UN “CAFFE’ FILOSOFICO” AD ALBENGA

UN “CAFFE’ FILOSOFICO”
AD ALBENGA

 UN “CAFFE’ FILOSOFICO” AD ALBENGA

Lunedì, 4 marzo, alle ore 21.00,  sono iniziate le serate filosofiche promosse dall’associazione Iniziativa Laica Ingauna presso il Bar ristorante Fior di Loto, in via Isonzo 12, ad Albenga. Si tratta di un “Caffè filosofico” – il primo, che io sappia, in provincia di Savona -, cioè di un locale aperto al pubblico dove ci si incontra per discutere di temi e di questioni che riguardano, per lo più, il nostro modo di vivere e di rapportarci con il prossimo e con noi stessi nell’attuale  contesto culturale e sociale, ma c’è libertà di scelta sugli argomenti.

 La discussione viene avviata da un filosofo (all’origine fu il filosofo francese Marc Sautet, che ha raccontato questa sua  esperienza nel libro Socrate al Caffè, come la filosofia può insegnare a capire il mondo di oggi, Ponte alla Grazie, 1998), ma saranno poi i partecipanti a portarla avanti e ad approfondire il discorso, che, naturalmente, tutto potrà essere meno che preconfezionato e scontato, se vuol continuare a definirsi “filosofico”. Gli incontri ingauni avverranno con cadenza quindicinale e saranno introdotti e condotti dal prof. Silvio Zaghi.  Il tema del primo incontro è stato “Vergogna e disgusto: le emozioni che dividono”. Il prof. Zaghi ha subito premesso che la sua non sarebbe stata una lezione o una conferenza ma, appunto, una conversazione filosofica nella quale ogni partecipante era invitato a dare il proprio contributo o a chiedere precisazioni e chiarimenti. Certo che il tema scelto è tra i più complessi e coinvolgenti, e implica questioni lungamente discusse e controverse,  dall’antichità classica greca e romana fino ai nostri giorni; ad esempio: in quale misura le emozioni condizionano la nostra volontà? In altri termini, fino a che punto le nostre emozioni, o le  “passioni dell’anima” limitano la nostra libertà di agire?  In quale misura simpatia e antipatia, attrazione e repulsione, gusti e disgusti  orientano i nostri giudizi? E sarebbe veramente auspicabile (ammesso che fosse possibile) eliminare, sopprimere ed estinguere del tutto le nostre emozioni, anche quelle considerate negative come l’odio, la collera, la paura e la tristezza?  “Di fronte alle molteplici strategie elaborate per estirpare, moderare o addomesticare le passioni (e, parallelamente, per conseguire la signoria su se stessi, rendendo coerente l’intelligenza, costante la volontà, robusto il carattere) pare tuttavia lecito chiedersi se l’opposizione ragione/passioni sia in grado di render conto dei fenomeni a cui si riferisce e se sia giusto, in generale, sacrificare le proprie ‘passioni’ in nome di ideali che potrebbero essere veicolo di immotivata infelicità” (Remo Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli, 1994). Ma veniamo all’introduzione del prof. Zaghi: dopo un accenno alla tripartizione platonica dell’ anima (concupiscibile, irascibile e razionale), corrispondente alla tripartizione della società (artigiani e commercianti, guerrieri o custodi,  filosofi) nella  polis ideale, e alla definizione aristotelica della passione come alterazione – talora anche patologica –  dell’anima, secondo l’etimo pathos (da cui il latino passio), che influiva anche sulla salute del corpo,  ha opportunamente ricordato come l’etica stoica, pur prescrivendo l’apatia, cioè l’assenza o la riduzione al minimo delle passioni che offuscano la mente e impediscono la tranquillità dell’anima, abbia tuttavia prodotto, per una sorta di eterogenesi dei fini, gli studi, le descrizioni e le analisi delle passioni umane tra le più complete, illuminanti  e approfondite che mai siano state scritte (basti pensare a Seneca e a Marco Aurelio).
Questa concezione è rimasta dominante per tutto il  medioevo (e, per alcuni, anche dopo). L’origine del pensiero moderno è segnata, oltre che dalla dipendenza della realtà oggettiva dal soggetto pensante (il “cogito ergo sum” ), anche dalle difficoltà derivanti dal dualismo metafisico di  Cartesio, che pone due sostanze separate alla base di tutta la realtà: la res cogitans e la  res extensa; separazione che subito incontrò  le obiezioni e le controargomentazioni di  pensatori suoi contemporanei come Malebranche, Hobbes, Pascal, Spinoza, Leibniz… Rimanevano oggetti misteriosi,  infatti, nel sistema dualistico cartesiano,  le evidenti interconnesioni e le influenze reciproche dell’anima (puro pensiero) e del corpo (mero aggregato di atomi).
Come avviene che il  corpo obbedisce ai comandi della mente? Quale meccanismo fisiologico-percettivo attiva i sentimenti? Come ci si può ammalare nel corpo a causa  di “affezioni” che riguardano l’anima (o la psiche)? E’ possibile regolare le passioni e gli impulsi con la volontà e la ragione? A questi interrogativi  ha cercato di dare risposta Cartesio stesso nella sua ultima opera: Le passioni dell’anima (1649), trattato multidisciplinare tra anatomia, fisiologia, medicina, psicologia ed etica, dove tra l’altro  leggiamo che “Ci sono solo sei passioni primitive: la meraviglia, l’amore, l’odio, il desiderio, la gioia, la tristezza; tutte le altre sono composte da qualcuna di queste sei, o ne sono delle specie”. Da notare che tra le passioni primitive enumerate da Cartesio, la meraviglia è l’unica a non averne una contraria: non esiste, infatti, una anti-meraviglia (a meno di non considerare come antitetica alla meraviglia l’ atarassia degli scettici o degli epicurei, in quanto mancanza di qualunque desiderio, curiosità o turbamento; ma, dato che l’atarassia è una non passione, non può nemmeno essere il contrario di un’altra passione). Tra le  passioni “composte” e contrapposte di cui tratta Cartesio abbiamo, ad esempio,  la stima e il  disprezzo, la venerazione e il disdegno, la gloria e la vergogna…Se la stima è “un’inclinazione dell’anima a rappresentarsi il valore della cosa stimata, il disprezzo è invece un’inclinazione dell’anima a considerare la bassezza o la piccolezza della cosa disprezzata”, e così la venerazione è “l’inclinazione dell’anima non solo a stimare l’oggetto per cui si ha riverenza, ma anche a sottomettersi ad esso con un certo timore per ingraziarselo. Proviamo venerazione solo per le cause libere che giudichiamo capaci di farci del bene o del male, senza sapere quale delle due cose faranno. Il disdegno è l’inclinazione dell’anima a disprezzare una causa libera quando la si giudichi capace per sua natura di fare il bene o il male, ma tuttavia talmente inferiore a noi da non poterci arrecare né l’uno né l’altro… A determinare l’uso buono o cattivo di queste due passioni sono la generosità dell’animo o la sua debolezza o bassezza: quanto più l’anima è nobile e generosa, tanto maggiore è l’inclinazione a dare a ciascuno ciò che gli è dovuto: e così non si ha soltanto una profondissima umiltà nei rigurdi di Dio, ma si rende anche senza ripugnanza  tutto l’onore e il rispetto dovuto agli uomini, a ciascuno secondo il grado e l’autorità che ha nel mondo, e si disprezzano soltanto i vizi”. Evidentemente Cartesio non intende sovvertire l’ordine sociale, nondimeno è chiaro che per lui la vera nobiltà è quella dell’animo e la vera ricchezza è la generosità; quanto alla vergogna, la considera il contrario della gloria, infatti, se la gloria è “una specie di gioia fondata sull’amore che si ha per sé stessi e che deriva dall’opinione o dalla speranza che si ha di essere lodati da altri”, la vergogna, invece “è una specie di tristezza fondata pure sull’amore di se stessi, che deriva dall’opinione o dal timore che si ha di essere biasimati. Inotre è una specie di modestia o di umiltà e sfiducia in se stessi. Infatti, quando ci si stima tanto da non poter immaginare di essere disprezzati da nessuno, non si può facilmente provar vergogna”. Significativo quel “facilmente”! Qui Cartesio sembra che parli della mancanza di vergogna (da verecundia, che significa anche pudore e senso della decenza) che caratterizza tanti, troppi personaggi pubblci dei nostri tristi tempi, in cui, malgrado la frequente intimazione di vergognarsi che si scambiano i disputanti nei talk show televisivi, il sentimento della vergogna sembra ormai un reperto preistorico (cfr. Marco Belpoliti, Senza vergogna, Guanda, 2010). Dopo aver così definito la stima, il disprezzo, la venerazione e il disdegno, la gloria e la vergogna, Cartesio definisce l’impudenza come un vizio opposto alla vergogna e alla gloria, e il disgusto come “una specie di tristezza, che viene dalla stessa causa da cui è venuta prima la gioia. Infatti siamo composti in maniera tale che la maggior parte delle cose di cui godiamo sono buone per noi solo per un certo tempo e divengono poi fastidiose. Questo è particolarmente evidente nel bere e nel mangiare, che soltanto mentre si ha appetito sono utili e invece nocivi quando non se ne ha più…”. Chissà come avrebbe giudicato gli enormi sprechi e gli abusi d’ogni genere  a cui ci ha abituato il sistema – ora in affanno e sempre più a rischio – basato sul ciclo produzione-consumo e consumo-produzione, con gran dispendio energetico! Ora però mi accorgo di aver indugiato troppo sul pur importante trattato cartesiano dedicato alle passioni dell’anima, sul quale invece il prof Zaghi ha sorvolato per poter parlare dei fenomeni (o sintomi) della vergogna e del disgusto come sono vissuti e percepiti  nella nostra cultura e quali significati possono assumere da un punto di vista filosofico (ma anche politico e sociale, si pensi all’uso che ne fanno i totalitarismi per indirizzare l’aggressività di massa  verso minoranze etichettate come parassitarie, nocive e pericolose!). Mi limiterò quindi a indicare altri argomenti su cui si è soffermato il prof. Zaghi, e che, a questo punto,  saranno oggetto della prossima puntata  sul “Caffè filosofico” di Albenga: l’origine della vergogna in Hegel, Kierkegaard, Sartre, Aristofane (nel Simposio platonico), e in Martha Nussbaum: vergogna e colpa, vergogna e narcisimo, il ruolo delle emozioni nel diritto…
 
FULVIO SGUERSO
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