Antiche tradizioni contadine in festa

Antiche tradizioni contadine in festa
Una volta si faceva festa per distaccarsi dal lavoro. Soprattutto il faticoso e mal pagato lavoro dei campi

Antiche tradizioni contadine in festa

 Una volta si faceva festa per distaccarsi dal lavoro. Soprattutto il faticoso e mal pagato lavoro dei campi. Lenimento della fatica e del magro desco di poca energia, era il susseguirsi di domeniche e di santi da onorare, con messe, tridui e novene, ma pure con qualche mangiata un poco più abbondante, qualche bicchiere di vino, talvolta una cantata in coro, nata magari dallo stesso coro che si ritrovava in chiesa per la funzione, riassemblato all’osteria per una cantata laica. Il padrone (c’era sempre un padrone, un fattore, un esattore) concedeva un fiasco, una pietanza in più, che bastava a malapena per integrare la fatica spesa per il lavoro. Un equilibrio in vago pareggio, ma più sullo scarso, dove una qualunque traversia o imprevisto avrebbe condotto un uomo, una famiglia, sul lastrico, allo stremo. La solidarietà del paese era unico antidoto alla disgrazia.

Ma, come noto, nell’economia della sussistenza, c’è pochissimo margine per l’aiuto agli altri. Nonostante questo ogni casa era aperta all’ospitalità verso i girovaghi, tanto frequenti. Un posto nella stalla, una porzione di minestra o di polenta, c’era sempre e per tutti. Il motivo è logico, razionale: in un mondo nel quale chiunque poteva andare in rovina, era indispensabile avere l’abitudine, la cultura del sostegno reciproco. 

I semi, indispensabili per pensare all’anno a venire, venivano conservati, scambiati, gelosamente custoditi. Le scorte alimentari serbate pulite, asciutte e protette dai topi e parassiti. Ma siccome non si sapeva bene il perché, nonostante tutto, la roba può andare misteriosamente in malora (in càmua) allora il mistero, il trascendente veniva in aiuto della donna, amministratrice e protettrice delle sostanze. Mescolando cristianesimo e riti forse antichissimi, si cercava il modo di salvare quel che era la vita per l’intera famiglia per l’anno a venire. Non dovessero bastare i libera nos a malo del prete, la donna provvedeva a minimizzare il danno: anche quando tutto andava lo stesso in malora, o grandinava, o seccava, si poteva sempre dire: “Chissà cosa sarebbe successo se non si fosse stata fatta quella preghiera, quel rito…”.

 

 

La famiglia era il nucleo raccolto attorno al focolare. Non per nulla i vecchi registri parrocchiali o le cronache per dire famiglie, dicono “fuochi”. Certo, c’era un padre e una madre, i figli, ma anche fratelli da sposare, sposi novelli in cerca di casa, sorelle che avevano perso il marito, parenti di vario ordine e grado. Nondimeno la famiglia era sede di violenza. Le cronache ci riportano casi di sospetto incesto, di violenze ripetute, di alcolismo, di ripudio di mogli abbandonate alla strada. 

Le malattie frequenti e dall’esito infausto. Le cure, nulle. O troppo costose. La consanguineità portava spesso a tare ereditarie, i cosiddetti mentecatti, or non è molto, venivano volentieri affidati ai manicomi, dove talvolta venivano inghiottiti per il resto della loro oscura vita, senza lasciare traccia.

Ho buttato giù a memoria questo paio di temi su cui ragionare, perché vorrei motivare il disagio che provo di fronte alla diffusione sempre più invadente delle feste e delle rappresentazioni a tema contadino, tradizionale, arcaico. Alla base dell’equivoco (non so come altro chiamarlo) c’è la similitudine per cui vecchio è genuino, è degno, è prezioso, è originale. Il frutto di questo equivoco (a livello locale) è che ogni cosa che viene dal passato merita di essere rimessa in evidenza (nei suoi aspetti più pittoreschi). Segnatamente il medioevo e la “antica civiltà contadina” pare siano sempre al centro di quella attenzione che si ferma precisamente tra la tela di juta e il gotto di vin buono. 

 


 

È uno svago, mi si dirà, che c’è di male? Di male c’è che ci si abitua a prendere argomenti articolati in maniera semplicistica, banalizzando tutto, riducendo sempre tutto alla raffigurazione più pittoresca che ci possa appagare. L’abbiamo già visto questo modo di procedere, per combinazione proprio poco prima del Ventennio, in quella corrente culturale chiamata Strapaese. Specifichiamo: in Strapaese operavano belle menti (Papini, Soffici e Malaparte) che avevano in mente un progetto politico e culturale, critico ma vicino al fascismo. In ogni caso una progettualità contestabile, delle idee, anche interessanti. Oggi questo “strapaese” è il frutto di un deserto culturale, nel quale ci si ferma perennemente alla prima impressione, quella che ci riempie la pancia, proprio come nella attuale propaganda politica.

Sarebbe il caso di approfittare delle pur lecite antiche fiere del bestiame, feste del grano, festa del mangiare di una volta, festa dell’antica cultura contadina, per trovare modo tempo di parlarne seriamente, di quei bei tempi andati. Magari facendosi qualche domanda prima di festeggiare il grano semplicemente con il trattore a testa calda, ormai divenuto chiassoso rappresentate dei bei tempi andati.

 


 

Nella storia dei cereali e dell’uomo (che praticamente coincidono) l’antico rito dell’accensione del trattore a testa calda rappresenta un episodio molto meno che marginale: su circa 40.000 anni di storia, il trattore con motore diesel lento, è durato in proporzione un lampo. E il buon mangiare “di una volta”, per come vogliamo raccontarcelo, è durato poco di più, essendo che la nostra tavola è frutto prevalentemente dei nuovi frutti e ortaggi d’oltre Atlantico (pomodoro, mais, patate…) che si sono diffusi in campagna con una certa lentezza e forse pure con una vaga diffidenza (la patata si diffuse in Italia a partire dall’Ottocento).

“Facciamo che te eri un astronauta e io ero Sandokan…” dichiaravano i bambini di un tempo prima di avventurarsi in un gioco da cortile, di quelli senza palla  e senza armi, solo di pura fantasia. Ci voleva: a quell’età gettarsi a briglia sciolta, senza limiti, contaminando, sudando e sollevando nuvole di polvere è quanto meno auspicabile. Poi i bambini crescono, magari diventano davvero astronauti, o magari solamente leggono Salgari, però crescendo rimettono le cose in ordine, e la fantasia la usano per disegnarsi il futuro.

     ALESSANDRO MARENCO

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