Valori e simboli di una sinistra allo sbando

 Die Umwertung aller Werte

Valori e simboli di una sinistra allo sbando

 Die Umwertung aller Werte

Valori e simboli di una sinistra allo sbando

Il buonismo untuoso cattocomunista in combutta col buonismo spocchioso radicalcomunista e il buonismo affaristico massocomunista (dove masso sta per massone) ha operato l’unica vera rivoluzione nella storia del nostro come di tanti altri Paesi. Una rivoluzione culturale, niccianamente una Umwertung aller Werte, un rovesciamento di tutti i valori che ha svuotato di senso la fede religiosa, ha illuminato di una luce sinistra il concetto di solidarietà, ha ridicolizzato l’amor di Patria – ha fatto di più: ha cancellato la parola patria –, ha istituzionalizzato l’omosessualità, ha espunto dai testi di psichiatria le perversioni sessuali, ha criminalizzato la famiglia, ha incoraggiato l’aborto ma ha promosso la fecondazione artificiale, ha  sottratto il concepimento alla sua dimensione naturale per farne oggetto di tecnologia biomedica; ha fatto insomma della mente e del cuore delle persone dei recipienti vuoti da riempire con le mode del momento e da tenere a bada con una buona dose di cloroformio.


Ma non ha spezzato del tutto i legami col passato; ha buttato nel cesso (pardon: alle ortiche) tutta la letteratura “di sinistra”, da Comte a Owen, da Fourier a Marx. fino a Gramsci, Lenin o  Althusser, ma ha conservato gelosamente  le buone pratiche del comunismo sovietico e dei partiti fratelli: la demonizzazione del dissenso e della critica, il rifiuto del confronto dialettico, la manomissione dei fatti e la loro sostituzione  con la “narrazione”, la cristallizzazione  del giudizio storico e la sua trasformazione in Verbo, il ricorso sistematico alla menzogna, alla dissimulazione, alla calunnia, alla corruzione, alla minaccia e, quando possibile, alla eliminazione fisica dell’avversario, il tutto coronato dal meccanismo della proiezione, vale a dire dell’attribuzione all’altro dei propri atteggiamenti, delle proprie intenzioni e dei propri metodi. Come quando nel dopoguerra il Pci martellava i democristiani con l’epiteto di “forchettoni” aspettando il momento di sedersi a tavola.


Comte, Fourier, Marx, Gramsci, Lenin  Althusser

All’interno di questa cultura è possibile aspettare con ansia che le borse crollino e lo spread salga fino a limiti insopportabili per poter attaccare il governo; è possibile rinfacciare ai Cinquestelle il via libera a un’opera ritenuta importante e preziosa, tant’è che si era varata e portata fino a un punto di non ritorno; è possibile accusare il governo di non aver sgombrato un palazzo  di cui si è  non solo consentito ma organizzato l’occupazione; è possibile imputare al governo l’arrivo di (pochi) nuovi migranti quando non solo se ne sono fatti arrivare un milione ma si sarebbe voluto scatenare una sommossa perché si sono chiusi i porti alle Ong e si sollecita un intervento delle Nazioni unite contro l’Italia che ferma l’invasione.È possibile perché in questa cultura non c’è un pensiero, non c’è una logica, non c’è traccia di intelligenza. E non c’è un pensiero, non c’è logica, non c’è intelligenza nel rapporto che questa cultura ha stabilito con la storia, nella “narrazione” che pretende di imporci. Come avevo previsto (ci voleva poco a prevederlo) la sinistra allo sbando, che di questa cultura è figlia, ha rispolverato con non encomiabile sprezzo del ridicolo l’antifascismo, che si cimenta soprattutto nel cercare di impedire qualunque rivisitazione della vulgata. Non vale la pena insistere sulla circostanza che la storiografia ripercorre continuamente il passato e continuamente lo reinterpreta, cerca nuove fonti, passa al vaglio le vecchie, prova nuove prospettive; né vale la pena ricordare che il passato ci appartiene, è patrimonio di tutti, è il fondamento della nostra identità, e la Storia fa giustizia di rancori, odi, particolarismi e supera la dimensione del torto e della ragione.


All’interno di una cultura in cui, dopo quasi un secolo, ci si rifiuta di ammettere che i morti meritano rispetto e vanno considerati fuori dagli steccati che in vita li avevano divisi e messi gli uni contro gli altri, all’interno di una cultura così non c’è possibilità di incontro, si è fuori non solo dalla pietas ma dalla razionalità e dal buonsenso.

Come gli amministratori di quel paesino al confine con la Svizzera, che dopo aver condannato la commemorazione del Duce e minacciato di impedire con qualsiasi mezzo ogni rigurgito (ti pareva!) nostalgico e revisionista, imputano a Mussolini la responsabilità di “milioni di morti”.  La guerra costò all’Italia un doloroso tributo di vittime, in buona parte civili, che furono comunque meno di un decimo rispetto agli alleati dell’asse Roma-Berlino-Tokio; sul fronte opposto, in Francia le vittime civili furono più del doppio, i dati dalla Polonia sono raccapriccianti come quelli di russi e tedeschi. Ma questa contabilità non porta da nessuna parte: sta il fatto che si trattò di una strage di immani dimensioni e che il fardello della responsabilità pesa su quanti l’hanno resa possibile, sulle cancellerie, sulle gerarchie militari, sui potentati locali, sui grandi gruppi industriali e finanziari. Addossarne la responsabilità alla Germania prima e al Giappone dopo è un falso storico; tirare in ballo Mussolini è semplicemente ridicolo. A distanza di tanti anni si chiederebbe una pacata riflessione sugli errori commessi ma anche sulla ineluttabilità di una ridefinizione degli equilibri geopolitici: l’implosione dell’eurocentrismo e dell’imperialismo coloniale era un appuntamento fatale della Storia; ne hanno fatto le spese i giovani fatti a pezzi sotto i colpi delle artiglierie e i civili sepolti sotto le macerie.  Non per niente chi virtualmente è uscito vincitore si è trovato con un pugno di mosche in mano, economicamente distrutto, privato del suo impero mondiale e ridotto al ruolo modesto di potenza regionale.


Chiaramente mi riferisco al Regno unito. E chi avrebbe dovuto essere cancellato dalla carta politica dell’Europa ne è diventato l’arbitro e il signore: proprio quello a cui mirava il suo cancelliere coi baffetti. 

Ma i compagni ci vogliono inghiottiti nel buco nero della loro ignoranza, del loro livore, della loro stupidità. Ignoranza e stupidità che non sono certo una loro esclusiva, anche se sono indubbiamente una loro nota caratteristica. A far loro concorrenza ci pensano quelle frange di una destrache confina in modo sospetto con l’ultra sinistra filo palestinese  e si esercita a sminuire o addirittura  negare  l’olocausto, giocando ancora una volta sui numeri, come se fosse importante fissare in 3 milioni piuttosto che in 7 il numero di quanti non uscirono vivi dai lager tedeschi.  Nessuno ha mai commesso crimini in nome della legge mosaica, le minoranze ebraiche non hanno mai costituito una minaccia per i Paesi che le hanno ospitate, gli ebrei quando è stato loro consentito si sono perfettamente integrati nel tessuto sociale. L’antisemitismo è un’eredità cristiana rafforzata nel suo punto di origine dalla tradizione romana e alimentata dall’invidia sociale. Curiosamente però, mentre si usano i campi di sterminio contro i ragazzi di Casapound o contro la Lega, si foraggiano i centri sociali che vorrebbero mettere Israele in forno (esortazione sbandierata in uno striscione che campeggiava un paio d’anni fa durante la kermesse della piccola Venezia livornese) e si dimentica che la caccia all’ebreo la fanno i palestinesi non i cosiddetti neofascisti.

A proposito di partigiani e della loro associazione. A 73 anni dal 25 aprile del ’45, quando la generalità di quanti parteciparono alla guerra civile (ma chiamiamola pure lotta di liberazione) sono passati a miglior vita e i superstiti hanno passato la novantina, sarebbe l’ora di chiudere quella pagina di storia, quale che sia il giudizio se ne dà.


Non sto contestando il diritto a mantenere la memoria di una propria esperienza: i reduci lo hanno sempre fatto. Ma si tratta, appunto, di memoria, e per i diretti interessati, di nostalgia. Ma la pretesa di essere partigiani per sempre, con la cartucciera e il fucile in spalla  da puntare contro il fascista di turno è una cosa fuori del mondo.  Ed è anche fuori del mondo non festeggiare la vittoria e festeggiare una disfatta.Saggiamente gli inglesi non santificano eventi del passato, che non si sottraggono mai ad un certo grado di ambivalenza e spesso sono strumentalmente amplificati e distorti. Gli americani rendono omaggio ai morti in tutte le guerre, compresa la guerra civile, e, il 4 luglio, festeggiano l’Indipendence Day, quando si concluse vittoriosamente la ribellione contro re Giorgio delle tredici colonie inglesi d’America, che si eressero a Stati indipendenti. Con minore fondamento storico ma con un grande significato simbolico i francesi hanno fatto della presa della Bastiglia, famigerato e odiatissimo carcere  considerato la rappresentazione fisica del potere e della repressione, l’origine della liberté, égalité, fraternité; poco importa se  l’episodio in sé non ebbe niente di eroico e si risolse con la liberazione di sei o sette delinquenti comuni una volta scannati direttore e guardie del carcere. Ma nessuno in Francia va a cercare il pelo nell’uovo: quello è il simbolo dell’affermazione dei diritti sui quali si fonda la république, basta, su di esso tutti i francesi sono d’accordo.

Ma questo a noi non è dato.  Andrea Romano ha candidamente – o spudoratamente – riconosciuto che la funzione del 25 aprile è proprio quella di perpetuare la divisione, non di favorire l’unità, nel Paese. Da una parte i buoni, da quell’altra i reprobi. E guai dimenticare che i reprobi  sono fra noi, che si riproducono, che sono pronti a mettere sotto scacco la nostra democrazia. I reprobi, ça va sans dire, sono i fascisti, i morti-non morti, gli zombi sopravvissuti al 25 aprile, all’anagrafe e alla mattanza, che usciti dai loro covi, dai cimiteri o dalle fogne sciamano con le loro orbite vuote per le vie e le piazze delle nostre città. Del resto Romano lo ha detto: il fascismo non è un episodio, non appartiene alla storia, il fascismo ha una dimensione metastorica, è una categoria dello spirito, è il non-io fichtiano, è sempre lì, in agguato, e per fortuna sono sempre lì anche i guardiani della democrazia, ringraziamo Dio che c’è l’Anpi, che c’è la Cgil, che c’è il Pd, che alzano un muro contro i reprobi, i morti-non morti, contro il Male.  

In altri tempi era la reazione in agguato, pronta a bloccare ogni tentativo di cambiamento, a stroncare ogni sforzo del proletariato per liberarsi dalle sue catene. Oggi, per il compagno Romano, il pericolo è proprio il cambiamento, che è un salto nel buio, un attentato alle tasche dei risparmiatori e un pericolo potenziale anche per le sue.

La costituzione. È un valore? È il fondamento dello Stato, l’origine e la sorgente dei diritti? Basta con la retorica e le sciocchezze. La costituzione è un atto che definisce la forma di governo; un atto reso possibile dalla presenza di uno Stato, non è esso che fonda lo Stato; la costituzione è un frutto della democrazia, di un accordo fra partiti, non è la democrazia frutto della costituzione.  La costituzione, per esempio, stabilisce che ci siano due camere legislative ed assegna alle regioni una parte di potere legislativo; stabilisce i criteri con i quali vengono eletti deputati e senatori e il loro numero, fissa il numero delle regioni ed assegna ad alcune di esse uno statuto speciale; non fonda lo Stato ma ne definisce le peculiarità organizzative in modi che possono essere modificati senza che l’edificio dello Stato crolli. Al di là di questa funzione “tecnica” riprende i principi comuni a tutte le democrazie occidentali, dalla libertà di associazione, di espressione, di stampa, di confessione religiosa e così via.

 La resistenza è un valore? È legittimo farne un mito? La retorica patriottica ha una sua nobiltà. Questa no, è retorica insulsa e interessata. La resistenza è un episodio, importante quanto si vuole, della nostra storia recente.


Un episodio che ha risvolti positivi e negativi. Positivi per il contributo che i nostri soldati con la divisa del regio esercito  e i partigiani “bianchi” hanno dato  alla riunificazione nazionale dopo la lacerante divisione fra il regno del sud e la repubblica del nord e per impedire che quella angloamericana fosse a tutti gli effetti un’occupazione militare; negativi per quelli che sono stati il tentativo di estendere a tutto il nord il modello comunista  della val d’Ossola e, peggio ancora, la volontà di consegnare agli slavi il Friuli-Venezia Giulia dopo che si erano già impadroniti dell’Istria e della Dalmazia. Perché questo era l’obbiettivo delle brigate Garibaldi. 

I “valori” della resistenza mi  riportano alla mente l’oro di Dongo finito nelle casse del Pci e nelle tasche dei compagni.Un valore sono il paesaggio naturale e la sua tutela; un valore sono le testimonianze del passato e la loro custodia; un valore è l’arte, un valore è la bellezza; un valore, anzi, la somma di tutti i valori, è la persona, quella che il comunismo, la plutocrazia, il consumismo vorrebbero risolvere nella massa. Ma nella rivoluzione valoriale della sinistra è un valore l’antifascismo, predicato e urlato da chi del fascismo storico non ha la più vaga cognizione. Ha ragione chi sostiene che il frutto più amaro del ventennio mussoliniano è proprio l’antifascismo, una gramigna che non si riesce ad estirpare e continua a ottundere le coscienze e a impedire un sereno dibattito politico intorno a questioni reali. 

Le vere rivoluzioni sono spesso restaurazioni, sono il recupero di beni perduti, perché il futuro si nutre del passato.


Ho spesso insistito sulla responsabilità storica di Salvini e di Di Maio – ai quali aggiungerei Conte – e intimamente punto tutto su di loro piuttosto che sugli apparati o quelle centinaia di nullità che compongono la maggioranza parlamentare. Mentre scrivo mi arriva la voce di una parlamentare (europea) grillina e istintivamente volgo lo sguardo e presto attenzione alle sue parole. Non me la sento più di scherzare sulla scarsa dimestichezza con la lingua, con l’evanescenza delle argomentazioni (il tema è il decreto sicurezza appena varato dal senato), sul vuoto mentale che traspare dall’espressione inebetita. C’è poco da ridere: è una tragedia; il livello culturale, intellettuale, etico e politico del nostro parlamento è a dir poco imbarazzante e all’interno della maggioranza può creare dei problemi. Mi auguro che al più presto ci si decida, mantenendo il bicameralismo, a ridurre drasticamente il numero dei parlamentari e i loro emolumenti e a stabilire dei filtri che impediscano a sprovveduti semianalfabeti di ergersi a rappresentanti del popolo. Per concludere: l’hanno fatto con Veronica Lario, ci hanno provato, e gli è andata male, con Melanie Trump; ora tocca alla Isoardi. I democratici nostrani e d’oltre atlantico non perdono il vizio. D’altronde meglio questo che i suicidi alla Gardini o i voli dalla finestra della banca.

  Pier Franco Lisorini

    Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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