Un pezzo di vita vissuta

LA STORIA DI MARIANGELA

LA STORIA DI MARIANGELA

Nel prezioso momento in cui il tramonto lascia il tempo all’imbrunire, in cui l’aria accarezza lieve in questa sera d’inizio autunno, è difficile imbrigliare i pensieri, ingannare i ricordi. Immagini oramai sfocate eppure intensamente cesellate nell’animo ti travolgono improvvise. Senza che gli argini della razionalità possano alcunché. In questa sera d’inizio autunno è il volto di una donna di nome Mariangela che non vuole tornare nel silenzioso e misericordioso oblio che anestetizza la mia mente.

Conobbi Mariangela undici anni or sono, quando iniziai a lavorare presso una casa di riposo della mia città. Avevo venticinque anni e la qualifica di Assistente Socio Sanitario appena acquisita, avevo il primo lavoro stabile e non mi sembrava vero di poter lavorare ad appena un chilometro da casa. Lavoravo esclusivamente nel turno di notte, un mondo a parte per chi vive chiuso in un istituto. Prendevo servizio alle otto di sera e rimanevo sola con circa venticinque persone che erano abituate a cenare alle sei di sera e ad andare a letto alle sette. Mariangela viveva in quell’istituto da due anni quando io iniziai il mio rapporto di lavoro. Aveva appena sessantatré anni quando fu ricoverata per volere del suo tutore legale. Io venticinque anni, ai miopi occhi delle convenzioni sociali normodotata, col dovere e col potere di gestire per dieci ore filate venticinque persone. Lei, sessantacinque anni, ai freddi occhi della medicina burocratizzata “incapace di intendere e volere”, succube silenziosa ventiquattro ore al giorno. Diventammo amiche. Lei, medico affermato, ricchissima, unica superstite di una nobile famiglia. Io, semplice O.S.S., unica superstite di una famiglia di contadini. Diventammo amiche. Quando prendevo servizio Mariangela si alzava da letto, mi faceva compagnia raccontandomi le sue infinite paure, i tanti traumi che la avevano portata a vivere con il delirio di persecuzione che solo dosi elevate di neurolettici tenevano a stento imbrigliato. Il suo unico tesoro era una vecchia borsetta nella quale nascondeva appena poteva qualche pezzetto di cibo che poi portava ai due cani e ai tanti gatti che vivevano nel giardino che circondava la casa di cura. Quella borsetta veniva impietosamente perquisita e svuotata regolarmente da alcune colleghe preparatissime sul rispetto delle norme igieniche, assai meno su quello di una persona che non aveva niente altro. Ricordo tante sere, non importava se estive o invernali, in cui io e lei uscivamo insieme a fare due passi “proibiti” nel giardino, ricordo la sua gioia quando distribuiva ai suoi amici animali i croccantini che “contrabbandavo” di nascosto al mio ingresso. La nostra amicizia è durata cinque anni. In un luminoso mattino di maggio Mariangela è morta improvvisamente. Dava fastidio Mariangela, con le sue paure, i suoi discorsi ripetuti mille e mille volte. Non la pianse nessuno e nessuno andò alle sue esequie. Non ci andai nemmeno io, da sempre credo che le Persone vadano rispettate da vive piuttosto che omaggiate da morte. Eppure Mariangela stasera in qualche modo che trascende la ragione, è presente. Oggi non esiste più la struttura in cui ho conosciuto e condiviso un pezzo di vita con questa persona. Ha chiuso due anni e mezzo fa e adesso è un guscio vuoto circondato da un bel giardino incolto. Si dice talvolta che i luoghi conservino l’essenza di chi vi ha vissuto, forse gli alberi ricordano ancora due persone, diverse eppure tanto simili, che passeggiano parlando fitto fitto di nulla e di tutto.

Giovanna Rezzoagli

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