Tripoli bel suol d’amore

Tripoli bel suol d’amore

Lodevole l’irenismo di Conte ma si vis pacem para bellum

Tripoli bel suol d’amore

Lodevole l’irenismo di Conte ma si vis pacem para bellum

La seconda guerra mondiale determinò nuovi equilibri geopolitici che insieme al deterrente dell’arma atomica hanno reso impensabili conflitti armati fra le grandi potenze industriali, tanto meno all’interno dell’Europa. Che si debba ringraziare per questo l’Unione europea è una solenne sciocchezza, che rimane tale anche quando è fatta propria da autorevoli personalità. Una sciocchezza e una sfida all’evidenza di una convivenza forzata che non esclude il permanere di vecchie rivalità e di interessi inconciliabili.


È il caso dei rapporti fra la Francia e l’Italia, continuamente sotto assedio con la connivenza della sinistra. C’è in questo una sorta di coazione a ripetere l’ostilità antinazionale che fra i fuorusciti antifascisti era forse giustificata, la stessa fatta poi propria dai brigatisti e riproposta subdolamente dai nostalgici della patria sovietica, magari insigniti della légion d’honneur. Nel passato, grazie alla presenza di statisti del calibro di De Gasperi, Andreotti o Bettino Craxi (e al rapporto privilegiato con gli Stati Uniti) questo assedio è stato efficacemente rintuzzato; dopo la caduta di Berlusconi, indirettamente causato proprio dall’aggressione francese alla Libia,  i governi a guida Pd da un lato hanno consentito che l’Ue si riducesse alla foglia di fico  dell’asse franco-tedesco, dall’altra sono stati complici del sistematico saccheggio  della nostra economia, col fondato sospetto di averne ricevuto in cambio una tangente in termini monetari o politici. Se si pensa allo sconcio mercimonio ormai scopertamente ammesso che ha portato in Italia un milione di stranieri da mantenere di tutto punto non c’è da stupirsi. L’Italia, insomma, è diventata con gli eredi del Pci  malati di europeismo uno Stato vassallo della Francia.


Incredibile il giubilo che accompagnò l’ascesa all’Eliseo  dell’uomo costruito al computer dalla finanza globale col compito di sostituire le sovranità nazionali e la volontà popolare con una rete di lobby. Un giubilo sconcertante perché  ci voleva poco a capire che la marche macronista o era quella dell’economia virtuale impegnata a schiacciare l’economia reale o quella di un nuovo sciovinismo velleitario ma destabilizzante o tutte e due le cose insieme  e fatalmente in tutti i casi ne avrebbe fatto le spese proprio l’Italia. Ora, tardivamente, il fronte  salottiero filo francese comincia a scricchiolare e Repubblica non si perita a titolare che dietro l’attacco al governo filo italiano di Tripoli ci sia la regia francese. Ci sarebbero forse le condizioni per un compattamento delle forze politiche a difesa dell’interesse nazionale e a sostegno di un’azione forte, decisa, univoca dell’esecutivo gialloverde, spiazzando le frange irriducibili all’interno del Pd e della sinistra (e non solo). Invece no, e proprio dal governo e dalla maggioranza si forniscono alibi alle opposizioni. Si balbetta, si tira fuori la bandiera arcobaleno, di tanto farfugliare si capisce solo che le opzioni militari, ohibò, sono assolutamente escluse, si invoca l’Onu e se ne ripetono le dichiarazioni magniloquenti, ma sarebbe meglio dire i vaniloqui. E si dimentica che proprio l’Onu coprì la sporca operazione franco-inglese che portò alla caduta di Gheddafi e al caos libico. Duole dirlo ma chi balbetta, chi farfuglia di pace quando imperversa la guerra, chi aspetta che altri si muovano quando gli eventi precipitano è proprio il Capo del governo con i peana di tutta la comunità pentastellata.   

Il problema è che dal colpo ricevuto con la fine di Gheddafi non solo non si è più riavuto Berlusconi, e con lui la sua idea di politica estera e la sua stessa personale credibilità, ma non si è più riavuta l’Italia, che come un pugile suonato barcolla nel mediterraneo senza una linea, senza una strategia, con l’unico obbiettivo della maldestra difesa dei propri interessi energetici. Così in Libia si è trovata a sostenere al-Sarraj da una posizione di debolezza, col risultato paradossale che non è al-Sarraj l’uomo dell’Italia ma è l’Italia lo sgabello, eterodiretto e traballante, di al-Sarraj. Con l’aggravante del rischio di trovarsi dalla stessa parte dei fratelli musulmani, del califfato e magari delle centrali del terrorismo. Un’Italia flaccida come flaccida è la sua presenza sul territorio, qualche centinaio di uomini che non sanno cosa fare, privi di una seria base logistica, con l’unico ordine chiaro che è quello di non farsi vedere in giro.

Il problema è che il governo del cambiamento si è rivelato, almeno in questo settore, che non è secondario ma vitale per il Paese, il governo della continuità.

Tutto questo per la gioia della sinistra cattocomunista, che gongola: “ora non ci sono più pretesti, non si pongano più ostacoli e limiti all’accoglienza. Non più migranti, economici o perseguitati o disperati, e non più diàtribe sulla sicurezza dei porti libici. D’ora in poi la Libia è in guerra e tutti quelli che partono sono profughi, guai semplicemente pensare di impedire loro l’ingresso in Italia. D’ora in poi dobbiamo farli entrare tutti, anzi andarli a prendere con ogni riguardo!”.  Di nuovo menzogne. Primo, perché almeno per ora  non c’è una vera guerra, tanto meno una guerra civile: la popolazione libica sta a guardare il simulacro di guerra – a bassa intensità la chiamano i cronisti – più simile a un gioco fra qualche centinaio di militari dell’una e dell’altra fazione. Secondo, perché dalle periferie interessate da questo gioco criminale la gente scappa e cerca rifugio in zone più sicure ma non certo per prendere il mare: sono sfollati, come lo furono tanti italiani  in fuga dai bombardamenti angloamericani  o dalle terre cadute nelle mani di Tito con la complicità dei nostri partigiani comunisti;  gente che non prende il mare per abbandonare le proprie attività, i propri beni e i propri familiari ma aspetta solo di tornare nelle proprie abitazioni. Ma i compagni hanno deciso che ci debbono essere decine di migliaia – e piacesse a Dio che fossero centinaia di migliaia – di profughi, di gente che scappa dalla guerra e che per ordini superiori va accolta e ospitata. E Salvini se ne stia a cuccia.


Immagine da voxnews.info

Qui siamo fuori della normale disparità di opinioni e della dialettica politica. C’è un odio verso l’Italia che mi guardo bene dall’imputare agli elettori e simpatizzanti della sinistra ma è palese nelle dichiarazioni e nei comportamenti dei suoi rappresentanti e della stampa fiancheggiatrice.  Questi non si sono limitati a pregare perché lo spread salisse fino a limiti insostenibili, non solo si augurano che l’Italia divenga il fanalino di cosa dell’Europa, non solo suggeriscono agli eurobrucati argomenti per attaccarla, non solo si indispettiscono se la produzione industriale cresce e la Borsa tiene e si adoperano per nasconderlo ma sono arrivati al punto di augurarsi che in conseguenza del caos creato da Macron  la pressione dell’Africa sub sahariana sulla Libia proietti sull’Italia una massa di ottocentomila uomini e cominciano a mettere le mani avanti sostenendo in anticipo che non si tratterà più di migranti ma di profughi.  Nemmeno gli anarchici di fine Ottocento sarebbero arrivati a tanto e devo confessare che faccio fatica a capire. Perché ci saranno pure interessi materiali, ci sarà l’aspettativa di un nuovo target elettorale ma spingersi fino a prefigurare l’apocalisse  e prepararsi a facilitarla  è francamente sproporzionato. Per qualcuno si può tranquillamente parlare di stupidità ma la maggior parte di loro sono vecchi marpioni tutt’altro che sprovveduti. Forse va messo in conto che il crollo del Pd è stato un evento traumatico anche sotto il profilo psicologico e nel sopravvento di pulsioni distruttive si rinnova il topos biblico: muoia Sansone con tutti i filistei. E che l’Italia ingrata, l’Italia che si è affidata “alle destre” sprofondi all’inferno.

Noterella finale


Il Ministro Elisabetta Trenta

La ministra Trenta si è diligentemente accodata al Capo del governo nell’escludere un impegno militare italiano in Libia ma per eccesso di zelo l’ha sparata grossa. Ha voluto precisare che non si sarebbe ripetuto l’errore del passato (quando Berlusconi finì per affiancare gli anglofrancesi per far fuori Gheddafi). Oggi, in realtà, si tratterebbe di fare l’esatto contrario, quello che il falso amico del raìs a suo tempo avrebbe dovuto fare e non fece: fermare i piccoli napoleoni, ieri Sarkozy ora Macron.

E, già che c’era, la stessa Trenta ne ha sparata un’altra. Secondo la ministra il suo collega di governo Salvini, nel momento in cui prospetta l’intervento delle forze armate per impedire l’invasione o allerta i prefetti per la eventualità che i sindaci non riescano a fronteggiare il degrado delle città, va oltre le sue competenze e come un golpista qualunque rompe la catena di comando mettendo in allarme i vertici militari. La ministra non sa che il responsabile del dicastero degli interni, nella nostra come in tutte le democrazie parlamentari, gode di un’autonomia e di un potere decisionale inferiore solo a quelli del Capo del governo. Soprattutto non sa che le forze armate, lo stato maggiore e il ministro della difesa sono solo uno strumento nelle mani dell’esecutivo nel suo complesso, del suo presidente, del ministro dell’interno, appunto, e del parlamento. Ci mancherebbe altro che fosse  l’esercito a decidere se dove e come intervenire.  Né sa che i prefetti, che rispondono al ministro degli interni, sono l’espressione periferica dello Stato: un comune può essere commissariato e sostituito da un commissario prefettizio; chi riveste la carica di prefetto può essere rimosso ma la prefettura è intangibile, come è intangibile lo Stato.

Ma la ministra è scesa giù dal Colle più alto e i suoi scivoloni hanno una valenza politica relativa. Se però fra i Cinquestelle impegnati nelle schermaglie, nelle scaramucce e nelle punzecchiature con l’alleato leghista dovesse farsi strada l’idea di boicottare Salvini sul fronte della sicurezza e del contrasto all’invasione schiacciandosi sulle posizioni disfattiste di vescovi e comunisti ci sarebbe solo da sperare che irrompessero sulla scena il Patrono (non ho scritto il padrone) e il Fondatore per rimetterli in riga. Altrimenti…

 Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

 

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