze dai sopraggiungenti, ma lontani, bastimenti del libero comune di Noli e della signoria di Finale Ligure che, notata infine la loro presenza, avevano immediatamente messo in mare i loro armi per respingerli.

L’azione aveva avuto pieno successo e, grazie alla rapidità con cui era stata condotta, i soccorsi, da terra e dal mare, erano giunti troppo tardi.

Ora i marinai e guerrieri festeggiavano la vittoria, ancora eccitati ed entusiasti, dimentichi delle perdite subite, peraltro non molto ingenti, mentre gli ufficiali studiavano il bottino ottenuto e si fregavano le mani soddisfatti.

Alì Kemal, intanto, volgeva quasi con malinconia gli occhi verso la terraferma, dove il villaggio saccheggiato si faceva sempre più piccolo e indistinto, confuso sullo sfondo della linea costiera, uno dei tanti, e non certo il principale, che si aprivano ora ai suoi occhi lungo la riviera.

Nello stesso istante, nel paese di Varigotti, Anche Antonio e Alberico, tristi e abbattuti, mentre l’adrenalina accumulatasi durante i combattimenti poco a poco li abbandonava, osservavano in direzione dell’orizzonte e vedevano i vascelli sempre più piccoli e indistinti che si allontanavano nel mare aperto. Sentimenti contrastanti li animavano mentre osservavano in silenzio, sentimenti forse forieri di risoluzioni estreme. 

Due giorni dopo gli eventi, durante un’altra giornata insolitamente calda per essere la stagione così avanzata, i superstiti, terminato di seppellire i morti ma non seppellito il ricordo di quanto accaduto, posate le vanghe, rientrarono, sudati, stanchi e affranti nelle loro abitazioni.

Nella casa della famiglia Driano si mescolavano il dolore per la perdita di alcuni dei membri della famiglia, tra cui una loro cugina catturata dagli schiavisti, l’orgoglio per l’ottimo comportamento tenuto dai due fratelli e la vergogna per il loro cugino Mario, la cui colpevole disattenzione, mentre era di sentinella, aveva favorito l’assalto aggravandone le conseguenze.

Antonio si decise infine a parlare ai familiari.

“Mario ha deciso saggiamente di cercare la fortuna altrove e credo che lo seguirò. Desidero trovare posti nuovi, dove la vita sia migliore. Basta con questa fatica continua, con le sofferenze ininterrotte cui siamo soggetti, con la paura con cui dobbiamo convivere ogni giorno. Individuerò sicuramente, prima o poi, un luogo più sereno e adatto, dove saremo al sicuro da violenze gratuite.”

“Questa è la vita, Antonio” – gli rispose il padre – “noi siamo gente pacifica, viviamo di pesca e di quanto ci offre la natura. Abbiamo le nostre vite fatte di tante piccole cose che ci allietano l’esistenza, i rapporti con gli amici, l’amore delle nostre compagne e l’affetto dei figli; ma guadagnarsi il pane comporta duro lavoro dal mattino alla sera e tanti sacrifici, mentre violenze e crudeltà come quelle che si sono verificate ieri l’altro, sono all’ordine del giorno ed è normale che accadano. In un modo o nell’altro le ritroveresti dovunque tu andassi, figlio mio, praticate dai nemici dichiarati o perfino dal cosiddetto ordine costituito, capace, come ben sappiamo, di commettere ogni angheria e sopraffazione, perché nel mondo vige la legge del più forte. Ma qui hai tutti i tuoi legami, con coloro che ti hanno visto nascere e crescere e ti vogliono bene, sbaglieresti ad andartene.”

“Forse, padre; ma la mia decisione è presa, ormai…”

Fine                                Massimo Bianco.