Ma fino a quando le nazioni esportatrici saranno disposte ad accettare dollari contro beni concreti?
Alchimie bancarie
(Come creare denaro dal nulla senza violare le leggi)
Prima parte

Marco G. Pellifroni

 Dalla conferenza tenuta a Finale nell'ambito del programma del sodalizio culturale "Domenica Est", che svolge opera di diffusione di tematiche di carattere filosofico, scientifico, religioso e politico (e, in questo caso, economico) con il contributo di relatori provenienti da varie parti d'Italia, oltrechè dei soci fondatori (tra cui io stesso) e di simpatizzanti locali. Il sodalizio è diretto dal prof. Giorgio Girard, Ordinario di Psicologia della Personalità all'Univ. di Torino ed è attiva dal1999.

Dal Gran Khan alla Bank of England (BoE)

Come introduzione vi leggerò un breve capitolo de “Il Milione” di Marco Polo, scritto sul finire del Duecento e rivelatosi col passare dei secoli documento di assoluta aderenza alla verità storica, geografica e culturale di un Estremo Oriente visto con gli occhi di un occidentale eletto a consigliere personale dell’imperatore cinese, il Gran Khan Qubilai. Ecco, in forma compendiata, il capitolo 75, intitolato “La zecca del Gran Khan”:

< Dal modo come funziona la sua zecca, si può dire che il Gran Khan ha scoperto il segreto dell’alchimia. Ecco infatti come batte moneta: dalla corteccia dei gelsi si ricava una buccia sottile, con cui si fanno dei biglietti di carta nera di tagli e valori diversi, ma tutti contrassegnati dal sigillo del Gran Khan, che li usa per qualsiasi pagamento, facendoli circolare per tutto l’impero. Appositi bandi impongono a chiunque possegga oro, argento o preziosi di consegnarli alla banca imperiale, che li ripaga con queste banconote. Nessuno osa rifiutarle, pena la morte. Con questo sistema, il Gran Khan riesce ad avere più oro e argento di qualunque altro sovrano al mondo; e in verità non v’è nessuno al mondo più ricco di lui. >

La lezione del Gran Khan non era stata impartita ad orecchie sorde: e infatti, la classe degli orafi l’avrebbe praticata, ovviamente non in maniera così plateale, nei secoli successivi; così come avrebbe costituito il segreto della ricchezza dei banchieri genovesi, fiorentini e veneziani, che potevano permettersi di fare prestiti ai regnanti europei, specie per finanziare le loro ripetute campagne militari. Le guerre, infatti, sono una fonte preziosa di guadagni per i prestasoldi, in quanto le nazioni sono disposte a qualsiasi sacrificio economico pur di vincere.

Ma torniamo, per maggiori dettagli, sul meccanismo di moltiplicazione del prestito instaurato dagli orafi del tardo medioevo. Molte persone portavano loro in custodia i propri beni, perlopiù metalli preziosi, ritenendoli più al sicuro nei loro forzieri che non sotto il pavimento di casa. Col tempo, gli orafi si resero conto che soltanto una modesta frazione di quanto loro affidato veniva in seguito prelevato, e i depositi a custodia superavano di gran lunga i prelievi. Si accorsero anche che le ricevute dei depositi venivano spesso usate dai depositanti come garanzia di solvibilità nei loro acquisti. In pratica, queste note cartacee erano divenute un maneggevole sostituto di quanto in giacenza presso gli orafi; e per giunta, un pegno credibile e accettato da tutti. Gli orafi finirono con l’approfittare di questa fiducia generale nella loro serietà ed onestà, concedendo prestiti, ossia note cartacee, avallate dalla disponibilità dei preziosi in giacenza, ovviamente non di loro proprietà. L’importante era dimostrare di avere sempre la disponibilità dei beni, in caso di richiesta  di riscatto. Il gioco avrebbe potuto venir smascherato soltanto nell’infausta eventualità di una richiesta plurima di riscatti. Il genere di eventi che potevano portare a questo esito poteva configurarsi in una calamità naturale, in una guerra o, disgrazia somma, in un diffondersi di voci sull’inconsistenza patrimoniale del prestatore. Casi di questo genere si verificarono effettivamente nei secoli, con la rovina di parecchie fortune; ma, si sa, la memoria umana è corta, e nel giro di due generazioni al massimo, o anche assai meno, si ricreano le condizioni per ricominciare il gioco.

Si arrivò così, nel 1694, alla più grossa e “scientifica” operazione bancaria sino allora tentata, con l’istituzione della Banca d’Inghilterra (BoE). Già il nome la dice lunga sulle repliche negli anni e secoli che seguirono, sino ai giorni nostri: bisognava infatti che il nome stesso della banca suggerisse un immediato collegamento con la nazione in cui sorgeva, conferendole così un prestigio “statale”, come fosse un istituto rappresentante l’interesse collettivo. In realtà, nessuna banca è mai stata di proprietà di uno Stato, tutte essendo rigidamente nelle mani di privati banchieri. Perciò tutte le banche oggi operanti nel mondo, ad eccezione forse di alcune esistenti in residui Paesi dell’ex-blocco comunista, conservano i tre principi basilari che guidarono l’ispirazione dei loro “padri fondatori”: 1) essere di proprietà privata (pur ammantandosi di aggettivi “nazionali”); 2) battere moneta in proprio; 3) concedere prestiti, dapprima garantiti da lingotti d’oro e d’argento, poi da depositi altrui (ossia non dal proprio capitale sociale) e poi via via non garantiti più da alcunché, trasformando la moneta da metallica in cartacea, indi scritturale e infine elettronica.

 

I Padri Fondatori degli USA contro le banche private

Ma non corriamo troppo e torniamo agli sviluppi del sistema bancario dopo la pietra miliare della fondazione della Bank of England, sbarcando sulle coste del Nuovo Mondo dove, nel XVIII secolo, stava nascendo, pur tra mille ostacoli, il primo nucleo dei futuri Stati Uniti. Naturalmente, non ne farò qui la storia, limitandomi a considerare alcuni dei presidenti che, intravvedendo lucidamente nelle banche il futuro giogo del loro popolo, si sforzarono di limitarne i danni.

Prima di loro furono le colonie inglesi a ribellarsi al vassallaggio verso la BoE e ad emettere moneta in proprio, senza pagare interessi a nessuna banca. L’accettazione reciproca di questo denaro da parte delle varie colonie portò ad una vera fioritura economica delle stesse, con la benedizione di Benjamin Franklin; il quale però incautamente riferì alla BoE, durante il suo lungo soggiorno inglese, il motivo di tanta prosperità. Non l’avesse mai detto. Il governo inglese varò in tutta fretta una legge, il Currency Act del 1765, che proibiva alle colonie di stampare moneta propria, costringendole ad effettuare ogni transazione e di pagare le tasse con oro e argento, con pignoramento dei beni dei recalcitranti, corrispondendo un decimo del loro valore. Sentiamo cosa ebbe a scrivere Franklin nella sua autobiografia: “Nel giro di un anno la situazione si era rovesciata al punto che l’era di prosperità era terminata, lasciando il posto alla depressione, talché le strade delle colonie traboccavano di disoccupati.” Se fino allora la moneta coloniale veniva stampata nella giusta quantità per agevolare il commercio, in pochi anni George Washington doveva fare l’amara constatazione che nel 1775 “un vagone carico di denaro riuscirà a malapena ad acquistare un vagone carico di merci.” Insomma, un’inflazione indotta dalla BoE, che per deprezzare la moneta coloniale l’aveva contraffatta in grandi quantità, spedendola oltremare in balle! Furono queste azioni criminose della BoE che innescarono la ribellione delle colonie e la successiva Guerra d’Indipendenza.

La lezione comunque era servita, se ai primi dell’800 Thomas Jefferson, terzo presidente dei giovani Stati Uniti, come pure il suo successore, James Madison, primo ispiratore della Costituzione repubblicana, fecero ogni sforzo, con risultati purtroppo effimeri, per impedire che l’emissione di moneta diventasse appannaggio di banche private, anziché dello Stato, preconizzando che, in caso contrario, i “nostri figli si sveglieranno senza più casa sul continente che i loro padri hanno conquistato”. Mezzo secolo dopo era la volta di Abramo Lincoln, che ammoniva a far sì che la creazione di moneta fosse prerogativa suprema dello Stato, risparmiando ai cittadini immense somme di interessi, affinchè il denaro cessasse di essere padrone e divenisse servo dell’umanità. Egli passò dalle parole ai fatti, sull’esempio delle colonie del passato, stampando i greenbacks, antesignani degli odierni dollari, per le ingenti necessità della Guerra di Secessione, subito incontrando l’ostilità dei banchieri. Poco dopo questo suo gesto, Lincoln fu assassinato, i greenbacks furono subito ritirati e il potere tornò nelle mani dei banchieri privati, che ripresero a far eleggere uomini politici proni ai loro interessi e a far stampare il denaro dalle loro banche.

 

Ogni banca centrale nasce privata

Anche in Italia, dopo l’unità, il governo promulgò nel 1874 una legge per frenare la libera emissione di carta moneta da parte delle sei banche autorizzate a farlo, sancendo anche l’obbligo da parte loro di variare il tasso di sconto solo dietro autorizzazione statale. Ciò non impedì una graduale sfiducia in queste note bancarie, talchè la Banca Romana, presa d’assalto dai suoi depositanti, saltò. Questo fallimento spinse il governo a varare nel 1893 un’unica banca centrale: la Banca d’Italia. Che proprio d’Italia non era (e non è), in quanto era privata come tutte le altre operanti (oggi come allora) sul suo territorio.

Questo ambiguo criterio di ammantare ogni banca centrale privata della bandiera nazionale non fu limitato all’Italia, e su ambo le sponde dell’Atlantico leggi ad hoc sancirono, quasi fosse un atto dovuto, che esse fossero abilitate a stampare moneta, concedendo (!) agli Stati la sola coniazione delle monete metalliche: insomma o gli spiccioli in metalli di scarso valore intrinseco, o le monete in oro e argento, che avevano valore prossimo a quello reale, tranne che per un importo in sovrappiù, il cosiddetto signoraggio. Inutile dire che le banconote cartacee, stampate dalle banche centrali, avevano un valore intrinseco pressochè nullo, e il valore di facciata era praticamente tutto signoraggio. Davvero un ottimo affare per le banche e per i loro padroni!

Poco dopo l’istituzione della Banca d’Italia, Karl Marx fu tra i primi ad accorgersi dell’enormità del raggiro, come ebbe a denunciare sul Capitale (1885): “Fin dalla nascita le grandi banche, agghindate di denominazioni nazionali, non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipare loro denaro. (…) La Banca d’Inghilterra (BoE) cominciò a prestare denaro al governo all’8%. Al tempo stesso era autorizzata dal Parlamento a battere moneta con lo stesso capitale, prestandola un’altra volta al pubblico in forma di banconote. In poco tempo questa moneta fabbricata dalla BoE divenne la moneta con cui la stessa faceva prestiti allo Stato. (…) Non bastava però che la BoE desse con una mano per vedersi restituito di più con l’altra, ma proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice perpetua della nazione”: si era così creato quello che, visto dalla parte dei cittadini, si chiamava, e si chiama, debito pubblico. Un debito ogni anno crescente, di fatto inestinguibile per il gravame annuo di interessi di cui lo stesso ente creditore, ossia il sistema bancario, decide l’entità.

Per smascherare una simile iniquità, giocata sull’ambiguo significato delle parole, sarebbe bastata una classe politica competente e coraggiosa; ma come sarebbe stato possibile, se “i politici sono i camerieri dei banchieri”, come avrebbe detto un secolo dopo il grande poeta americano Ezra Pound? Il potere conferito ai banchieri dalla proprietà della moneta, che si spacciava per pubblica, conferiva loro la facoltà di influire sulla legislazione, che pur dovrebbe essere competenza esclusiva dei Parlamenti, arrivando infine, come vedremo più oltre, a far varare leggi che ponessero le banche centrali al riparo da ogni interferenza, non solo dei Governi, ma addirittura degli organi giudiziari, divenendo di fatto una casta intoccabile, super leges.

Dopo la BoE e la Banca d’Italia, fu la volta degli Stati Uniti di costituire una banca centrale, anch’essa privata, e manovrata dai grandi banchieri di sempre. Nacque così, nel 1913, la Federal Reserve (Fed), alla quale fu affidato il compito di stampare banconote e prestarle allo Stato, che le avrebbe ripagate con l’emissione di Titoli pubblici, addossando gli interessi ai cittadini tramite la riscossione delle tasse. Ciò avvenne, nonostante un secolo e più di alterne vicende, che vide alternarsi Presidenti USA che avevano a cuore l’interesse dei cittadini ad altri assai più sensibili agli interessi delle banche. Alla fine, come di consueto, prevalsero questi ultimi e, alla vigilia della Grande Guerra, la neonata Fed usurpò quello che dovrebbe essere il diritto di ogni Stato di creare moneta e incamerare il signoraggio. Come già accennato, le guerre sono una grande opportunità per i banchieri, perché non c’è come uno Stato in guerra ad avere fame di soldi e a non lesinare troppo sulle condizioni del prestito. Tant’è che è sempre stata tradizione dei banchieri concedere prestiti ai due fronti contendenti, con l’intesa che il vincitore avrebbe sanato anche i debiti del perdente (al quale sarebbero stati concessi in misura minore), mentre altrettanto lucrosi sarebbero stati i prestiti per le riparazioni dei danni di guerra.

La Germania dei primi anni Venti, uscita sconfitta dalla Grande Guerra, vide la propria valuta sgretolarsi giorno per giorno, portando all’affermazione di un regime “forte”, quello nazista; tanto forte che riuscì ad opporsi allo strapotere dei banchieri, che identificò nella razza ebrea, riuscendo ad affrancarsene. Ciò portò rapidamente la Germania di Hitler ad uno stato di salute economica impensabile solo pochi anni prima, conferendo all’autore di tale miracolo lo status di salvatore della patria e la sua divinizzazione da parte della maggioranza del popolo tedesco. Come dargli torto, dopo un risollevamento così poderoso e accelerato dalle ceneri della recente sconfitta: un risollevamento che fu solo sfiorato dalla grande depressione seguita al crollo economico generale del 1929? Questa fiducia si rivelò tuttavia così incondizionata che il delirio di onnipotenza della classe dirigente nazista superò ogni limite e portò ad un impiego massiccio della nuova ricchezza in un riarmo accelerato, che voleva rappresentare la rivincita dopo la bruciante umiliazione subita nel 1918. La Seconda Guerra Mondiale determinò la fine del sogno hitleriano e una nuova distruzione, di portata assai più vasta, del patrimonio nazionale. Determinò anche il ritorno sulla scena mondiale, senza più zone franche, delle grandi banche, il cui obiettivo finale sarebbe stato, anche attraverso la capillare diffusione dei loro bracci commerciali -le multi-nazionali- la creazione di una rete mondiale di liberi interscambi sia commerciali che valutari. Ed Ezra Pound, che aveva appoggiato i regimi fascisti proprio per la resistenza che avevano saputo opporre al giogo dei grandi banchieri internazionali, avrebbe pagato a caro prezzo queste sue simpatie. Americano di origine, fu accusato di tradimento e, dopo la sua cattura a Pisa da parte delle truppe americane nel 1945, fu esposto al pubblico ludibrio in una gabbia di ferro, all’addiaccio giorno e notte, e poi internato in manicomio per sei anni.

 

Dal Gold Standard al fiat money

Ma facciamo un passo indietro, e precisamente nel 1944; anno in cui a Bretton Woods, nel New Hampshire, le nazioni prossime alla vittoria, ovviamente sotto l’attenta vigilanza dei banchieri che avevano loro forniti ingenti prestiti bellici, si riunirono per una riorganizzazione del sistema monetario internazionale. Si decise così che la valuta mondiale di riferimento sarebbe stato il dollaro, cui tutte le altre sarebbero state legate da cambi con oscillazioni minime; mentre il valore ufficiale dell’oro veniva fissato a $35 l’oncia. Al tempo stesso venivano istituite due organizzazioni sovrannazionali: il Fondo Monetario Internazionale (IMF), col compito di regolare mediante interventi mirati eventuali oscillazioni anomale dei cambi ed erogare prestiti a breve; e la Banca Mondiale (WB), per assistere i Paesi meno abbienti mediante prestiti agevolati a medio-lungo termine, naturalmente a ben precise condizioni, che ne avrebbero alla fine determinato la rovina economica. Notare che entrambe queste organizzazioni, come più tardi l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), sono strutture pubbliche, sebbene non sotto la giurisdizione ONU. Il dettaglio non è di poco conto, in quanto i prestiti ai Paesi meno affidabili saranno affidati a questi organismi, spesso subentrati ai prestiti insoluti delle banche private, mentre saranno queste ultime a concederli ai Paesi meno rischiosi, a tassi maggiori. Il distinguo sarà tuttavia sempre meno netto, in quanto gli USA si serviranno di queste banche in stretta correlazione con società private di consulenza ed engineering per spingere le nazioni povere verso debiti inestinguibili, per poi ricattarle. *

Un altro punto fondamentale stabilito negli accordi di Bretton Woods fu che il valore del dollaro sarebbe stato garantito da un deposito di lingotti d’oro nei forzieri di Fort Knox equivalente all’ammontare dei dollari in circolazione.

Merita qui ricordare un fatto che ci ricorda il sacrificio di Abramo Lincoln, che, come sopra già detto, fu assassinato poco dopo aver “osato” emettere denaro statale, i greenbacks. Nel 1961 salì alla presidenza degli USA John F. Kennedy, il quale ingenuamente pensò di sfidare la lobby bancaria, colpendo al cuore le sue due maggiori fonti di guadagno: le guerre e l’emissione di moneta. Kennedy dichiarò la sua ferma intenzione di uscire dal Vietnam e sostituì lo Stato alla Fed, stampando banconote per oltre $ 4 miliardi: con la non trascurabile differenza che, anziché la scritta Federal Reserve, comparve sulle nuove banconote la scritta The United States of America. Doppio oltraggio imperdonabile! Che non fu perdonato, infatti, se anche la morte di questo presidente è imputabile a questo gesto di lesa maestà: i nuovi dollari uscirono, con grave danno economico per i banchieri della Fed, nel giugno 1963. JFK fu assassinato 4 mesi dopo; e immediatamente il vice-presidente Lyndon B. Johnson si affrettò a ritirare i dollari “di Kennedy” dalla circolazione e a sostituirli con quelli della Fed. Non ebbe però l’ardire di cancellare l’Ordine Esecutivo 11110 emanato da Kennedy; ordine tuttora valido, in quanto nessun Presidente l’ha mai abrogato; ma neppure ha più avuto il coraggio di ripristinarne l’efficacia. L’assassinio di Kennedy ebbe quindi tutta l’aria dell’avvertimento di tipo mafioso, e in quanto tale, sortì l’effetto voluto dai suoi mandanti. Quanto al Vietnam, tutti sappiamo per quanti anni ancora la guerra si protrasse, dando avvio alla dilatazione smisurata del complesso affaristico militar-industriale che ha il suo epicentro nel Pentagono e che prospera sull’accensione di nuovi fronti di guerra.

L’impegno preso a Bretton Woods fu in misura crescente disatteso dagli USA, pardon, dalla Fed, che si mise gradualmente a stampare banconote in misura maggiore del corrispondente valore in oro, approfittando del fatto che il dollaro, in quanto valuta di riserva delle varie banche centrali, ne costituiva (e tuttora ne costituisce) ormai circa l’80%. I guai cominciarono quando, nel 1970, i paesi OPEC, sommersi di dollari in cambio di petrolio, cominciarono a chiedere di essere pagati in oro. Ciò determinò una corsa all’oro di Fort Knox da parte di varie banche centrali, onde pagare lo proprie importazioni di greggio, portando così alla scoperta del clamoroso “falso in bilancio” della Fed. Al tempo stesso, la guerra in Vietnam drenava ingenti risorse allo Stato americano, la cui posizione debitoria nei confronti del resto del mondo mondo venne impietosamente alla luce.

Chiunque altro, persona fisica, società o governo, non avrebbe potuto che dichiarare bancarotta. Ma Nixon, nell’agosto 1971, fece un atto così impudente che supera ogni immaginazione: dichiarò unilateralmente l’insolvenza degli USA, quindi l’inconvertibilità del dollaro in oro. Il dollaro, in sostanza, doveva essere accettato per quello che era: un pezzo di carta che rimandava, per il suo pagamento, ad un altro pezzo di carta di uguale valore di facciata. Ci si potrebbe aspettare un vasto sommovimento di tutti i Paesi creditori; invece, a parte qualche blanda protesta formale, la Fed potè continuare indisturbata la sua produzione di fiat money, denaro a corso forzoso, ossia inesigibile, nella generale accettazione di un così drastico mutamento di regole, che avrebbe peraltro avuto conseguenze ben più profonde negli anni a venire. Del resto, già nei primi anni 30, nel pieno della Grande Crisi, il presidente Roosevelt aveva vietato agli stessi americani di chiedere la conversione in oro dei propri dollari attraverso una legge che proibiva addirittura la detenzione di questo metallo in qualsiasi forma, da consegnarsi al Tesoro in cambio di pegni cartacei: l’oro insomma fa paura agli stampatori di carta moneta, in quanto costituisce un concreto termine di paragone, non moltiplicabile a piacere, e quindi rivelatore del reale valore delle banconote. Per contrastare la secolare signoria dell’oro, negli ultimi vent’anni tutte le banche centrali si sono spogliate di gran parte delle loro riserve auree, proprio per svilire il valore dell’oro sui mercati.

Anche la Banca d’Italia, dopo l’avvento del fascio - molti esponenti del quale premevano per la sua nazionalizzazione - rimase saldamente in mani private, nonostante nel 1936 venisse dichiarata “istituto di diritto pubblico”, per conferirle ancora di più quel manto nazionale tanto caro ai banchieri centrali. Si noti che, pur attraverso guerre, sconfitte, rivoluzioni, cambi di regimi, l’unica realtà che non subisce mai mutamenti è la proprietà privata delle banche centrali, e quindi di tutte le banche, con l’unica eccezione, come già detto, della Germania dopo l’avvento del regime nazista. Tuttavia, Mussolini ebbe l’ardire di by-passarla parzialmente, facendo stampare parte delle banconote circolanti dall’Istituto Poligrafico dello Stato, quindi con la dicitura “Regno d’Italia” (vedi sotto), senza indebitare lo Stato per queste emissioni. Le importazioni, a causa delle sanzioni da parte della Società delle Nazioni per la guerra nel corno d’Africa, non potevano essere pagate con i biglietti di Stato, mentre utilizzando le banconote della Banca d’Italia si sarebbe elevato troppo il debito pubblico; il regime ricorse allora all’oro mediante la famosa richiesta di donazioni - volontarie - di ”oro per la patria” da parte dei cittadini.** Sembra conseguente vedere nelle sanzioni, così come pure nella stessa demonizzazione di Mussolini, una rappresaglia contro la disobbedienza italiana alle leggi dei manipolatori della finanza internazionale,. Dobbiamo tuttavia ripetere per l’Italia del Ventennio le considerazioni già fatte per la Germania nazista, e cioè stigmatizzare il grave errore di entrambe di canalizzare gran parte delle risorse monetarie risparmiate in un folle riarmo, anziché in un ulteriore miglioramento delle condizioni economiche dei cittadini. 

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* Il libro “Confessioni di un sicario dell’economia” di John Perkins, Ed. Minimum Fax, 2005, spiega nei dettagli il meccanismo usurario che porta al debito e alla miseria milioni di persone.

** Ricordo ancora vividamente le “vere” metalliche agli anulari dei miei nonni paterni, in sostituzione di quelle originali “anteguerra”, in oro, donate allo Stato negli anni ‘30.   

[continua] 

Marco Giacinto Pellifroni                          Finale Ligure, 15 aprile 2007