Una nuova biblioteca per il “Patetta” di Cairo

Una nuova biblioteca per il “Patetta” di Cairo

È una buona notizia, e va data e riconosciuta come tale, perché aumentare la fruibilità dei libri e dotare questi di spazi decenti e accoglienti è opera meritoria e salutare per la società.

Una nuova biblioteca per il “Patetta” di Cairo

 Mercoledì 8 novembre è stata inaugurata la biblioteca dell’Istituto Commerciale Patetta, a Cairo. In realtà ne è stato inaugurato il restauro, l’ampliamento e l’abbellimento. C’è stato un finanziamento della fondazione “De Mari” e ci sono stati docenti e ragazzi volenterosi che hanno messo le mani in pasta, per (a quanto leggo) stimolare un rinnovato interesse per la lettura.

 È una buona notizia, e va data e riconosciuta come tale, perché aumentare la fruibilità dei libri e dotare questi di spazi decenti e accoglienti è opera meritoria e salutare per la società.

Mi piace molto l’idea di coinvolgere i ragazzi nelle scelte dell’arredamento, nell’esecuzione dei murales che abbelliscono i muri, forse (immagino) anche nelle scelte dei titoli da acquisire. È l’unico modo per far sì che gli studenti sentano questo luogo come un territorio fisicamente di loro competenza, proprietà e dunque di cura e coltivazione.


Il confine tra uso e abuso è sempre sottile: da un lato sarebbe auspicabile la più completa autogestione, le porte sempre aperte, il massimo della condivisione e della fruibilità; dall’altro si sa fin da subito che occorre una certa sobria vigilanza, perché per colpa di pochissimi marinai, talvolta si rovina il porto.

Se dovessi sognare una scuola (di sogni stiamo parlando, e sogni da incompetente) mi viene in mente il liceo Chiabrera di Savona nei primi anni dalla sua fondazione (1860) e fino al trasferimento della sua sede (1912): “Come è noto il liceo G. Chiabrera di Savona ebbe la sua prima sede nel cuore dell’antica Savona, in un edifizio affacciatesi su una di quelle tre piazze che costituivano allora, come già nei secoli del medioevo, il centro commerciale della città. Si apriva infatti in piazza delle Erbe, come quelle della Canapa e di Pescheria, a pochi metri dalle banchine, i toponimi ne attestano la funzione commerciale, differenziata e specializzata”. Certo che questa pittoresca sistemazione dava non pochi problemi, tanto che lo stesso preside Beneduschi si lamentava così con il sindaco per il rumore: “… D’allora nulla è mutato, anzi, essendo triplicata la popolazione della città, la molestia è divenuta intollerabile, e l’opera dei vigili urbani stessi, che talora intervengono, riesce inutile o insufficiente perfino a far tenere sgombro (e non si pretenderebbe anche pulito) l’androne” (citato da Davide Montino in “Quelli che il classico” ed. Selene, 2004).


L’immagine che deriva da queste due citazioni è quella di una scuola compenetrata profondamente dalla città, dal suo tessuto commerciale, umano e sociale. Una scuola che ospita (presumibilmente) nell’androne contadini e mercanti, accattoni e girovaghi, che vanno regolarmente sgombrati. Una scuola in cui sarebbe stato impossibile insegnare con quella calma e concentrazione dovute. Allo stesso tempo, però, mi vien da dire che una scuola perfetta e incorrotta finisce per essere solo e splendidamente teorica, e non sentita, non avvertita sufficientemente dalla gente, dagli abitanti della città, del paese, del territorio dove la scuola sorge.

Sarebbe bella (un sogno, lo so) una scuola al centro della città, aperta per ogni dove a tutti, in cui i docenti governano e conducono, ma dove lo scambio con la vita reale, con l’esperienza quotidiana del commerciante, dell’artigiano, dell’operaio, fa parte del bagaglio quotidiano di scambio e di indagine, a completare lo studio teorico delle materie.


Scuola come edificio parte integrante, fondativa di un paese, di una cittadina, sempre aperta. Vero centro culturale, punto di riferimento per ogni appassionato di studio e di approfondimento, dove, oltre alle sacre lezioni previste dalle norme ministeriali, trovano spazio seminari organizzati dagli studenti, corsi e incontri con le persone più diverse, disposte a loro volta a sedersi nell’aula come studenti. Mettere assieme fisicamente le idee potrebbe sviluppare fermenti e passioni (di non facile gestione, peraltro) capaci di generare la caratteristica più importante per la cultura: la passione per apprendimento, per l’insegnamento e per lo scambio.

Sogno questo edificio sempre aperto, sempre illuminato, sempre riscaldato e presidiato da persone silenziose, sobrie e irremovibili, un edificio/istituzione che per funzionare ha bisogno di un regolamento basilare, brevissimo, ma rigoroso. Poiché i regolamenti articolati e macchinosi lasciano spazio a interpretazioni e tolgono autorevolezza al luogo e a chi lo deve presidiare.

E così sogno della biblioteca, e non solo scolastica. Giribone (il buon bibliotecairo mi diceva (riguardo alla civica di Cairo): teniamo chiuse certe sale perché seenò finisce che ci vanno i giovani a baciarsi. Ma che bello! Pensavo: un par di ragassuoli che, non sapendo dove imboscarsi, se ne vanno in biblioteca, in qualche fondo speciale, in qualche stanza remota e poco visitata. A me non scandalizza affatto. Anzi: penso che quei due ragassuoli, una volta cresciuti, serbino insieme al ricordo di quel perduto amore adolescenziale, anche un felice ricordo di libri e scaffali. E a forza di darsi appuntamento in biblioteca, chissà che prima o poi, a causa del solito ritardo di lei, lui cominci svogliatamente a sfogliare un libro a caso, scoprendo poi che tutto sommato, leggere non è così male, soprattutto quando si aspetta la desiata fanciulla.

       ALESSANDRO MARENCO

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