Verde → Grigio → Nero

 Calcolare i costi di produzione di una qualsiasi merce da parte del suo fabbricante ERA abbastanza semplice: bastava elencare tutte le uscite per materie prime, trasporti, energia, personale, ammortamento impianti, tasse e contributi. La differenza tra il totale di queste voci e il prezzo di vendita costituiva l’utile d’impresa.

Questa procedura era valida fino a non tanti anni fa, quando il costo di smaltimento degli scarti cominciò ad entrare, d’imperio, nelle voci in rosso di ogni azienda, sotto la spinta di leggi che, pur a rilento per l’opposizione delle industrie, cominciarono ad entrare in vigore, spesso dietro le pressioni e sanzioni dell’UE, che, almeno sotto questo profilo, mostrò la sua validità.

Il processo industriale più simbolico della discrepanza tra costi di fabbricazione ed energia ricavata attiene alle centrali nucleari: quando se ne confrontano i costi con quelli di centrali termoelettriche di analoga potenza, emerge uno svantaggio abissale tra le prime e le seconde se si conteggiano anche i costi di smaltimento delle scorie, nonché dell’impianto stesso a fine vita, che, nel caso del nucleare, supera i costi di costruzione del 200%. 

 

 

Centrale nucleare di Fukushima. Il nocciolo sarà caldo ancora per anni. Idem le radiazioni. Ma i super-esperti giapponesi optano per lo scarico in mare delle acque radioattive (il solito trucco della diluizione per mascherare gli alti contenuti di inquinanti) e riprendere a far funzionare i reattori!

 

SMANTELLARE UNA CENTRALE NUCLEARE

COSTA OLTRE IL DOPPIO CHE COSTRUIRLA

Ma la fame di energia mette in soffitta ogni prudenza

[VEDI e VEDI]

 

Il rispetto di queste nuove leggi, però, ha complicato i calcoli della convenienza -sul piano strettamente monetario- a produrre merci in maniera sempre più compatibile con l’ambiente, determinando un notevole aumento dei prezzi di vendita al pubblico, a seconda delle lavorazioni aggiuntive richieste.

Come sappiamo, le prime reazioni furono l’outsourcing (comprare prodotti che si potrebbero fabbricare in Italia, o in Europa, da fornitori extra-UE a prezzi più bassi) e la delocation(spostare l’intera fabbrica fuori UE). I rischi connessi a questi spostamenti geografici e il danno economico e sociale per l’Italia e altri Paesi Europei, hanno ultimamente ridimensionato il fenomeno, per cui non sono più eludibili i vincoli di natura ambientale furbescamente trasferiti fuori confini; salvo naturalmente usare i canali della criminalità, molto attivi nello sversamento di rifiuti nei posti più remoti. Se vogliamo rimanere nella legalità, l’Italia, pur avendo adottato il nucleare in pochi siti e per pochi anni, si ritrova oggi con 31.000 metri cubi di scorie che nessuno vuole [VEDI]. Figurarsi le altre nazioni, a cominciare dalla vicina Francia, disseminate di centrali nucleari da decenni. Una follia collettiva sull’altare della tecnologia; e ne vedremo altre più avanti. 

Quanto sopra per enfatizzare che la sopraggiunta coscienza ambientale ha comportato un aumento notevole dei costi di fabbricazione di qualunque merce. Non solo, l’effetto serra ha portato ad addossare ai combustibili fossili tutta la colpa dell’attuale situazione ecologica, spingendo i governi e la grande industria a puntare verso la svolta green, come se, raggiunto l’obiettivo, fissato al 2050, di un mondo carbon-free, gran parte degli attuali problemi sarebbe risolta. Ebbene, ciò è lungi dall’esser vero. Innanzi tutto per quanto già espresso più sopra [VEDI]: il nucleare sarà pure carbon-free ma presenta problemi economici, salutari ed ambientali ben peggiori. Siamo disposti a non rinunciare alla bulimia energetica, anche al prezzo di una natura degradata e di un numero imprecisato, ma comunque altissimo, di morti? A giudicare dal corrente andazzo, che getta sul lastrico milioni di lavoratori e trascura di curare altre gravi patologie, pur di salvare un numero di qualche grandezza inferiore di persone, perlopiù di traballante salute, sembra proprio di no: la vita umana dei malati di Covid sembra più sacra della vita umana di altri malati e di lavoratori sani e lasciati alla fame.Così come lo sfruttamento estremo del pianeta antepone gli agi di oggi ad una pur sobria esistenza dei nostri discendenti. 

Perforazione di arenaria per il tight gas

 

Per ottenere olio e gas di scisto si occupano sterminate distese di territorio, con relativo inquinamento di terra, acque ed atmosfera. Molto peggio dell’estrazione di petrolio e gas naturale. Ma quando una materia energetica non basta più a soddisfare la nostra sete, si procede a muso duro calpestando ogni regola

Ma torniamo al nostro tema e partiamo da una considerazione di base: qualunque materia prima greggia ha un costo di estrazione, che cresce nel tempo in quanto prima si sfruttano i giacimenti più facili e poi, via via, quelli di più difficile reperimento. Ciò è stato il caso non solo del petrolio, ma di tutti i minerali ricavati dal sottosuolo, partendo dalle miniere a cielo aperto (cave) alle miniere di profondità, sia sotterranee che subacquee. Per quanto riguarda le materie prime energetiche (carbone, petrolio, gas), se agli albori della civiltà industriale si consumava –a grandi linee- ad es. 1 barile di petrolio per estrarne dieci, si è via via passati a 3, 4 o anche più, fino allo scempio degli scisti bituminosi. È ovvio che, in teoria, la convenienza di estrazione si annulla nel momento in cui per estrarre 1 barile di greggio (o 1 mc di gas o 1 ton di carbone) è necessario impiegare 1 barile (1 mc o 1 ton) della stessa materia prima.

Attualmente, oltre agli elevati costi di estrazione delle materie prime energetiche, s’è aggiunto il carico sull’ambiente dei loro prodotti di scarto, in particolare anidride carbonica, col conseguente effetto serra. Questi due fattori hanno finalmente vinto le resistenze delle grandi società energetiche a cambiare sistema e puntare sulle energie rinnovabili, come il solare e l’eolico. Queste due vie d’uscita, anche dietro la spinta delle associazioni ambientaliste, sono state dipinte di verde, quasi fossero ad impatto ecologico zero. Non è così.

Crescita esponenziale di apparati informatici e high tech

Mentre veniva maturando questa svolta, stava affermandosene a passi da gigante un’altra: quella informatico-digitale. La sete di energia, sino al secolo scorso limitata ai mezzi di trasporto, ai processi industriali e al riscaldamento domestico, si era allargata a dotare di computer, tablet, telefoni cellulari e aggeggi digitali vari un numero in crescita esponenziale di individui e aziende, concorrendo alla poderosa crescita dei bisogni di energia elettrica, ossia proprio quella più cara e pregiata, con rendimenti che, nelle centrali termo-elettriche, non superano il 40%. Ossia, il 60% viene perso in calore di scarto!

E qui si è aperto un altro grande campo, del tutto nuovo: questi apparecchi necessitano di quantità tutt’altro che trascurabili di altre particolari materie prime: le cosiddette terre rare, in gran parte facenti parte della famiglia degli elementi chimici chiamati lantanidi (dal nome del capostipite: il lantanio), più altri metalli di scarsa diffusione come il cobalto. 

 

Terre e metalli rari. Più che rari, sono disseminati in bassissime concentrazioni nelle rocce ed è quindi molto costosa e inquinante la loro estrazione, con enormi scarti di rocce frantumate e trattamenti tossici per separarli

Se in passato l’arma di ricatto verso le nazioni occidentali costituiva, di converso, la fortuna dei Paesi ricchi di petrolio e gas, tanto da spingerli a formare cartelli, tipo l’OPEC, che, a partire dagli anni ’70, con i loro repentini rialzi dei prezzi, determinarono scossoni economici nella nostra vita quotidiana, oggi stanno replicando un analogo copione le nazioni che, non già per averne cospicui giacimenti ma per essere disposte ad estrarle ne sono diventate monopoliste. Stiamo parlando delle terre rare. Innanzi tutto, perché si chiamano rare? Non tanto perché di scarsa diffusione sulla crosta terrestre, quanto perché la loro concentrazione, pur nelle zone di massima presenza, è assai bassa. A titolo di confronto: la quantità stimata di terre rare sulla Terra è circa 200 volte maggiore del totale dell’oro stimato. Già l’oro richiede processi di separazione dalle rocce che lo contengono in minime concentrazioni tali da generare enormi sconvolgimenti nei luoghi deputati alla sua estrazione, aggravati dall’uso di sostanze chimiche aggressive, col concreto pericolo di inquinamento delle falde acquifere. Se poi passiamo a considerare le terre rare, la quantità di rocce da frantumare e poi trattare per separarne le loro minute frazioni, è ancora superiore a quella delle miniere aurifere. Il costo energetico ed ambientale della sola frantumazione delle rocce incide già in partenza in maniera drastica sul costo del processo e quindi del materiale ricavato.

 

Nel trasferire altrove la responsabilità ambientale, 

i Paesi occidentali hanno gradualmente rinunciato 

alla propria sovranità mineraria, divenendo sempre

 più dipendenti dalle importazioni.[VEDI]

L’Occidente ha preferito trasferire la produzione, 

e l’inquinamento ad essa associato, oltre che

 la complessa gestione dei rifiuti, nei Paesi più

  poveri [e schiavisti] dove le norme ambientali 

[e lavorative], se ci sono, sono quasi sempre 

eludibili. [VEDI]

 

A volo d’uccello, sul pianeta i due grandi poli dove si trovano i giacimenti, pur così diluiti, di terre rare e di cobalto sono rispettivamente la Cina e il Congo. La Cina detiene ben il 97% della produzione di terre rare. Non solo: è ancora la Cina ad operare la più grande miniera di cobalto in Congo, mentre parte delle numerose altre miniere del prezioso metallo sono nelle mani di bande senza scrupoli. Da notare di sfuggita che proprio la relativa ricchezza delle miniere di cobalto congolesi ha a che fare con la recente imboscata e uccisione del nostro ambasciatore Attanasio.

Ciò detto, resta da sottolineare come terre rare e cobalto siano componenti irrinunciabili di tutto quanto di informatico e digitale ci circonda, dai telefonini ai tablet, dalle batterie per le auto elettriche ai pannelli solari, dai generatori delle pale eoliche ad un’infinità di altri usi hi-tech. Con l’aggiunta, non trascurabile, del carico aggiuntivo di rifiuti, vista l’obsolescenza programmata di tutti i dispositivi elettronici, con l’ossessivo cambio di modelli, onde non far declinare il business dei loro fabbricanti. Il riciclo dei metalli rari in essi presenti è quanto mai problematico, a causa delle loro infime concentrazioni, anche se lo sprone a sganciarsi dalla dipendenza cinese sta cominciando a dare qualche frutto: ad es. Apple ha in programma il riciclaggio dei suoi dispositivi, cellulari in testa, per riciclare il loro contenuto di terre rare. 

Produzione mondiale di terre rare. La Cina ne ha preso il monopolio in quanto è l’unica nazione che accetta l’inquinamento alle stelle della loro estrazione, nonché condizioni di lavori schiavistici, inaccettabili nelle nazioni occidentali. “Le terre rare sono ovunque, ma l’impatto ambientale è devastante. Solo la Cina le estrae, poiché è disposta a barattare la salvaguardia dell’ambiente e la salute con il guadagno”.  [VEDI] Analoga la situazione in Congo per quanto concerne l’estrazione di cobalto

L’indispensabilità delle terre rare in una miriade di dispositivi digitali ha finito col consegnare alla Cina una potente arma di ricatto, come abbiamo visto nel braccio di ferro tra USA e Cina quando la prima, col presidente Trump, tentò di interdire la penetrazione del 5G di Huawei nel mercato americano. Era un sovranismo giustificato dalla tutela dell’industria domestica, ma è ormai superato dalla nuova amministrazione Biden, tornata nel solco globalista.

 

Mongolia: Lago tossico artificiale, creato con le scorie della lavorazione delle terre rare [VEDI]. (Da un reportage del 2015 della BBC). Si noti l’appellativo “distopico” per qualificare il lago, “riempito dalla libidine tech del mondo”

A fianco del lago, una miniera di carbone: combustibile usato senza preoccupazione nella costellazione di centrali che circondano la zona. In questo inferno non avrebbe davvero senso una centrale a gas…

Quanto all’Africa, la sua ricchezza di materie prime, tra cui cobalto e altri metalli rari, uranio, oro e diamanti, in aggiunta a quelle più tradizionali, come petrolio e gas, ha richiamato sul continente nero quasi tutte le nazioni occidentali –e da decenni anche la Cina- per lo sfruttamento dei suoi giacimenti. Si tratta in pratica di un continente occupato e soggetto all’avidità di predatori stranieri, che lo impoveriscono e costringono schiere di giovani senza speranza a cercare altrove una vita meno grama, sull’altra sponda del Mediterraneo.

Ma per restare in Italia, e nello specifico in provincia di Savona [VEDI], c’è da anni un balletto di permessi e dinieghi sulla concessione data dalla Regione allo sfruttamento nel Parco naturale del Beigua di un giacimento di rutilo, minerale ricco di titanio, altro metallo prezioso per le sue caratteristiche fisico-chimiche. Il potere lontano concede, gli abitanti vicini rigettano. Al solito, si vogliono i prodotti, ma non il connesso inquinamento: meglio acquistarli da qualche Paese straniero. Abbiamo fatto così per decenni; e adesso ci ritroviamo succubi, direi quasi sudditi, di quanti ci hanno sinora sollevato dalla presenza scomoda (e penalizzante in termini di voti) di fabbriche, liquami, fumi, rumori. Con la conseguente contraddizione che, senza fabbriche, non c’è lavoro. E le fabbriche “pulite” producono merci troppo care: il solito dilemma “inquinamento o disoccupazione”, intorno al quale scrivo da 50 anni. E delegarne la produzione all’estero lascia il pulito qui e lo sporco là, ma perdiamo, oltre alla sovranità monetaria, anche quella materiale.   

 

In Occidente ci preoccupiamo dei danni (eventuali) alla nostra salute causati dalle radiofrequenze dei cellulari; ma non sappiamo quali danni ben più gravi (e certi) gli stessi provochino agli schiavi che estraggono i loro componenti a migliaia di km da noi: un killeraggio a distanza per i nostri piaceri e il nostro asservimento come nazione ad altre: nessuno dà niente per niente

E qui si innesta la domanda cruciale: visto che nessuna nazione europea vuole accogliere schiere di maschi africani (le donne sono un’esigua frazione) culturalmente lontanissimi dal nostro modo di vivere, che pure li attrae per i vantaggi materiali che pensano di trovare qui, saremmo disposti, pur di fermarne la progressiva invasione illegale, a rinunciare a tutti i sunnominati apparecchi della nostra frivola modernità, che scatenano tante fughe dall’Africa e ci rendono dipendenti dai ricatti cinesi? Saremmo disposti a rinunciare alla problematica “svolta verde”, visto che essa è assai meno verde di quello che vogliono farci credere, e che ci rende sempre più dipendenti da quanto abbiamo sinora dato per scontato e dai ricatti di nazioni terze? 

La stessa Toyota, fabbricante di auto elettriche, mette in guardia dall’eccessivo entusiasmo per la loro sostituzione ai motori tradizionali [VEDI] (anche al netto della secolare avversione dei giapponesi verso i cinesi, dai quali non vorrebbero dipendere per forniture così strategiche). 

Un’auto elettrica all’ultimo grido. Considerata la quantità di terre rare che contiene, a partire dalla batteria, sarebbe questo il fiore all’occhiello del green deal?

La risposta sarebbe naturalmente un coro di NO. Ma allora non lamentiamoci del rovescio delle medaglie che ci teniamo strette, e rassegnamoci ad ospitare, a nostre spese, barconi e barchette cariche di clandestini e ad inginocchiarci al cospetto delle nazioni che ci vendono quanto così affettuosamente vogliamo tenerci stretto. Non ci sono vie d’uscita diverse. L’attuale (in)civiltà procede in ogni ambito all’insegna del disprezzo della vita, segando ogni giorno di più il ramo su cui trionfalmente siede. E i nostri buonisti e vibranti antifascisti? Si limitano a dire: “accogliamo gli schiavi”, anziché “liberiamoli con le nostre rinunce”. Sto facendo un discorso “pauperista”, tanto odiato dalle élite? Ebbene sì: la Terra ha limiti ben precisi; quindi, o c’è tanto per pochi o poco per tanti. E siamo in tanti, anzi in troppi. Non c’è un pianeta ausiliario.

 

Una pagina di Aliexpress, il negozio mondiale di merci made in China. Qui costa tutto molto meno. Adesso sappiamo perché

Una pagina di Amazon, corrispettivo occidentale di Aliexpress. Il suo CEO, Jeff Bezos, si gioca il blasone di uomo più ricco del mondo con Elon Musk. Il suo “segreto”? Turni massacranti e paghe da fame per i suoi dipendenti, all’insegna del più bieco vetero-capitalismo. In più, merce pagata all’osso. Ormai abbiamo imparato come si fa a tagliare costi e prezzi: basta comprare da nazioni schiaviste e senza scrupoli ecologici e poi lesinare brutalmente su numero e paghe del personale [VEDI]. 

Dipendenti Amazon in sciopero. Qui non siamo in Cina e si può ancora scioperare. Col Covid il volume d’affari è raddoppiato, ma non certo il numero di addetti. Quanto alle tasse, le grandi aziende hanno sedi in nazioni compiacenti, persino dentro l’UE (Lussemburgo, Malta, Cipro), mentre su salari, stipendi e pensioni lo Stato raccoglie esosamente quanto perde dalle corporation 

 Se, dopo aver letto quanto sopra, qualcuno ancora crede che la tecnologia possa garantire ad una popolazione in crescita sinora inarrestabile standard di vita accettabili e un ambiente al riparo dai nostri saccheggi e sconquassi, bisogna concludere che le favole per adulti riescono ancora a fare presa attraverso i moderni alfieri del #celafaremo e #vatuttobene.

  Marco Giacinto Pellifroni         14 marzo 2021 

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