Un RACCONTO breve di Massimo Bianco: La signora dei treni e dei piccioni.

Un pomeriggio aspettavo il treno da Torino su cui viaggiava la mia famiglia, di ritorno da una settimana di vacanza a Parigi e a Disneyworld. Alcuni piccioni si muovevano indisturbati tra le gambe dei presenti. Ogni tanto guardavo l’ora, spazientito. Tanto per cambiare l’interregionale era in ritardo. I minuti trascorrevano e intanto i colombi aumentavano di numero. Infine un vero e proprio stormo atterrò, in un gran sbatter d’ali, nella zona dove mi trovavo. Mi guardai attorno perplesso. Gli uccelli zampettavano placidi a dozzine lungo il marciapiede del mio binario, lasciando deserte tutte le altre banchine e ignorando la gente in attesa. Ma perché? Non pareva esserci nulla lì, per loro. Poi il treno arrivò a destinazione, uno dei miei figli si sbracciò dal finestrino gridando un allegro saluto e non ci pensai più.

In quell’occasione, oltre all’assembramento di volatili, in stazione avevo notato anche due persone fuori posto, un vecchio e un quarantenne in abiti logori. Sbocconcellavano un panino, di certo acquistato nella rivendita interna, ma parevano sfaccendati. Il motivo della loro presenza lo scoprii in seguito. In un epoca di crisi economica, in cui sempre più gente finiva in mezzo alla strada, le ferrovie rappresentavano un rifugio per molti barboni. Me lo raccontò un amico ferroviere, capotreno nel nord Italia. Per avere un riparo sicuro, bastava abbonarsi a una linea qualsiasi, economizzando parecchio rispetto all’affitto di un appartamento con annesse spese condominiali, di luce e di gas. Viaggiando avanti e indietro per l’intero arco della giornata lungo la tratta prescelta, nessuno li poteva cacciare. Inoltre, siccome al capolinea, il mattino presto, alcuni convogli programmati erano già pronti in attesa,  avevano anche modo di dormire tranquilli, salendo a bordo in anticipo sull’orario di partenza. E quanti oggetti venivano abbandonati o dimenticati dai passeggeri, cibi avanzati ma ancora utilizzabili, libri e riviste da leggere, abiti in buone condizioni da indossare, oggetti vari da rivendere, tutti prodotti che per quei poveri diavoli rappresentavano un’autentica manna.

Tempo dopo fui io a dovermi assentare. Un corso d’aggiornamento a cui non mi potevo sottrarre mi chiamava a Torino, con pernottamento in hotel pagato dalla ditta. Per un intero mese in famiglia mi avrebbero visto solo nei fine settimana oppure in eventuali scappate occasionali. L’istituto in cui si svolgevano le lezioni era a due passi dalla stazione di Torino Porta Nuova, perciò preferivo viaggiare in treno piuttosto che in auto, risparmiando così una discreta cifra.

Giunto per la prima volta nel capoluogo piemontese, scesi a terra e notai centinaia di piccioni davanti alla carrozza successiva alla mia, come se fossero in attesa di qualcuno. Sembrava che tutti i membri locali di quella specie si fossero raccolti lì, cosicché la gente per passare doveva letteralmente scansarli. Il fenomeno si ripeté il venerdì sera in cui mia moglie mi fece la bella sorpresa di  raggiungermi a Torino: una buona occasione per fare shopping e turismo in una grande città. Andai a prendere lei e i ragazzi in stazione e vi trovai l’intero stormo, che occupava in parte la banchina del binario 8 e soltanto quella. Appena in lontananza apparvero le luci del locomotore, per una volta in perfetto orario, i colombi presero ad agitarsi, frenetici. Subito mi tornarono alla mente le mie precedenti esperienze in materia. Non ne capivo il significato, per me quelle scene rappresentavano un vero arcano. Dopo esserci ritrovati, ci trattenemmo però in saluti e abbracci e la breve sosta portò con sé la parziale soluzione dell’enigma. Per ultima, infatti, quando già tutti gli altri passeggeri si erano allontanati, dallo stesso vagone da cui erano scesi i miei sbucò un’anziana signora male in arnese. Piccola, magra, ingrigita e ingobbita com’era, dimostrava circa settanta anni. Ebbi però la sensazione che le vicissitudini della vita l’avessero invecchiata precocemente e non ne avesse più di sessanta. Appena mise piede a terra, i pennuti le si accalcarono intorno urtandosi l’un l’altro e lei estrasse un pacco da sotto l’ampio vestito, lo aprì e prese a distribuire cibarie.

“Su, su, state calmi, non fate così, ce n’è per tutti. Piccioncin, piccioncin, simpatici piccioncin. Ecco, bravi, buona la pappa, vero?” Cantilenò costei con voce rauca, interrotta a tratti da qualche colpo di tosse.

Al suo apparire sul predellino, era parsa una donna atavicamente stanca e affranta, eppure quando si era vista circondare le si erano illuminati gli occhi.

Mi parve ovvio che i pennuti aspettassero ogni volta lei. Ma come facevano a sapere in anticipo che sarebbe arrivata proprio con quel treno? Sembrava impossibile, tuttavia i fatti parlavano da soli: chissà come sentivano che si stava avvicinando e si riunivano.

Tempo dopo mi capitò di parlarne col mio amico capotreno.

“Oh sì, ci ho fatto caso già da alcuni anni” – mi spiegò costui – “non perdono mai un appuntamento, puntuali come un orologio svizzero.”

“Ma lei chi è?”

“Solo una barbona come tanti altri. Ricordi che una volta te ne ho parlato? In giro per l’Italia ce n’è più di quanti si creda, ma è tutta gente con una propria dignità, che si sforza di mantenersi pulita e in ordine. Lei in pratica vive sui treni, senza mai dare fastidio né chiedere niente a nessuno. Era una madre di famiglia e lavorava, così almeno mi hanno riferito. Doveva avere una vita molto piena, poi però le è accaduto qualcosa ed è finita qua.”

La visualizzai come mi era apparsa l’ultima volta che mi era capitato d’incrociarla, diretta con aria avvilita ai servizi della stazione con indosso il solito pastrano, assorta in chissà quali cupi pensieri. Mi venne spontaneo chiedermi quale tragico destino l’avesse ridotta così, poi però tornai all’argomento che mi affascinava.

“Viaggia sempre con lo stesso treno, dunque?”

“Niente affatto. Non ha orari fissi, eppure loro sanno sempre quando sta per giungere. Quando li vedo planare da tutte le parti e raggrupparsi, so con certezza assoluta che è in arrivo.”

Mi accadde altre volte di scorgere l’anziana signora dei treni e dei piccioni, sempre più grigia, ingobbita, sciupata e tossicolosa. Ogni volta i “suoi” animali l’attendevano puntuali e altrettanto puntualmente venivano sfamati. Sapevo che accadeva con regolarità sia a Torino sia all’estremo opposto della linea, cioè a Savona. Non erano gli stessi, ovviamente, ma “colleghi” accomunati dall’istinto. 

Un giorno avevo tempo a disposizione e mi trovavo per caso in stazione mentre già i primi colombi cominciavano a raccogliersi, così pensai di trattenermi per osservare la pantomima. Li vidi però frementi, mentre di solito finché lei era lontana apparivano piuttosto tranquilli, e sentii che qualcosa non quadrava. Presto altri ne arrivarono, ma si misero a loro volta a svolazzare senza requie e io provai l’assurda sensazione che fossero tristi. Infine si alzarono in volo tutti insieme e si allontanarono. Il marciapiede rimase deserto, a parte pochi viaggiatori in attesa. Disorientato, mi fermai ad aspettare e quando, dieci minuti dopo, giunse finalmente l’interregionale da Torino, la vecchia non ne discese. E non la vidi mai più. In seguito chiesi notizie al mio amico ferroviere, che non mi seppe però fornire risposte. Poté solo confermare di non averla più vista neppure lui e che in entrambe le stazioni i piccioni avevano smesso di attenderla.

7 marzo 2014, fine. Massimo Bianco

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.