Un peccato benedetto

<< Il Signore parlò a Mosè dicendo: – Parla ai figli d’Israele dicendo: Se una donna è stata fecondata e partorisce un maschio, sarà impura per sette giorni, come è impura nel periodo della sua mestruazione. Nell’ottavo giorno si circonciderà la carne del prepuzio del bambino, mentre essa rimarrà trentatré giorni nel sangue della sua purificazione: non toccherà nulla di sacro né andrà al santuario fino a quando non si sia compiuto il periodo della sua purificazione.

Se partorisce una femmina, sarà impura per due settimane, come nel periodo della sua impurità, e rimarrà ancora sessantasei giorni per il sangue della purificazione.

Terminati i giorni della purificazione per il figlio o per la figlia, porterà al sacerdote, all’ingresso della tenda del convegno, un agnello dell’annata per un olocausto e un colombo o una tortora per un sacrificio espiatorio. Il sacerdote ne farà l’offerta al cospetto del Signore, compirà per lei il rito dell’espiazione e sarà pura dal flusso del suo sangue – >>. ( Levitico 12, 1-7 )

Decodificando, si constata come l’autore biblico si preoccupi di dare delle direttive volte ad instillare un sentimento di colpa per la nascita provocata. Suonerebbero altrimenti assurde le ingiunzioni di chiederne una sorta di perdono attraverso il sacrificio di animali.

Il sacrificio di animali è un modo sostitutivo di pagare la colpa. Al posto dell’uomo paga l’animale. L’uomo ha commesso qualcosa di empio, e cerca il rimedio con l’immolare un animale. Questo è il modo che attua per placare Dio. Nel brano biblico infatti si parla proprio di espiazione. E se c’è necessità di espiare, allora si è commesso un peccato.

L’idea che immolare un animale sia un modo di ringraziare Dio per aver avuto un figlio o una figlia, di fronte a ciò, cade. Ma più precisamente di quale peccato si tratta? Ebbene, l’uomo con i sacrifici in espiazione ammette di aver commesso un attentato a Dio. Si rende conto, per quanto confusamente, che generare è competere con Dio. Che è il tentativo di sostituire Dio con il Dio nuovo che al termine del suo sviluppo l’umanità andrà ( fingiamo di credere alla realizzabilità di tale speranza ) a costituire.

Il fatto che la nascita di una figlia implichi un periodo doppio di impurità per la madre, è legato al protopeccato, in cui Eva avrebbe avuto maggiore responsabilità. Tale responsabilità in effetti era facile essere indotti ad attribuirgliela, sia perché era facile vedere specialmente in colei che porta avanti la gestazione, la persona che maggiormente è coinvolta nella generazione del nuovo essere, sia perché le società patriarcali tendono sempre a scagionare l’uomo.

E’ importantissimo comprendere che l’uomo ebraico-cristiano ha bisogno di una legittimazione. La trova ( se la dà ) in frasi fatte pronunciare a Dio quali: << Siate fecondi e moltiplicatevi >> ( Genesi 1, 28 ) o << Io sono il Dio Onnipotente. Cresci e moltiplicati. Nazioni, anzi una moltitudine di nazioni nasceranno da te e dei re usciranno dai tuoi lombi >> ( Genesi 35, 11 ) e varie altre simili. Senza un tale comando, non si potrebbe giustificare la procreazione dal momento che << Con il sudore del tuo volto mangerai il pane >> ( Genesi 3, 19 ), estensivamente significa: la tua vita sarà segnata dalla fatica. Che giustificazione avrebbe l’uomo per coinvolgere nella fatica della vita ( lotta quotidiana per il sostentamento, guerre, malattie,  violenze fisiche e psicologiche, certezza della morte, incertezza del domani, lutti ecc. ) i suoi figli, senza avere da contrapporre a tale fatica almeno un senso, sia pure configurato come comando?

E’ nodale per siffatto discorso indagare come sia possibile che la procreazione venga, nel Pentateuco, vista contemporaneamente come benedizione e come peccato.

Il primo pensiero è che si tratti di un’incongruenza; anzi, di un’incongruenza grave. Ma, a guardar bene, si scopre che non è proprio così: nel loro affrontarsi, benedizione e peccato coabitano in una logica che li coniuga: Mosè, il mediatore tra JHVH e gli ebrei ( chiamiamoli già così anticipando il popolo che in realtà sarebbero diventati ) rivela un Dio il quale benedice l’uomo che si moltiplica, un Dio che vuole ( l’episodio di Onan di Genesi 38, 6-10 sta a dimostrarlo ) che si moltiplichi; un Dio che, essendo “in realtà” in fieri, ha bisogno che l’uomo si moltiplichi per diventare Dio in senso pieno, onnipotente ed eterno. Ma è anche un Dio che ha bisogno che l’uomo non si accorga del suo divino bisogno. Perciò ad ogni nascita vuole che i genitori gli chiedano perdono per avere, essi genitori, dato la vita; e cioè gli rendano omaggio come ad un Dio che già è. Così l’uomo viene fatto accorto di non insuperbire, di non credersi un piccolo dio creatore che può crescere e divenire come Dio.

La teologia cristiana ha intuito che la procreazione è parte fondamentale del protopeccato ( così come ha intuito che a Dio è indispensabile il protopeccato dell’uomo ).

Di questa intuizione ne è conferma la figura di Maria, vergine e madre.

Ella concepisce direttamente da Dio perché egli lo vuole, e non perché lo vuole lei, che semplicemente accetta.  Maria dunque non attenta a Dio, in quanto non cercando la maternità non cerca l’eternità: ecco la vera ragione del suo essere immacolata, del suo essere senza peccato. In lei il cristianesimo ( ma non il cristianesimo protestante, dove infatti Maria non viene venerata e il tema della colpa resta fortissimo ) tenta con buon successo di sanare il dissidio tra ciò che deve essere, il Dio futuro, cioè la natura ( trainata dalla sua parte più consapevole, l’umanità ), e ciò che non può essere altro che come peccato, cioè l’attentato al ( creduto ) Dio presente.

I valori contrapposti della verginità e della maternità, altrimenti inconciliabili, nella religione cristiano-cattolica e cristiano-ortodossa vengono dunque resi compatibili nella figura di Maria, per cui il credente sulla scia dell’esempio di lei, è insieme spinto a procreare ma a non sentirsi forte di questa sua procreazione. Interpretando: se procrea è solo perché Dio lo vuole, perché Dio glielo chiede, perché Dio per tante volte ha ordinato di crescere e moltiplicarsi.

L’unico Dio è JHVH, ed è a lui che si deve obbedienza e rispetto; solo di JHVH è l’onniscienza e l’onnipotenza; solo lui è il padrone della vita e della morte. Per questo << Il Signore parlò a Mosè dicendo: -Consacrami ogni primogenito, chiunque apre la matrice tra i figli di Israele, tanto degli uomini quanto delle bestie, è mio – >>. ( Esodo 13, 1-2 ).

Possiamo tentare ora di considerare l’idea di peccato che appare nel Pentateuco riprendendo la decodificazione del mito riportato dalla Genesi secondo cui è l’uomo stesso che si punisce con la pena che deve scontare per non aver continuato a vivere nella beata ignoranza, senza pensiero del futuro e della morte.  E nei miti, è il caso di ripeterlo, il meccanismo è fare dell’esistente il risultato della profezia, che in realtà è stata adattata all’esistente; essi risultano non spiegazioni causali dell’esistente, ma giustificazioni di esso.

Ebbene, poiché dopo aver raggiunto il livello dell’autocoscienza, l’uomo ha conosciuto la sofferenza, la paura, la morte, il dolore come situazioni e prospettive che gli appartengono, ecco che crea un mito in cui essi vengono giustificati. E attraverso cosa se non l’insubordinazione ad un divieto originario, e un’insubordinazione deliberata per poter essere punita?

Non ci è assolutamente difficile presumere che se il raggiunto livello di autocoscienza avesse portato l’uomo alla felicità, il mito sarebbe stato diverso, perché la felicità medesima sarebbe stata indicata come il premio meritato dai progenitori per aver avuto il coraggio di misurarsi col pensiero al fine di acquistare la conoscenza. O più probabilmente non sarebbe stato creato nessun mito, perché la felicità basta a se stessa e non chiede giustificazioni.

E’ chiaro che tutto questo ci impone di non eludere il significato e la portata esistenziale della triade dolore-male-peccato.

Tentando una sintesi essenzialissima di quanto detto riguardo la scoperta fatta dall’uomo con il protopeccato, potremmo dire in modo indubbiamente astratto, e tuttavia, ci pare, efficace da un punto di vista semantico-comunicativo, che Dio punisce l’uomo perché questi, raggiunta la capacità razionale, lo ha scoperto inesistente, cioè lo ha scoperto Nulla.

Dio ( in realtà il non-Dio, il fantasma di Dio ) lo punisce nell’unico modo che chi non è può punire colui che lo cerca: con la sua stessa inesistenza. Superfluo precisare che a rigor di termini non si potrebbe neppure parlare di “punire”, perché evidentemente l’inesistenza implica la non intenzionalità, e una punizione ha la caratteristica di essere intenzionale.

Dio, dunque, “punisce” l’uomo nel momento in cui quest’ultimo si rende conto che il Dio onnisciente e onnipotente in cui aveva creduto, non è, non è mai stato. Da questo momento l’uomo sa di essere solo. Si sente abbandonato. Abbandonato da un’illusione, ma abbandonato.

L’uomo scoprendo l’inesistenza di Dio, punisce se stesso. Non per il suo errore di aver attribuito l’esistenza a chi ne era privo, ma per l’altro suo errore ( anch’esso sui generis, non avendo la possibilità di pensarlo come tale prima di commetterlo e valutarlo ) di aver scoperto con la verità, anche la sua solitudine.

L’uomo di fronte ad un evento così catastrofico, non riesce a prendere semplicemente atto del dato di fatto. Resta in bilico tra l’accettazione della sua disgraziata scoperta, e la fuga da essa. Allora con un processo di difesa per razionalizzazione, stabilisce che se certamente dovrà ammalarsi, se certamente i suoi figli nasceranno con e nel dolore, se certamente dovrà faticare per far germogliare la terra, e se forse dovrà patire rabbie e angosce, e subire guerre e muoverle, e se solo di tanto in tanto potrà riattingere alla pace del paradiso perduto con una felicità incredula e intrisa di nostalgia, ciò ha la spiegazione nella sua sfida a Dio.

Sfida che consiste essenzialmente nel voler continuare a sussistere nella sequela delle generazioni, per apprestarsi in questo frattempo fino alla fine del tempo, a diventare tramite l’accumulo del suo sapere, quel Dio che delle generazioni e del tempo non avrà più bisogno.

D’altra parte in Genesi 1, 28, oltre a dire: << Siate fecondi e moltiplicatevi >>, si dice: << riempite la terra, soggiogatela e abbiate potere sui pesci del mare, sui volatili del cielo e su ogni animale che striscia sopra la terra >>. L’autore biblico, insomma, non accetta il Nulla se non come punizione divina, e “salva” invece l’esistenza di Dio. Si tratta probabilmente di un calcolo ( l’inconscio, e anche l’inconscio collettivo, sanno fare i calcoli ): l’uomo riesce contemporaneamente a concedersi il permesso di sfidare Dio per diventare come egli pensa sia Dio, e a cautelarsi nel frattempo, vivendo come punizione il male e la morte. Essi, in quanto punizione, sono, secondo la sua strategia psicologico-esistenziale, la prova che si sta pagando la superbia necessaria per questa sfida, per cui gli resta il diritto di continuare la sfida stessa e il diritto di continuare a credere che ci sia una sorta di avversario da sfidare.

Insomma, l’uomo con la cacciata dall’Eden riesce a dare una spiegazione al problema del male e a giustificare una condotta che continuerà ad essere una sfida a Dio. Infatti di Adamo ed Eva si può senz’altro dire che hanno paura, non che sono pentiti. Il loro torto è stato non di sfidare Dio, ma di averlo sfidato senza riuscire a vincerlo.

L’Adamo quantomai rozzo del paleolitico, e l’Adamo più sofisticato dell’età dell’elettronica, scoprono la morte. Il primo sul versante dello sviluppo filogenetico e ontogenetico del pensiero; il secondo ormai solo su quello ontogenetico.

Ciascuno di loro scopre che ci sarà un futuro in cui morirà. E da quando lo sa non è più come gli altri animali. E’ un animale speciale che proprio perché riesce a tener conto anche del futuro, dagli altri animali si differenzia.

Si potrebbe dire, per definizione, che l’uomo è colui che possiede una cognizione temporale quantitativa e qualitativa tale da poter prevedere così in là e così sicuramente nel futuro, da sapere che un giorno il suo futuro si azzererà, e lui morirà.

Anche altri animali hanno una certa cognizione del futuro, ma nessuno di essi nel futuro inserisce l’idea della propria morte. Adamo, a qualsiasi latitudine viva e a qualsiasi epoca appartenga, è scacciato dal giardino di Eden quando nella sua crescita filogenetica ed ontogenetica, giunge al punto di differenziarsi dagli altri animali fino ad essere in grado di scoprire la morte.

Sottolineare che quello dei progenitori è un mito, non corrisponde semplicemente ad individuare il genere letterario cui il testo appartiene, ma è funzionale a comprendere ciò che presumibilmente provocherà resistenza alla comprensione di esso. Un mito, infatti, si differenzia da qualsiasi altro racconto di fantasia, perché la sua specificità è quella di ri-attuarsi. Non di essere ancora attuale ( come può essere il messaggio morale di una favola di Esopo o di Fedro o il messaggio psicologico di una fiaba di Andersen o di Perrault), ma proprio di ri-verificarsi.

Ebbene, se si è generalmente disposti ad accettare la vicenda di Adamo ed Eva come favola, e anzi si riesce non di rado a percepirla come metafora, si è però alquanto restii al passo ulteriore di accettarla come mito. Il farlo significherebbe accettare il suo ri-attuarsi, significherebbe accettare di essere in prima persona i produttori della colpa, e non più soltanto gli eredi di essa.

In fondo l’ereditarietà della colpa è una condanna che, al di là del danno apparente, ci risulta alquanto comoda. Essa si rivela una grande prova dell’astuzia umana: avere ricevuto la colpa in eredità ci appare meno colpevole, molto meno colpevole, di averla commessa e di commetterla ancora.

FULVIO BALDOINO

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.