“Non sono certo nato per fare l’eroe; non ne ho minimamente la stoffa. Sono per natura conciliante con gli altri e forse un po’ troppo con me stesso, ma se una cosa la devo fare non mi tiro indietro.”
25 aprile: “Siamo i ribelli della montagna…”

                                                 di
Sergio Giuliani      versione stampabile

Anche i canti partigiani mutano col continuo mutare di approcci alla Resistenza. Allora, quel 25 aprile 1945, non sentimmo cantare la persino troppo nota “Bella ciao”, ma canti lunghi, nenie russe imparate dagli ex prigionieri dell’Armata rossa confluiti nelle bande. Lentissime melodie, nostalgiche di affetti troppo lontani e di spazi infiniti, a cui i partigiani diedero il corredo di parole italiane. Il canto che cito nel titolo e “Fischia il vento…” scorrono come i grandi fiumi delle pianure dell’est europeo, pesanti, pacati, tristi di fatica, di dolore, di sopraffazione e di guerra.

Andiamo a ritrovarli, se vogliamo risentire il sapore di quell’epoca!

E, dopo tanto discutere di memorie condivise o meno, a me è toccata la buona sorte di avere avuto in dono, raccolte in un fascicoletto leggero, quasi in punta di piedi le memorie che un partigiano, il dottor Francesco Barile, ha redatto per amici, figli, nipoti e, soprattutto, penso, per se stesso, allorché ha sentito che di quegli anni bisognava fare un bilancio fuor di polemiche e fuor di retorica.

Sono, dopo tanti anni, ancora curioso della testimonianza diretta, perché tanta polvere si è depositata e i ricordi si sono assottigliati, illimpiditi ed hanno acquisito una nettezza che li pone fuori di ogni distorsione e di ogni spirito “eroico”.

Una generazione di ragazzi di diciotto anni, appena diplomati, fu investita da cose più grandi di loro e senza aver potuto avere la formazione storico-culturale per comprenderli. Dai banchi di scuola, alla leva obbligatoria in un esercito ormai, quando non sfasciato e ribelle, sotto la dura egemonia e l’irrisione dell’alleato tedesco.

L’allora studente universitario Francesco Barile era un giovane di sani principi, formato ai valori civici e sociali dall’ ambiente familiare e, probabilmente, anche da qualche professore del nostro Liceo che riusciva a far parlare le opere degli autori più che il libro di testo di regime.

Non aveva, a mio vedere, ideali “partitici”: i partiti erano finiti da tempo e restavano soltanto come sottotraccia nelle parole dei cospiratori, i pochi avvertiti che avevano conosciuto la politica prefascista. Ma la violenza inesorabile del richiamo di leva, il dover combattere contro altri uomini che non odiava per dei destini retorici che non condivideva lo fece decidere, su consiglio del fratello, per la diserzione e, conseguentemente per una vita miserrima e piena di rischi, di fame, di freddo, di pidocchi, di fughe, di sparatorie, di arresto e di violenze subite nell’ex caserma dei carabinieri di Altare, quell’edificio appena fuori del tunnel del forte, di marce forzate per sfuggire ai rastrellamenti, di pericolosi rientri in cascine fidate dove i contadini mettevano in pericolo le loro vite ed i loro averi per ricoverare, almeno per qualche ora, ragazzi ed uomini delle bande braccati e sfiniti.

Una frase mi ha colpito, detta come en passant tra il continuo fluire degli episodi: “Non sono certo nato per fare l’eroe; non ne ho minimamente la stoffa. Sono per natura conciliante con gli altri e forse un po’ troppo con me stesso, ma se una cosa la devo fare non mi tiro indietro.” E’ questa la chiave, sommessa ed autentica, per capire la scelta fatta da questi giovani: scelta che hanno serbato nel cuore e nella mente scevra dagli attacchi di retorica che, purtroppo, hanno involontariamente guastato altre testimonianze ed altri valori.

E’ la discrezione con cui il dottor Barile ricorda anni che vorrebbe non aver vissuto in quel modo ad incantarmi. Uomo di pace, come tanti, si trovò, come tanti, coinvolto nella violenza, nella sopraffazione, nella morte e nella sofferenza. Non rifuggì, come tanti, nella “zona grigia”, non obiurgò se stesso a servire un alleato che disprezzava e prendeva a pedate l’Italia.Trovò e trova naturale aver affrontato un carosello continuo di patimenti e di rischi, sbattuto qua e là dall’emergenza continua, casualmente (come Fenoglio) inciampando prima in una formazione garibaldina e, poi, nella Divisione Langhe del mitico comandante “Poli”.

Non odio; non rancore, non bestemmia, nelle sue “paginette”. Commuove ed insegna leggere una cronaca tanto densa e tanto depurata di sovrastrutture, spesso retoriche, di cui molto ci si è compiaciuti e troppo a lungo.

Guardo, quando passo sulla nazionale 28, del Piemonte, prima dei due curvoni che portano sul Vispa, il ponte romano con emozione: una notte pochi ragazzi partigiani lo passarono con cautela e paura: tedeschi, San Marco e brigate nere presidiavano ferrovia sovrastante e carrozzabile e per la salvezza non c’era che “quel” passaggio del Bormida!

Grazie, dottor Francesco Barile, classe 1925,matricola partigiana 20199, Croce al merito di guerra partigiana!

Grazie per aver ricordato quegli anni di cruda guerra anche come anni di solidarietà umana!              

Sergio Giuliani