Tre casi di ordinaria ignoranza

Tre casi di ordinaria ignoranza

Tre casi di ordinaria ignoranza

 Venerdì scorso, ospiti della trasmissione condotta dall’astro nascente del giornalismo televisivo, quella Veronica Gentili che ha sancito il suo salto di qualità con l’intervista al Cicisbeo, battibeccavano un Sallusti insolitamente lucido e convinto e il redivivo Mario Capanna, sottratto alla sua nuova vita di contadino. Capanna, a Sallusti che aveva dato del fascista – per quello che il termine è venuto connotandosi – a tutta la sinistra, rispondeva stizzito che lui e la sinistra avevano combattuto per assicurare anche al direttore del Giornale la libertà di cui gode.


Capanna e Sallustri

Non si è capito bene se si riferisse al 68 di cui il Cohn-Bendit de noantri  è stato partecipe o alla Resistenza (poco probabile perché a guerra finita il nostro si limitava ad emetteva i suoi primi vagiti rivoluzionari) ma la sua affermazione non è piaciuta all’altro ospite della trasmissione, il compassato  senatore forzista Massimo Mallegni, che, forte della memoria della sua terra, Pietrasanta, rinfacciava a Capanna che la liberazione dell’Italia è stata merito anche di milioni di italiani combattenti nelle formazioni partigiane bianche. Milioni! Ora è vero che i nostri politici e governanti hanno scarsa dimestichezza con i numeri e spesso scambiano allegramente milioni di euro con miliardi di euro ma credere che ci siano stati milioni di italiani non dico combattenti ma anche semplicemente simpatizzanti per i partigiani, fossero essi bianchi rossi azzurri o turchini, significa aver passato gli anni di scuola dormendo sul banco. 


Non starò a ricordare pedantescamente che a “liberare” l’Italia ci pensarono gli alleati angloamericani (alleati fra di loro, non con noi), evito di ricordare che i partigiani comunisti combattevano per la patria sovietica e per consegnare al compagno Tito il norditalia: le mie possono essere opinioni ma sui numeri non si scherza: i partigiani a guerra finita levitarono di numero ma comunque vengano contati i loro effettivi non arrivarono mai a superare le 80.000 (ottantamila) unità; sul numero di quelli bianchi, quelli, per intenderci della brigata Osoppo massacrata dai compagni, meglio tacere per discrezione. Per il parlamentare forzista sono milioni di italiani! Non sa che i milioni di italiani, al nord come al sud e nelle isole erano semplicemente esausti, storditi e sfiniti da una guerra che doveva durare pochi mesi e si era tragicamente trascinata per anni lasciando il sud nell’anomia e preda di razziatori e stupratori come quelli del generale Juin e il nord sotto l’incubo delle bombe alleate e dell’occupazione militare tedesca mal controllata dalla debole autorità dell’amministrazione repubblicana.


Capezzone e Pasquino

Poi la sera dopo, per la precisione sabato 12 settembre, leggiucchiavo il giornale in attesa della cena col sottofondo del telegiornale di rete 4, dove si confrontavano Capezzone, l’ex radicale ora vicino alla Lega che somiglia terribilmente al superman versione fumetto, e il professor Pasquino, docente emerito di scienze politiche, emulo di Theodor Adorno con i suoi Minima politica, ospiti fissi l’uno e l’altro di talk show di tutte le reti. E incredulo sobbalzo sulla sedia sentendo dalla voce del professore che Benedetto Croce sarebbe stato ministro dell’istruzione nel ’49 o nel ’50.  Siamo veramente alla frutta. Perché quando uno affida il suo pensiero alla scrittura  il refuso ci sta sempre e non per niente ci sono i correttori di bozze, quando uno parla, anche in occasioni formali, un lapsus ci può sempre scappare ma fare di Croce un ministro dell’istruzione nel dopoguerra significa non solo non sapere nulla del filosofo di Pescasseroli ma nemmeno della storia dell’Italia moderna e questo non è compatibile col farsi passare per scienziato della politica o con l’aver insegnato  la storia delle vicende politiche contemporanee nelle aule universitarie. 

E, per rimanere in tema di pubblica istruzione, all’inizio della settimana mi era capitata davanti, questa volta nel telegiornale di Rai news 24, la faccia giuliva della preside di un circolo didattico milanese tutta latte e miele verso la giunta Sala e il suo assessore di riferimento, che le avevano dato “la possibilità di poter” iniziare l’anno scolastico in piena sicurezza per la “gioia dei bambini e dei loro genitori”. Benedetti siano i concorsi per dirigenti scolastici, che impediscono a certi insegnanti non solo servili ma analfabeti di continuare a far danni. Meglio presidi che dietro la cattedra.


Non mi dica che ci sono cose ben più gravi, che in fondo in tutti e tre i casi dietro gli sfondoni si intravedono buone intenzioni o tesi giuste e condivisibili, che bisogna guardare a quello che uno intende dire sorvolando sugli strumenti che ha a disposizione per dirlo. Se così dovesse essere la nostra comunicazione si ridurrebbe a qualche suono gutturale. Al personaggio pubblico, all’uomo politico, a chiunque occupi un ruolo di prestigio nella società, che ne fa naturalmente un modello, ai professionisti, ai medici e, ovviamente, agli insegnanti chiediamo nel modo più intransigente possibile non solo di parlare un italiano corretto ma di non avventurarsi su terreni sconosciuti senza prima essersi attrezzati per percorrerli. Un mio professore di liceo era un uomo di profonda e vasta cultura ma proprio per questo sapeva quanto grandi fossero i suoi limiti e che brutti scherzi può fare la memoria: perseguitato da dubbi linguistici si portava sempre dietro un vocabolario. Eccesso di insicurezza? Forse, ma il rigore nella documentazione non è mai abbastanza e l’abitudine allo studio, se uno non l’ha appresa da giovane, è difficile acquisirla da adulto. E non è importante perché rende più istruiti ma perché rende più cauti e consapevoli della propria ignoranza. 


Oggi la cautela non va di moda e più si sale nella scala del potere economico politico o mediatico più facilmente ci si imbatte in una rozza sicumera autoalimentata dal gruppo di appartenenza. Siamo stati travolti da una rivoluzione culturale che ha fatto piazza pulita delle competenze, dell’assennatezza, del senso critico. È stata la rivincita della stupidità, dell’improvvisazione, della faciloneria, di quelli che a scuola occupavano gli ultimi banchi: alla concezione elitaria del sapere si è sostituita la distruzione del sapere, ha prevalso l’aspetto perverso del nostro ‘68, che imbrattava i muri delle scuole e delle università, che rovesciava le cattedre, imponeva il 6 e il 18 politici, minacciava e percuoteva i docenti che cercavano di resistere, come Petter asserragliato nel suo ufficio padovano e Salinari senior fatto ruzzolare giù per le scale del suo liceo. Nantas Salvalaggio nei primi anni del dopoguerra prendeva in giro Di Vittorio per la sua cultura approssimativa ma il grande sindacalista sapeva quanto bastava per fare bene quello che gli operai volevano da lui. E oggi uno così potrebbe dare lezione di rigore e serietà a tutti i pupazzi, giornalisti, politici, “scienziati”, che quotidianamente entrano nelle nostre case e guasterebbero i nostri pasti se non ci fosse dato di annullarli col telecomando. Il problema però è che questa generazione di improvvisati, a cominciare dal Cicisbeo che occupa palazzo Chigi, fa perdere al Paese il passo non solo con l’Europa ma con un mondo in cui, da Oriente a Occidente, si sta giocando una grande partita sul futuro.


da UBS

Una partita che non richiede tanto mezzi finanziari quanto intelligenza e severità di studi e a noi non toccano né l’una né gli altri. Perché vanno bene gli investimenti, va bene il lavoro, ammettiamo pure che vada bene la crescita ma non dobbiamo dimenticare che nel singolo individuo come nelle collettività e in qualunque azione individuale o collettiva senza il sapere sorretto dall’intelligenza i mezzi finanziari non servono a nulla. E, a questo proposito, mi viene fastidiosamente in mente il continuo richiamo alla necessità di investire soldi sulla sanità per renderla più efficace ed efficiente col ricorso ai miliardi del Mes. Come se i mali della nostra sanità pubblica fossero gli stipendi di medici e infermieri, che non sono affatto sottopagati, né in assoluto né in relazione alla media delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, o fossero gli edifici o le attrezzature. Cattedrali nel deserto ne sono già state costruite abbastanza; se ne vogliono costruire ancora? Le attrezzature vanno sapute adoperare altrimenti se ne stanno a invecchiare nei depositi. Nessuno ha il coraggio di dire che il problema vero della sanità italiana è organizzativo e professionale: il problema sono le dirigenze delle aziende sanitarie, il pessimo impiego delle risorse umane, la diffusa carenza di professionalità. Non servono soldi per cambiare rotta, serve maggiore attenzione alla formazione, serve una gestione meno inquinata da nepotismo e politica – dico politica ma intendo il Pd -, servono concorsi che non siano farse. 

 

 Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.