Alla ricerca della tradizione gastronomica

Alla ricerca della tradizione gastronomica

Alla ricerca della tradizione gastronomica

Ho sentito un sociologo alla radio spiegare che fino agli anni Cinquanta passavamo circa due ore al giorno in cucina. Dopo l’intensa industrializzazione (anche dei consumi, non solo del lavoro) il tempo è progressivamente diminuito, fino ad arrivare a circa venti minuti complessivi, per tutti i pasti.

L’architettura delle nostre case ha seguito questo percorso: la casa, in campagna, era rappresentata unicamente dalla cucina, tanto che non c’era bisogno di darle il nome. “In casa” voleva dire più semplicemente nel luogo dove si tengono le stoviglie, si prepara il cibo e, d’inverno, si mangia.


Si, perché se ci facciamo raccontare dai vecchi come si mangiava prima dell’ultima guerra, sulle nostre colline non vigeva l’uso di apparecchiare la tavola con tovaglia, servizi e bottiglie, se non per ricorrenze particolari, e neanche in tutte le famiglie. A pranzo mangiava chi era presente (molti erano nel bosco, nei campi o in fabbrica, comunque troppo lontani per tornare a pranzare) e, come per la cena, ognuno prendeva la sua parte e se la mangiava: piatto in una mano e cucchiaio (o forchetta) nell’altra. Chi in piedi, chi sulle scale, chi seduto vicino alla stufa.

Ci siamo inurbati, e abbiamo iniziato a lavorare stabilmente, con il nostro stipendio fisso a fine mese. Le donne hanno cominciato a lavorare anche fuori casa. Nascono negozi sempre meglio forniti e alla fine compaiono i primi supermercati, sotto forma (da queste parti) di cooperative di consumo. Finalmente ci si libera dai troppi lavori di preparazione del cibo e si va sempre di più verso l’acquisto di prodotti semilavorati, con facile variabilità di gusto, sostanza, prezzo.

La cucina, enorme officina, laboratorio, focolare, deposito attrezzi, cessa lo scopo. Nasce il “cucinino”, una delle invenzioni più orribili che la storia dell’umanità ricordi. Non c’è spazio per cucinare, non c’è spazio per più di una persona alla volta. È tutto comodo, a portata di mano, talmente comodo che non ci sta niente. Via la stufa a legna, via la vecchia dispensa. C’è il riscaldamento centrale, c’è il frigorifero.

 Il cucinino è la rappresentazione architettonica di quel che subisce la donna nell’era industriale: mentre prima faceva vita dura, ma era al centro, nel cuore della cascina, la presiedeva e l’amministrava, ora, in questo stanzino, viene relegata a servente, a silenziosa procuratrice di cibo, possibilmente semilavorato. Quasi ci si vergogna della cucina e della cuoca, la quale prepara, impiatta, e reca il cibo pronto al consumo alla famiglia, allibita davanti alla tivvù.

Se nella cucina di campagna si pulivano verdure e funghi, si sgusciavano fagioli, piselli o fave, si sfogliava il granturco nelle lunghe sere di veglia (sempre che non si fosse in troppi, allora si stava nella stalla) ma si preparavano anche per la cottura galline o conigli, cacciagione (se capitava) o, in certi casi, si preparava il maiale per la conservazione; negli anni Sessanta e Settanta, il cucinino rendeva impossibile qualsiasi preparazione più complessa del riscaldamento di una pentola.

Credo se ne siano resi conto anche i grandi centri di distribuzione: avere una dispensa piccola, una cucina piccola, ti porta a fare poca cucina e soprattutto ad avere poche scorte, a comprare di meno, a non provare mai niente di nuovo.

 Ecco che la cucina diventa luogo estetico, di stile, di design: arrivano le cucine componibili, doppi forni, lavastoviglie, frigoriferi – freezer che potrebbero contenere un bue intero. E poi carrelli e ripiani e taglieri e cappe aspiranti. Compaiono materiali sempre più tecnologici: dalla “vecchia” formica alle varie resine resistenti, nei colori più improbabili: antitaglio, antibruciatura, antigoccia, antimacchia, antiolio…Tanto da far sorgere un problema che i nostri antenati non avevano: la pulizia della cucina. Ora, la lucentezza del piano di cottura e dell’intera cucina vale per le donne (non tutte) quanto la lucentezza della carrozzeria dell’auto per gli uomini (non tutti). Per qualche motivo che io non conosco, provano entrambi un sottile e profondo piacere nel possedere un oggetto lucido, perfetto, pulito. Non che lo sporco mi piaccia, ma credo che lo sporcarsi e consumarsi sia nella natura degli umani e delle cose che usano. Spesso si arriva al paradosso, per cui si evita di cucinare per non sporcare la cucina (si evita di uscire in auto perché piove…). Sono forme di nevrosi (per carità: ognuno ha le sue…) a cui siamo approdati proprio perché abbiamo perso il senso e l’uso degli oggetti e del loro valore sacro, talvolta.

Quanto tempo ci vuole per fare una gallina bollita? Mah… Quaranta minuti in una pentola a pressione. Si prende la gallina, la si controlla, si lava magari, poi si mette nel pentolone con una cipolla, una carota, un pezzo di sedano, un pizzico di sale. Voilà…

 Ehm… no, veramente una gallina bollita, escludendo tutta la parte dell’allevamento, richiede molto più tempo. Tanto va catturata, e non è facile, essendo che la gallina, di per sé, non ama essere bollita. Poi gli va torto il collo, finché morte non sopraggiunga. E qui, cari lettori, non so proprio quanti sarebbero capaci… Poi si piuma, con acqua bollente e tanta pazienza. Poi si apre e con molta cura si asporta tutto quel che va asportato (si noti che le interiora si utilizzavano per fare un risotto, mi par di ricordare…), poi si bruciano le piumette più sottili e quasi invisibili sulla fiamma viva, poi si lava in acqua corrente. Ecco quindi sora gallina pronta a finire in pentola. Allora, quanto tempo ci vuole per fare una gallina? E ora, soprattutto, guardatevi intorno: penne, piume svolazzanti per ogni dove, macchie di sangue, piccoli pezzi non identificati a terra, sul piano di lavoro. Coltelli, forbici, piatti e vassoi. E non avete ancora cominciato a cuocere!

Sia ben chiaro: questo era il mangiare delle grandi feste, il cibo del Natale, o per qualche matrimonio primaverile, al quale accompagnare la salsina verde di prezzemolo, aglio, acciuga, aceto e pane ammollato.

Nei giorni normali si mangiava meno. Non si era alla fame, mi confidava un vecchio amico, ma erano sempre le stesse cose: colazione, pranzo e cena c’era polenta, e se ne poteva prendere finché se ne voleva. A pranzo la polenta era appena fatta, e c’era qualche sugo con cui condirla (ma non di carne). A merenda polenta a fette, e un pezzetto di frittata.  A cena minestra, quelli più benestanti con le tagliatelle. Polenta a piacere. A colazione la minestra avanzata la sera prima. Più naturalmente tutto quel che si riusciva a reperire in natura: erbe, frutti, funghi, passerotti…

   

 Oggi torniamo a casa annunciando fame, apriamo il frigorifero e stiamo lì a pensarci: mah… magari una bistecchina con l’insalata. Oppure un piatto di pasta… O magari un tagliere di formaggi e salumi. Certo che però non ho il vino adatto…

Mentre per i nostri nonni la fame era una condizione normale, tenuta malapena sotto controllo, per noi è uno stimolo piacevole, un bisogno da soddisfare con un consumo. Ma la fame non dovrebbe lasciare dubbio: se hai fame, mangi. Se non ti va quello che c’è nel piatto (polenta) vuol dire che non hai fame, e mangerai domani.

Ricordo di aver inorridito al racconto di un anziano, a undici anni servo in una cascina. Diceva di aver mangiato spesso polenta fredda inghiottita a viva forza con l’acqua, in modo da far scendere un boccone che non voleva più scendere, per vincere la nausea, e riuscire a riempire il sacco vuoto della pancia.

Le nostre condizioni sono migliorate da allora, possiamo scegliere cosa mangiare. Ma chi parla di antichi sapori spesso dimentica che non sempre erano buoni. E soprattutto che per arrivare a dei buoni sapori occorre dedicarsi alla cucina, lavorare, trasformare delle buone materie prime in buoni piatti. Quand’anche la cucina non fosse bella come un’auto sportiva.

ALESSANDRO MARENCO

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