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IL SEGUENTE RACCONTO È AMBIENTATO NEL V SECOLO A. C. TRA GLI ANTICHI LIGURI PREROMANI E VUOLE RAPPRESENTARE QUEI POPOLI IN MANIERA PIÙ VIVIDA DI QUANTO POTREBBE FARE UN SEMPLICE ARTICOLO. LA STORIA È  DI FANTASIA E FORSE FIN TROPPO DENSA D’AVVENTURE E COMBATTIMENTI MA È FRUTTO DI UNA MIA ACCURATA DOCUMENTAZIONE, PER CUI NUMEROSI PARTICOLARI RIFERITI AI LIGURI O AI CARTAGINESI SONO ESATTI. ALTRI PERALTRO VANNO CONSIDERATI MIE LICENZE POETICHE, IN PARTICOLARE LA DESCRIZIONE DELL’IMBARCAZIONE VADESE, PROBABILMENTE NELLA REALTÀ ASSAI PIÙ PICCOLA E SEMPLICE DI QUELLA QUI PRESENTATA. BUONA LETTURA.

RACCONTO 

L’imbarcazione mercantile procedeva attraverso il mar Ligure. Era la più grande e possente dell’indomita tribù ligure dei Sabazi, ma numerose riparazioni improvvisate mostravano i danni recentemente subiti.

Tutti i marinai a bordo erano silenziosi. Si sentivano solamente i tonfi dei remi mentre colpivano la superficie dell’acqua e lo sciabordio delle onde mentre urtavano la fiancata del naviglio.

In piedi sul castello di prora, i lunghi capelli brizzolati svolazzanti al vento e lo sguardo malinconico, il nuovo comandante Doriano, cioè uomo del fiume, osservava mesto i marinai impegnati nella voga. Uomo del fiume, così chiamato perché originario non della costa, come tutti i suoi compagni, ma di un villaggio sito lungo un fiume, una ventina di chilometri nell’entroterra, era un uomo basso e tarchiato, scuro di carnagione come tutti i suoi compagni, muscoloso e forte più della media, dal naso pronunciato e il volto volitivo.

Il mercantile ‘Impresa’ mancava dal patrio porto di Vada Sabatia ormai da oltre due mesi, ma finalmente si apprestava al rientro. Il cielo era terso e limpidissimo e i marinai già riconoscevano i familiari contrafforti della riviera di ponente dalla verde e ondulata linea costiera. Doriano intanto vagava con la mente ai quei tragici momenti che, circa tre settimane prima, lo avevano inopinatamente portato a ereditare il comando. 

Le settimane previste di viaggio erano procedute bene. L’equipaggio, come Doriano ben sapeva, era totalmente affidabile, formato com’era da provetti marinai ben rodati e rotti a ogni esperienza. Carichi delle preziose mercanzie della Liguria, terra avara nella quantità ma generosa nella qualità dei prodotti, erano approdati nei porti etruschi di Populonia e dell’Elba e poi addirittura a Cuma, fiorente Polis della Magna Grecia mai da loro raggiunta prima, intrattenendo sempre lucrosi commerci. Avevano quindi invertito la rotta, proseguendo il viaggio fino al porto punico di Olbia. Infine, prima di dirigersi verso casa, avevano compiuto un’ultima breve sosta ad Alalia, località sulla costa orientale dell’etrusca isola di Corsica, dove avrebbero svolto gli ultimi fruttuosi scambi commerciali.

Alle prime luci dell’alba di un giorno di fine estate, dopo aver ricevuto l’onore, il pomeriggio precedente, di essere ricevuti dal Lucumone locale in persona e aver poi trascorso le ore serali partecipando a una libagione e a un piacevole festino, si lasciarono alle spalle la cittadina della Corsica, ansiosi di rivedere finalmente le proprie famiglie.

Era primo pomeriggio quando avvistarono una veloce e possente quadrireme, d’apparente origine cartaginese, puntare dritto su l’Impresa. La presenza di quel vascello a Doriano non piacque. I pirati cartaginesi erano uno dei maggiori pericoli in cui potevano incappare coloro che navigavano per mestiere e lui conosceva quel genere d’imbarcazione. Con i suoi due timoni a garantirgli una grande manovrabilità e l’alta velocità di punta era decisamente superiore ai semplici navigli liguri. Se quella nave si interessava a loro, non avrebbero mai potuto sfuggirgli. In caso poi di scontro corpo a corpo, per quanto loro si ritenessero indomiti, come avrebbero potuto scampare a una forza tanto preponderante?

A scanso di equivoci il ligure al comando ordinò di accelerare il ritmo, eppure in capo a un’ora furono quasi raggiunti. Non c’erano dubbi, ormai. Si erano attirati l’attenzione di una nave da corsa cartaginese, bene armata e con non meno di 250 uomini di equipaggio.

Il capitano, furioso al pensiero dei tanti guadagni destinati a sfumare, decise di opporre resistenza. Doriano, Uomo del fiume, sapeva di godere il rispetto di tutti i compagni e cercò di far cambiare parere al suo comandante.

“Capitano, i punici saranno in numero più che triplo rispetto a noi e combattono per professione, non abbiamo speranze di sconfiggerli.”

“Non penserai di arrenderti, spero.” – Rispose il capitano, assai irritato dal commento. – “Non hai anche tu una famiglia a casa che ha bisogno dei tuoi guadagni per sopravvivere?”

“Sì, certo, ma se reagiremo moriremo tutti.” Insistette Doriano.

“Forse, ma se non reagiremo perderemo ogni cosa e diventeremo loro schiavi.”

“Io non credo. Guarda capitano, quella quadrireme penetra molto nell’acqua e non viaggia alla massima velocità che gli sarebbe possibile, evidentemente deve essere già piuttosto carica.”

“Uomo del fiume ha ragione, capitano.” – Intervenne il magro, piccolo ma vigoroso Moco Tauriano, fedele amico e coetaneo di Doriano. – “Non potranno permettersi di fare prigionieri, né hanno motivo di compiere un massacro, se ci arrendiamo perderemo buona parte del carico ma avremo salva la vita.”

“No, io ho sudato per guadagnare quanto trasportiamo e non lo cederò a nessuno.”

“Ma capitano, noi non possiamo…”

“Basta così, non accetterò altre parole da vile. Noi ingaggeremo battaglia.”

Così, quando i Punici offrirono la resa, il capitano la sdegnò. Per tutta risposta una salva di frecce piovve sull’imbarcazione. Doriano, umiliato e preoccupato, osservò impotente la nave corsara giungere in contatto. Decine di volti dall’aspetto deciso li fissavano preparando l’abbordaggio. Doriano sospirò. E va bene. Quella gente non si sarebbe di certo fatta scrupoli, ma avrebbe trovato pane per i suoi denti. Se c’era da combattere i Sabazi non erano secondi a nessuno. Si recò quindi sottocoperta, approfittando, come molti suoi compagni, di uno degli ultimi momenti di relativa quiete. Raccolse in fretta una profumata pianta essiccata dalle doti eccitanti, tipica delle sue parti, e prese a masticarla per darsi forza e coraggio. Poco dopo l’imbarcazione mercantile ligure fu presa d’assalto e agganciata dai rostri cartaginesi.

I Liguri combatterono disperatamente per impedire ai nemici di scavalcare le murate. Ne respinsero in mare parecchi, riuscendo anche a ucciderne una decina, ma alla fine non poterono impedire ai pirati di salire a bordo. Oramai sarebbero state le spade a parlare.

Il sangue prese così ben presto a scorrere a fiumi, in un vortice spaventoso di teste e arti mozzati e corpi sventrati. Il secondo di bordo, uomo possente di soli venticinque anni e lottatore indomabile e coraggioso, organizzò una sortita disperata. Raccolse un gruppetto di compagni per poi passare urlando al contrattacco. I marinai Sabazi ai suoi ordini combatterono onorevolmente ma i guerrieri mercenari  professionisti punici erano molto più numerosi, privi di scrupoli e pronti a tutto e li sopraffecero rapidamente. Doriano stesso, dopo avere ucciso uno dei pirati, assistette alla morte del suo superiore, abbattuto da un colpo di mazza. Lo vide cadere in ginocchio, stroncato dalla terribile mazzata, per poi crollare pesantemente in avanti a faccia in giù, esanime. Lui e tutti gli altri Liguri ancora in vita continuarono tuttavia a combattere con decisione.

Un pirata dal fisico asciutto e dai lunghi e sodi muscoli guizzanti assalì Doriano. I due ingaggiarono battaglia, scambiandosi numerosi colpi di spada. Egli si trovò presto a mal partito, stanco e sudato, respirando affannosamente mentre rintuzzava gli assalti del più giovane avversario. Per fortuna Moco Tauriano colse il punico alle spalle togliendoglielo di mezzo, ma lui non si fece illusioni. Era solo questione di tempo, prima di essere tutti sterminati. Benché forse i pirati non si fossero attesi una così fiera resistenza avrebbero inevitabilmente finito per sopraffare i coraggiosi avversari.

Per intanto giunse il turno del nocchiero. Questi, già stordito da un colpo di giavellotto arrivatogli di striscio in testa, era riuscito a sconfiggere l’aggressore solo per essere subito assalito da un altro. Ferito al fegato dal nuovo avversario, il nocchiero, preso dalla disperazione, prima di soccombere si avvinghiò strettamente all’avventuriero e poco dopo cadde in mare insieme a lui, sparendo in mezzo ai flutti. Subito dopo il capitano venne a sua volta ucciso con un colpo di spada alla gola, da un guerriero con un’elegante e prezioso mantello sopra la ricca corazza, di certo uno degli aristocratici armatori della nave corsara.

Doriano intanto era di nuovo nei guai, dovendo vedersela con ben quattro nemici. Si guardò intorno. Moco e gli altri combattevano più distanti e stavolta non gli avrebbero dato man forte. Pur affrontando la lotta con ardore presto la sua situazione si fece difficile, impossibilitato com’era a combattere efficacemente contro tanti avversari e costretto in una zona che non permetteva sufficiente mobilità.

I corsari mulinavano le spade spingendolo in un angolo e si apprestavano ormai a intrappolarlo quando l’Impresa perse a beccheggiare con violenza. Una provvidenziale ondata, enorme quanto inaspettata, spazzò tutto il ponte facendo perdere l’equilibrio a due dei rivali e arrestando gli altri. Doriano ne approfittò allora per spostarsi in una posizione più sicura.

Cosa accadeva? Tutti in precedenza avevano notato le nubi profilarsi all’orizzonte, ma il cielo si era rannuvolato più rapidamente del previsto, senza che né Liguri né Cartaginesi, impegnati com’erano nella pugna, vi prestassero attenzione. Adesso il capitano cartaginese, compreso il pericolo, ordinò seccamente di prendere con sé il bottino conquistato fino a quel momento e di ritornare velocemente a bordo della loro nave, lasciando stare il resto del carico. Doriano allora ne approfittò, insieme a un gruppetto di compagni, per farsi strada fino al timone, assumerne il controllo e manovrare per sganciarsi, mentre altri compagni attaccavano i nemici, tenendoglieli lontano, creando confusione e attardandoli. Grazie a questa sortita, nell’istante stesso in cui i rostri si staccarono dalla fiancata, l’Impresa diede un violento strattone, spezzando l’ultimo legame rimasto con la quadrireme e spargendo il panico tra i punici. Il capo dei pirati, resosi all’improvviso conto che le due imbarcazioni stavano già per separarsi, mollò tutto e, con un salto rischioso, si riportò sul proprio vascello. Altri riuscirono a seguirlo, ma in nove rimasero intrappolati a bordo e dovettero ingaggiare combattimento, nel disperato e istintivo tentativo di sfuggire alla morte. Mentre l’Impresa si allontanava, costoro furono sconfitti uno alla volta e passati a fil di spada, tranne due che, gettatisi nel mare in burrasca, avevano però poche possibilità di scamparla. Intanto la nave da corsa preferiva rinunciare a ingaggiare un nuovo inseguimento per cercare di mettersi in salvo dall’imminente fortunale.

I Sabazi tutto sommato erano stati fortunati. Avevano perso meno di metà del carico e non più di sedici marinai compreso il capitano. Adesso c’era però un nuovo grave pericolo a occupare completamente le menti dell’equipaggio. Si stava, infatti, scatenando la tempesta. L’uragano non sembrava molto violento ma i mercantili liguri, se già in condizioni normali erano poco più che gusci d’uovo, quando erano danneggiati come accadeva con l’Impresa non potevano di certo affrontare una tempesta. Per giunta l’equipaggio, colto di sorpresa, non aveva più tempo né per cercare un riparo, né per organizzare misure di emergenza.

Il fronte del fortunale piombò loro addosso in pochi minuti. Il mare diventò davvero burrascoso, con onde più alte delle murate e la pioggia che cominciava a cadere torrenziale. Il cielo si era tanto oscurato da rendere difficile scorgere la prua da poppa, mentre il vento ululava così forte da impedire che si udissero gli ordini e l’unica maniera per scambiarsi informazioni era urlarsele nelle orecchie.

I coraggiosi Liguri combatterono bagnati fradici per due lunghe ore contro le forze della natura, mentre enormi ondate sballottavano la misera imbarcazione e spazzavano continuamente il ponte. Costoro impavidamente non s’arresero, benché fossero stanchi e disperati, con le vele a pezzi, l’albero e le fiancate gravemente danneggiati. Cinque marinai erano caduti in mare, assottigliando ulteriormente il già sparuto equipaggio. Degli infidi scogli si misero infine di mezzo e loro finirono per naufragare sull’estrema punta della costa nord orientale della Corsica.

Avrebbe potuto essere il disastro finale ma, grazie alla grande capacità e all’esperienza che rendevano i Liguri tra i più provetti uomini di mare, e grazie invero anche a una buona dose di fortuna, riuscirono a salvare le proprie vite e lo stesso mercantile. Buona parte delle ceramiche greche o etrusche trasportate, poche per fortuna, e alcune delle anfore si erano rotte, ma il grosso del carico era salvo. Durante le ore dello scontro navale e della successiva tempesta avevano però perduto quasi un terzo dei componenti dell’equipaggio, tra cui il capitano e il suo secondo. Per decisione quasi unanime seguita a una lunga discussione, a ereditare il comando fu Doriano, uomo gioviale e benvoluto da tutti ma anche esperto, combattivo e assai capace.  

Erano occorse più di due settimane di intenso lavoro per rimettere l’imbarcazione in grado di affrontare il mare, anche se non al pieno dell’efficienza, ma finalmente il viaggio volgeva al termine senza ulteriori inconvenienti. I marinai iniziavano a sentire l’aria di casa e i primi timidi sorrisi apparivano sui duri volti barbuti e cotti dal sole.

Cominciò a farsi sentire una brezza secca, fresca e intensa, al cui primo sentore parecchi uomini s’illuminarono in viso, quasi beandosi del vento che gli agitava le vesti e scompigliava i capelli. Il luogo dove vivevano era ventoso e quella brezza per loro significava casa.

Costeggiando la costa riconobbero presto le ancora distanti case dei con-tribali della vicina Savo, abbarbicate sul colle del Priamar, mentre più in lontananza si stagliava, sempre meglio visibile, l’amichevole e familiare contorno dell’isolotto che da sempre gli dava, con la sua benigna presenza, il benvenuto a casa. Le loro fatiche sembravano davvero giunte al termine.

L’eccitazione divenne palpabile e il silenzio, che aveva gravato su tutti come una scura cappa, venne definitivamente rotto e sostituito da un vivace chiacchiericcio, che il nuovo capitano ascoltò con piacere dopo giorni tanto lugubri. Ai piedi delle amate alture patrie si poterono infine distinguere le singole abitazioni di Vada Sabazia e, sulla collina immediatamente soprastante, quelle di Bergeggi, i due loro villaggi natii. Si trattava per lo più di casette lignee unifamiliari, le prime delle quali poste tutt’intorno a una rada naturale. Esse, dapprima minuscole, si fecero sempre più grandi intanto che i marinai si avvicinavano all’approdo. All’interno del porticciolo si profilavano inoltre numerosi navigli simili all’Impresa e di varie dimensioni.

Doriano prese ad osservare con attenzione il villaggio, vagamente perplesso.

“È strano, c’è poco movimento dinanzi alla banchina, eppure è appena passato il mezzodì e dovrebbe esservi piena attività.”

Il nuovo secondo Moco Tauriano interruppe le sue meditazioni, richiamandone l’attenzione in direzione della collina piena di ginestre in fiore immediatamente a metà strada tra Vada e Bergeggi.

“Capitano, guarda quei movimenti dietro al Colle Dorato, credo stia accadendo qualcosa.”

Era vero, osservando in quella direzione lui notò subito la confusione eccessiva.

“Plauco, fai accelerare il ritmo al massimo sostenibile, dobbiamo raggiungere subito l’approdo.”

Il capovoga obbedì immediatamente e le colline di fronte presero ad avvicinarsi più in fretta, rendendo presto chiara la cruenta battaglia in atto.

“Presto, fate più presto.” – prese a gridare Doriano. - “Mettetecela tutta ragazzi, laggiù hanno bisogno di noi. Plauco, aumenta il ritmo, sarà uno sforzo di breve durata.”

La nave procedette verso riva a ritmo accelerato sotto gli ordini dell’esperto Plauco, capovoga ormai da innumerevoli anni.

“Sembra proprio che gli dei non ci siano favorevoli. Credevo fosse tutto finito e invece il peggio doveva ancora arrivare. Le nostre case, le nostre stesse famiglie sono in pericolo.” Esclamò Moco, assai abbattuto.

“Pur deboli e stanchi non ci sarà il riposo e l’attesa accoglienza per noi”. Aggiunse lo smilzo, nuovo nocchiero.

“Basta con i piagnistei, ragazzi. Avanti, preparatevi ad accostare, sento che qualsiasi cosa stia accadendo arriveremo in tempo.” Urlò Doriano in risposta.

Dieci minuti dopo entrarono in porto e si affrettarono a scendere a terra, mentre un’altra delle loro imbarcazioni si avvicinava frettolosamente. Posati i piedi sulla terraferma Doriano scorse un gruppetto di vecchi immobili nei paraggi e si avviò alla loro volta, gridando una richiesta di informazioni. I due più vicini tra costoro si volsero a guardarlo e uno, spento e incurvato, rispose:

“I Celti, un attacco dei Celti. I nostri stanno cercando di respingerli.”

“Ma è inaudito, mai i Celti sono giunti nelle loro scorrerie fin qua sulla costa, mai si sono dati a violenze insensate, siamo sempre andati d’accordo con quelle genti.” Rispose lui.

“E’ vero,” – intervenne l’altro vecchio, più alto di statura e dall’aspetto ancora energico – “ma ho sentito che nelle scorse lune hanno compiuto irruzioni in grande stile. Per affrontarli ci sono venuti in aiuto non solo i nostri vicini di Savo e di Alba dei Docili ma addirittura contingenti di quegli odiosi degli ingauni e dei nostri nemici genuensi, in modo da assestargli una batosta tale per cui si convincano a non tornare mai più.”

Con gli occhi illuminati da un cupo bagliore, Doriano decise di prendere in mano la situazione. Si volse dunque a osservare i volti eccitati dei compagni e dei componenti dell’altro mercantile appena approdato.

“Va bene ragazzi, avete sentito.” – Esclamò deciso. – “Dobbiamo aiutare i nostri compagni. Non perdiamo altro tempo, forza, mettiamoci in marcia.”

“Capitano, guarda laggiù sta arrivando altra gente.” Avvisò Moco.

“Sono altre truppe di Alba Ingauna, riconosco il loro abbigliamento. Non impiegheranno ancora molto ad arrivare. Dobbiamo sbrigarci.” Disse Plauco.

“Giusto. Muoviamoci compagni o ci perderemo il meglio.” Concluse Doriano.

I marinai vadesi si sparpagliarono in fretta e furia per le loro case per procurarsi gli scudi, gli elmi e le corazze che durante i viaggi per mare lasciavano a casa, mentre il gruppo di Bergeggi, impossibilitato dalla maggior distanza a fare altrettanto, li attendeva con le sole armi, soprattutto lance ma per chi le possedeva anche spade. Doriano giunse a sua volta a casa, dove prima di vestirsi si attardò in compagnia di moglie e figli. La donna era splendida come la ricordava, coi lunghi capelli scuri sciolti sulla schiena, i profondi occhi verdi, assai rari tra le donne del suo popolo, grandi come il mare, il dolce sorriso un poco storto. Si abbracciarono con affetto, teneramente. Non potevano però dilungarsi, mancava il tempo e i suoi compagni già incalzavano, ansiosi ed eccitati. Doriano salutò veloce uno per uno i più piccoli dei suoi cinque figli, due maschietti di dieci e otto anni e due femminucce di dodici e sette. Il figlio maggiore invece, un robusto quindicenne, mancava, perché era andato a combattere con il resto della tribù. Diede un rapido arrivederci alla moglie, che avrebbe peraltro seguito volentieri il compagno se non avesse prevalso il dovere di difendere la casa e i bambini, e si lasciò il focolare domestico dietro le spalle. Uscirono dal paese nello stesso momento in cui gli ingauni vi entravano. Senza preoccuparsi di attendere i nuovo arrivati il gruppo si avviò lungo un sentiero appena accennato che attraversava un bosco misto. Tutt’intorno c’erano carpini neri e querce di roverella, poco numerosi ormai gli uni e gli altri per i disboscamenti compiuto dai sabazi a scopo edilizio, e oleandri e allori di contro in piena espansione.

Era lo stesso Doriano a marciare in testa, facendosi largo nel fitto sottobosco. Lui era un uomo fondamentalmente pacifico, ma c’è un tempo per l’amore e uno per l’odio e quello era tempo per odiare. Venti minuti dopo i marinai raggiunsero una fattoria parzialmente incendiata. Attraversandone il cortile riconobbero i cadaveri appartenuti alla famiglia che ne era stata proprietaria. Uomini, donne e anche tre bambini. Nessuno era sfuggito alla violenza degli assalitori. I suoi compagni si fermarono inorriditi, ma Doriano li richiamò all’ordine:

“Non fermiamoci, miei valorosi ragazzi. Per loro ormai non c’è più nulla da fare, ma possiamo ancora farla pagare a qualcuno.”

Urla di rabbia si alzarono in risposta e Moco Tauriano rispose per tutti.

“Non ti preoccupare capitano, già senza vedere questo orrore, tutti desideravamo rifarci della sconfitta patita con i punici e di vendicarci con qualcuno, ma ora i nostri propositi sono rafforzati e giuro che nessuno di quei cani uscirà vivo dalle mie grinfie.”

Ripresero la marcia e meno di un quarto d’ora dopo giunsero in prossimità dei combattimenti. I Galli, come li avrebbero successivamente chiamati i Romani, alti, pallidi e dalle lunghe barbe e capigliature bionde, si distinguevano molto bene dai Liguri, più bassi, asciutti e scuri di pelle e di capelli. Lo scontro, confuso e disordinato, aveva passato il momento cruciale. I possenti Galli, dopo una fase iniziale a loro positiva, si erano trovati presto a mal partito. Di solito i Liguri erano selvaggi e poco organizzati all’incirca quanto i loro avversari, ma erano combattenti tenaci e indomiti, sempre in grado di vincere un duello uno contro uno nonostante la minor stazza. Inoltre, spinti dall’immane pericolo, stavolta erano riusciti ad affrontare gli scorridori mantenendo un certo ordine e ubbidendo a un valido comandante savonese dotato di discreto acume tattico. Al momento dell’entrata in scena dei due equipaggi, i Celti, chiaramente in difficoltà, stavano lentamente ripiegando, ben decisi a salvare l’onore infliggendo ancora numerose perdite ai nemici. Quando però videro sopraggiungere i due nuovi contingenti, quello sabazio e poco più indietro quello ingauno, la ritirata si trasformò all’improvviso in una rotta disordinata e rovinosa.

Risalendo un costone Doriano e i suoi notarono alcuni di questi nordici dalla pelle chiara in fuga non lungi dalla loro posizione, inseguiti dal grosso dei combattenti liguri, guidati dall’abile e ancor giovane stratega residente a Savo, che procedeva in testa alle truppe, e da un gruppetto di altri combattenti stanziati anche loro sul Priamar. Assetati com’erano di sangue, i marinai si lanciarono a loro volta, puntando a tagliar la strada ai biondi nemici e conservando al contempo un minimo margine di vantaggio sul contingente ingauno.

Il gruppo attraversò il più rapidamente possibile un fitto lecceto e finalmente riuscì a intercettare una cinquantina di celti all’interno di una radura, dando inizio alla pugna, mentre gli ingauni puntavano su altri fuggiaschi e il grosso dell’esercito ligure si avvicinava a sua volta.

Il neocapitano dell’Impresa brandì la sua solida e affilata spada di ferro, ben fabbricatagli da un capace metallurgo etrusco. Afferrato quindi un omaccione per la bionda e fluente chioma, lo attrasse a sé e gli affondò con forza la spada nel fianco destro. Abbattuto l’avversario e ormai accecato da una furia incontrollabile, si lanciò con decisione all’inseguimento di un altro nemico. Questi, vistosi perduto, coraggiosamente si girò di scatto, brandendo l’arma e cercando di colpire il ligure prima che potesse ricevere manforte. Doriano scansò il colpo e fece a sua volta un affondo. Essendosi poi aspettato che il guerriero celta scartasse di lato, fece a sua volta una finta e, indovinata la giusta direzione, con un gran fendente colpì all’altezza del fegato, abbattendolo. Vicino a lui due suoi marinai prendevano intanto in mezzo un’altro dei nemici e lo uccidevano con ferocia, infierendo poi sul suo corpo caduto.

Il capogruppo celtico fu uno dei primi a cadere, trafitto dalla lancia appartenente al nocchiero del secondo mercantile. Gli altri nordici vennero a loro volta rapidamente sconfitti e uccisi. Uno di costoro riuscì però ad aggredire Doriano alle spalle. Il capitano dell’Impresa, accortosi della sua presenza, si voltò di scatto ed evitò di essere raggiunto in un punto vitale, ma senza poter evitare l’affondo del nemico. La lama celtica lo ferì a un’anca. Fuori di sé dalla rabbia e con l’adrenalina che cancellava il dolore, si avventò a sua volta, approfittando di un momento in cui il guerriero biondo, mancato un secondo colpo risolutivo, era rimasto sbilanciato. L’uomo del fiume gli affondò con tutta la sua forza la spada fino all’elsa, uccidendolo all’istante. Quindi, ritirata l’arma e ripulitala dal copioso sangue nemico, si guardò intorno. Nello stesso istante non lungi da lui il piccolo ma indomabile Moco Tauriano stava abbattendo un colosso pesante almeno il doppio di lui. Subito dopo aver compiuto l’impresa Moco si accorse di essere osservato dall’amico e lo salutò sorridendo e agitando la spada sopra la testa in segno di vittoria.

Gli ultimi duelli in corso terminarono nel giro di un minuto con la completa affermazione dei sabazi. I corpi di tutti i celti erano sparsi tutt’intorno, mentre meno di dieci di Sabazi erano rimasti uccisa. Con un grido di trionfo Doriano chiamò l’equipaggio attorno a sé e tutti insieme, con feroce e selvaggia determinazione e bellicosa soddisfazione, provvidero ad infliggere i colpi di grazia ai nemici ancora vivi. Erano sporchi di sangue raggrumato, infangati e affaticati ma soddisfatti.

Infine, preoccupati ormai per le sorti di amici e familiari e spinti da una crescente agitazione, si avviarono in fretta verso i due villaggi.

Due ore dopo erano tutti tra le case di Vada Sabazia e di Bergeggi, a raccontarsi i rispettivi avvenimenti e a contare i morti, consolandosi con il vino di produzione locale e con fiumi di birra che, curioso caso del destino, avevano importato tempo addietro proprio dalle popolazioni celtiche appena sconfitte.

Alla fine lo spaventoso massacro apparve chiaro agli occhi di tutti: dei circa 8000 uomini di cui era composta la tribù gallica, almeno 6000 erano rimasti sul campo. Dei superstiti una buona metà, fatti prigionieri, erano stati passati per le armi senza pietà. Fu però un triste giorno di lutto anche per i rivieraschi, poiché quasi 900 valorosi erano caduti tra cui numerosi concittadini dell’equipaggio dell’Impresa. Quasi ogni famiglia pianse almeno un caro defunto.

C’erano troppi cadaveri per procedere al tradizionale seppellimento nelle caverne. Seguendo dunque un uso più recente i defunti furono cremati su una pira, tra cui anche il più giovane dei fratelli di Doriano.

Durante il funerale Doriano prese appieno coscienza della tragedia. Esauritasi l’adrenalina prodotta dalla battaglia, sofferente nel fisico e nel cuore, pianse a calde lacrime di rabbia e di dolore come non gli accadeva da quando era bambino. Si trovò ricolmo d’odio per la prima volta in vita sua verso questi nemici che, come si seppe in seguito, erano stati parte di un più grosso contingente, sconfitto e scompaginato nell’entroterra grazie a una coraggiosa operazione militare. Costoro, stanziatisi negli anni precedenti all’incirca tra le valli d’Aosta, Stura, Dell’Orco e Sesia, erano spinti dalla sovrappopolazione a espandersi più a sud, a scapito dei Liguri. Gli ottomila guerrieri sfuggiti alla prima battaglia si erano sempre più incuneati in territorio ligure, depredando chiunque incontrassero, finché non erano stati a loro volta intercettati e decimati.

Doriano meditò amaramente, mentre il dolore all’anca iniziava a farsi sentire con intensità sempre maggiore, sui recenti avvenimenti. La sua era una popolazione combattiva, a un tempo pacifica e bellicosa. Pacifica perché non aggressiva e dedita alle arti marinare, alle attività boscaiole e alla coltivazione delle inadatte colline liguri, bellicosa perché litigiosa e sempre pronta a menare le mani e a combattere con tenacia, rispondendo per le rime se minacciata.

Lui non amava combattere come altri suoi compaesani, ma accettava di farlo senza esitazione ogni qual volta si rendeva necessario, soffrendo in cuor suo di vedere morire prematuramente non solo gli amici e i familiari ma persino i suoi stessi nemici. Eppure, pur sentendosi scioccato dalla brutale bestialità della guerra, nel pieno della mischia si eccitava. Uccidendo egli godeva fin quasi all’orgasmo, dimentico di tutto. Non comprendeva questa propria dicotomia e se ne vergognava, evitando peraltro di riferire i propri sentimenti, conscio che di fronte alle sue perplessità i compagni lo avrebbero preso per pazzo o, peggio ancora, per vigliacco. E intanto rimpiangeva la mitica età dell’oro di cui aveva sentito parlare, in cui tutte le genti vivevano in armonia.

Nelle settimane successive gli abitanti di Vada Sabazia e di Bergeggi, terminato il periodo di lutto, ripresero la loro quotidiana lotta per la sopravvivenza, in quella terra bella ma avara, con gioie e dolori come sempre è accaduto e sempre accadrà da quando la vita è apparsa sulla Terra.

E tra loro lo stesso Doriano, sopravissuto alla ferita, che per fortuna non si era infettata. Egli, benché divenuto leggermente zoppo a causa di una non perfetta guarigione in un epoca di cure approssimative, avrebbe saputo provvedere ancora per anni a guadagnare il pane per sé e per la sua famiglia. 

Fine 28/4/07 Massimo Bianco.