Alcune note su “Sul muro grafito” di Eugenio Montale

 

Sul muro grafito
che adombra i sedili rari
l’arco del cielo appare
finito.

Chi si ricorda più del fuoco ch’arse
impetuoso
nelle vene del mondo; – in un riposo
freddo le forme, opache, sono sparse.

Rivedrò domani le banchine
e la muraglia e l’usata strada.
Nel futuro che s’apre le mattine
sono ancorate come barche in rada.

Ultima lirica della sezione che dà il nome a tutta la prima raccolta di poesie di Montale, molto breve (due versi sono addirittura di tre e quattro sillabe), riprende, ed essendo l’ultima di questa sezione era prevedibile che fosse così, correlativi già più volte evocati.
Tra essi, e non è la prima volta, il muro.
Esso si trasforma nel corso dei versi in muraglia; ovvero da semplice elemento di descrizione, a ostacolo, a nemico.
Il poeta ci conduce ad accettare questa trasformazione, a farcela acquisire come convintamente nostra, in una sorta di consapevolezza che avessimo da sempre.
Lo fa in modo potente, attraverso due elementi convergenti fino a intrecciarsi, che collaborano ad avvalorarla:
– la terminazione che il “muro” assume diventando “muraglia”, la quale è per lo più in vari gradi negativa, sicché è estremamente agevole trovare parole come accozzaglia, marmaglia, nuvolaglia, sterpaglia etc., che adempiono alla funzione dispregiativa.
– il significato che ci dice di qualcosa con funzione di impedimento, in senso quasi marziale se si considera come la muraglia sia legata a vicende belliche ed abbia in sé sempre qualcosa di minaccioso, pericoloso o contrastivo.

PUBBLICITA’

Tuttavia anche il muro, in quanto grafito, già da subito presenta un volto non così neutro.
Grafito, dunque. Ma quale ragione avrebbe spinto il poeta a precisare questo particolare apparentemente inessenziale?
Com’è normale ogni muro presenta delle irregolarità, delle escrescenze, delle scarificazioni; a volte accompagnate da veri e propri segni e disegni intenzionali.
Comunque sia, Montale li pensa, inquadrati nel tentativo di trasmettere il suo messaggio, come graffi.
Le scarificazioni, le incisioni, gli abbozzi, i solchi, li possiamo percepire come le cicatrici lasciate da colui che ha cercato di superare o sgretolare con tutte le sue forze e tutta la sua volontà, arrivando fino allo spasimo dello scollamento delle unghie come avrebbe potuto accadere a un carcerato, quell’ostacolo frapposto tra sé e la libertà; oppure anche come la certificazione di essere stato partecipe di quella condizione, e di averla sofferta e testimoniata.
Le ferite del muro sono le ferite che egli ha dentro; la sua rabbia, la sua impotenza e la sua sconfitta. E tutta la poesia di Montale vale e serve affinché queste incisioni perdenti e patetiche testimonino la loro sterilità su un muro invalicabile.
Il muro grafito è un muro sul quale, ci fa intendere il poeta, possiamo vedere, e poi mettere, in un certo senso, la nostra scavata testimonianza; un codice segreto tutto nostro allo stesso modo di come dotiamo di senso le macchie di Rorschach.
Ecco, sul muro che copre con la sua ombra le poche panche,”l’arco del cielo appare / finito”.
E’ chiaro che quel “sul” sta a significare “al di sopra” del suo bordo in altezza.Tale limite non ha leopardianamente la funzione di scatenare l’immaginazione. E’ e resta un limite che limita e non innesca nulla, se non il pensiero per cui la finitezza che si sperimenta sia il microcosmo di una finitezza più grande.
Nella seconda strofa il contenuto pare cambiare radicalmente.
Non si parla più di ombra ma di “fuoco ch’arse / impetuoso / nelle vene del mondo” dove le vene paiono le pulsanti e mobili colate laviche incandescenti che hanno plasmato la terra, e dove il sole guizza con la sua eraclitéa fiamma cangiante.
Pare cambiare, si diceva; e tuttavia un legame con la prima strofa c’è, e così essenziale da farci individuare in essa la conseguenza di quanto ci è prospettato nella seconda, in un’inversione che certo rende più arduo rinvenire il filo logico tra le due, ma che, una volta individuato, delinea molto meglio il senso di un messaggio di cui ora abbiamo la cifra oltreché il risultato.
Tuttavia quello che maggiormente colpisce non è questo scarto di contenuto. Infatti è necessario innanzitutto e soprattutto prendere atto di quello strano punto di domanda del quale si sente la fisica mancanza grafica.
Sembrerebbe naturale trovarlo al termine della frase:
“Chi si ricorda più del fuoco ch’arse / impetuoso / nelle vene del mondo;” al posto del punto e virgola.
Proprio perché è una frase che inizia con il pronome interrogativo “Chi”, il lettore, a viva voce o mentalmente, si prepara, tal quale fosse stato messo sull’avviso da un punto interrogativo rovesciato al modo della lingua castigliana di porre per iscritto la domanda, a modulare conseguentemente.

Non è una notazione specialistica, ma uno stupore di chiunque abbia a leggerla.
La sua assenza è immediatamente palpabile, fastidiosa.
La voce pronta all’intonazione ascendente, si deve in qualche modo reimpostare in corso d’opera.
Poi uno stacco dato da un trattino; quindi la ripresa:
“in un riposo / freddo le forme, opache, sono sparse”.
Non è così immediato capire il motivo per cui Montale ne priva la frase. Quello che si sa, è che è già accaduto altre volte.
Relativamente a questa occorrenza si può  solo tentare una spiegazione dicendo che si sarebbe trattato di una domanda che il poeta sa inutile.
Non al pari delle domande retoriche, di cui per definizione si conosce già la risposta, ma perché è consapevole che risposta non c’è.
La qual cosa non toglie che egli abbia avuto l’incontenibile bisogno di esternarla.Ma forse non è spiegazione esaustiva, e vogliamo completarne il senso proponendo nientemeno di incastrare tramite una parentetica, la parte finale della seconda strofa all’interno della prima, cosa che conduce a sua volta a chiamare in causa la terza strofa in un’unica tessitura del messaggio.
Risulterebbe:

Sul muro grafito
che adombra i sedili rari
( – in un riposo
freddo le forme, opache, sono sparse ) 
l’arco del cielo appare
finito.

Ed ecco come le parti di primo acchito estranee, rompono l’ermetismo accentuato del testo, e si raccordano in una continuità logica e non più solo evocativa-suggestiva.
Continuità didatticamente esprimibile grossomodo in questi termini: il muro grafito (ferito dalla proiezione delle mie ferite), mette in ombra i sedili rari (in quanto all’aperto panche, non certo sedie) spegnendo il fuoco (il desiderio, la speranza, l’entusiasmo, la lotta, il progetto, e insomma, come suggerisce l’unico verbo al passato remoto del testo, la giovinezza) per (e qui bisogna saltare al penultimo verso con il quale il gioco degli incastri si completa) il “futuro che s’apre”, per cui “l’arco del cielo appare / finito”.
Da questo momento la prospettiva si appropria del sentimento, che trova nelle cose solo forme opache, senza vita e senza vitalità, talché il “riposo /  freddo” è quello della morte che si estende a tutto, anche a ciò che come gli oggetti, è privo di quel calore che, presente, Montale condannerebbe con nostalgia; e che, assente, lo prostrerebbe.
Da notare che il poeta se ci porta a pensare alle panchine senza tuttavia nominarle se non con un sinonimo, è per due motivi:
– evitare una rima quasi perfetta con banchine, vocabolo che troveremo nel nono verso; infatti le due parole sarebbero identiche se non ci fossero le due lettere iniziali differenti (ma lettere comunque simili essendo consonanti esplosive). E la rima identica non è foneticamente molto apprezzata, in quanto da una rima ci si aspetta sì eufonia, ma non eufonia ripetitiva, che ha il sapore della rima facile, della scorciatoia.
– evitare di creare confusione. Infatti se “panchina” ha il significato di sedile,”banchina” invece indica il luogo di carico-scarico merci e di imbarco-sbarco passeggeri, nelle stazioni, nei porti e in siti similari.

Da questo deriva che i versi “Rivedrò domani le banchine / e la muraglia e l’usata strada” significano che egli l’indomani, per tutti i domani (ovvero il futuro che s’apre), percorrerà la solita strada, e da là guarderà le solite banchine della rada, il luogo da dove potrebbe partire se  la solita  muraglia che adombra i soliti sedili non glielo impedisse, costringendolo a stare a vedere la vita passare.
Qui scatta la metafora: il poeta seduto, o che così si immagina, sulla panchina, è la barca che non riesce ad abbandonare la banchina.
Sui sedili si desiste, si rinuncia; la delusione attanaglia.
Allo stesso modo la mancanza di fuoco nelle cose le pietrifica, le fa opache. Non hanno più sangue che pulsa nelle vene; è come se si addormentassero su se stesse.
“Nel futuro che s’apre le mattine / sono ancorate come barche in rada”.
E poiché il poeta è la barca che non riesce a prendere il largo, il termine “ancorate” si rivela indispensabile.
Ormeggiate, attraccate, abbittate, sarebbero stati lemmi corretti ma inopportuni: nessuno di essi ci suscita l’associazione di idee con “accorate” e insieme con “ancòra”.
Associazione estrinseca? gioco di parole? No, molto di più e di più sostanziale.Nessun altro vocabolo ha un etimo tale da comunicarci come il cuore nella lotta tra sicurezza e libertà, tra tempo trascorso e tempo che rimane, tra andare e restare, possa uscirne ancòra trafitto.   

FULVIO BALDOINO

Condividi

3 thoughts on “Alcune note su “Sul muro grafito” di Eugenio Montale”

  1. In questo suo commento all’ultimo degli “ossi” raccolti negli “Ossi di seppia” propriamente detti, Fulvio Baldoino, più che in altri suoi preziosi e acuti commenti a testi poetici montaliani, si immedesima con il poeta, nella sua tonalità emotiva e nelle sua situazione psicologica e anche spaziotemporale, tra passato, presente e futuro. Anche qui troviamo un muro e una muraglia, come in “Meriggiare pallido e assorto / presso un rovente muro d’orto… // E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e i suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”; e ricordiamo anche lo “scalcinato muro” sopra il quale si stampa l’ombra dell’ “uomo che se ne va sicuro, / agli altri e a se stesso amico…” di “Non chiederci la parola”. Qui ci troviamo di fronte a un “,”muro grafito”, e Baldoino non manca di chiedersi il perché di questa specificazione: “Grafito, dunque. Ma quale ragione avrebbe spinto il poeta a precisare questo particolare? …Comunque sia Montale li pensa inquadrati nel tentativo di trasmetterci il suo messaggio, come graffi”. Graffi come tagli, ferite, incisioni , lesioni…Ecco dunque il significato di quella connotazione del muro “grafito”. Allora quel muro “scarificato” è il correlato oggettivo del suo cuore: “Le ferite del muro, interpreta Baldoino, sono le ferite che egli ha dentro, la sua rabbia, la sua impotenza e la sua sconfitta”. La poesia di Montale vale anche come testimonianza della vanità di ogni tentativo di andare oltre, al di là del muro “che adombra i sedili rari / l’arco del cielo appare / finito”. Al di qua di quello schermo che separa anche il passato dal futuro, quello che è stato da quello che sarà, “Chi si ricorda più del fuoco ch’arse / impetuoso / nelle vene del mondo;”, (e qui non si può fare a meno di notare, come fa Baldoino, la stranezza di quel punto e virgola dove ci aspetteremmo un punto interrogativo, ma lo spiega con l’impossibilità, chiara a al poeta, di una risposta). Per meglio intendere i due versi seguenti separati dai precedenti solo da un trattino, il commentatore assumendo le vesti del poeta, li mette tra parentesi e li traporta di peso nella prima strofa, che risulta così modificata: “Sul muro grafito / che adombra i sedili rari / (-in un riposo / freddo di forme, opache, sono sparse) / l’arco del cielo appare / finito”. “Da questo momento, chiosa Baldoino con un’intuizione a suo volta poetica, la prospettiva si appropria del sentimento, che trova nelle cose solo forme opache, senza vita, senza vitalità, talché il ‘riposo/ freddo’ è quello della morte che si estende a tutto, anche a ciò che come gli oggetti, è privo di quel calore che, presente, Montale condannerebbe con nostalgia,; e che, assente, lo prostrerebbe”. Nell’ultima strofa ricompare la muraglia di “Meriggiare” e sempre la solita strada che l’aspetta, ma il suo destino è segnato: rimarrà ancorato a terra come una barca in rada. Ma in questo ancoraggio risuona il battito del cuore: “Nessun altro vocabolo – osserva ancora poeticamente Baldoino – ha un etimo tale da comunicarci come il cuore nella lotta tra sicurezza e libertà, , tra tempo trascorso e tempo che rimane, tra andare e restare, possa uscirne ancòra trafitto”. Ultima metafora: il poeta è la barca che non riesce a prendere il largo perché “ancorato” in rada, come giustamente ha rilevato il commentatore-poeta.

  2. Che ti devo dire…! A volte io stesso mi distraggo e perdo il filo che avevo individuato come il meno colpevole ( perché spiegare una poesia è sempre un po’ una colpa, che infatti porta appresso il contrappasso di non essere mai del tutto soddisfatti ) da seguire per un commento, che vorrei onesto e chiaro. Filo che spesso non m’è facile recuperare.
    Mi tranquillizza pensare che, male che vada, se mi capiterà di non riuscirci posso sempre chiederlo a te, perché data l’acribìa con cui ti immedesimi, saprai darmi un l’input utile per procedere a rimettere insieme le idee…

  3. Grazie, caro amico, le tue parole tanto più mi confortano in quanto le sento sincere. E’ bello comprendersi così a volo, segno di vera amicizia. A rileggerci nel prossimo anno. Ancora auguri.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.