too big not to fail

TOO BIG NOT TO FAIL

TOO BIG NOT TO FAIL

Nei primi mesi della recessione iniziata nell’agosto 2007 circolava con insistenza la frase, poi diventata titolo di un film, Too big to fail, alludendo a banche e assicurazioni giudicate troppo grosse per fallire; nel senso che il loro fallimento avrebbe coinvolto anche gli Stati, dei quali non era neppure ipotizzabile un’analoga sorte.

Quando invece, più di recente, si è constatato con sgomento che il default degli stessi Stati non è affatto un tabù, se trascinati a fondo da salvataggi di dimensioni insostenibili, la frase si è capovolta nel suo contrario: Too big not to fail, troppo grosse per non fallire.

 

La finanza si è cullata nell’illusione di fronteggiare questo pericolo mediante l’istituzione di una sorta di “assicurazione contro i rischi” presa a prestito dalle compagnie di assicurazione: una specie di salvagente universale.

Il principio assicurativo è chiaro: contribuire tutti alla creazione di un fondo che protegga i singoli da una prefissata gamma di infortuni. Il dramma si verifica quando gli sporadici infortuni si trasformano in catastrofi collettive: se tutti, o almeno molti, incorrono in un danno superiore al premio versato, è altrettanto chiaro che, dopo i primi risarcimenti, nessun altro infortunato potrà venir risarcito del danno subito.

Questo è quanto avvenuto dopo il 2007: le banche avevano prestato, su scala mondiale, troppi soldi a persone non in grado di rimborsarle, e si erano assicurate in cascata contro il rischio default presso svariate compagnie di assicurazione, in gran parte di proprietà delle stesse banche, tramite i poi famigerati CDS (Credit Default Swaps), nonché rifilando i propri rischiosi crediti a terzi con l’emissione di CDO (Collateralized Debt Obligations), obbligazioni avente per collaterale proprio quei crediti. Quando l’insolvenza superò un certo limite, i sottoscrittori di quei CDO rimasero con un pugno di mosche, mentre fallirono (o dovettero essere salvate dagli Stati) le stesse entità che avevano assicurato contro il default altrui. Il volume di somme assicurate, insomma, era diventato too big not to fail, in barba ai sani principi secondo cui nessuna assicurazione osa assicurare contro le catastrofi naturali, le guerre, i saccheggi, ossia i sinistri di massa.

Se ci spostiamo dal campo finanziario a quello dei beni concreti, sembra incredibile che maghi della matematica, ma scadenti in fisica, quali han dimostrato di essere gli economisti, pensino di risolvere gli attuali problemi, derivanti in gran parte dalla scarsità di materie prime nonché dell’eccesso dei loro rifiuti, spronando i governi ad accelerare il tasso di crescita, ossia i consumi e la produzione di detti rifiuti.

Ancora più risibile è la motivazione di tale sprone: rincorrere il PIL, per raggiungere e superare il tasso di interesse dei titoli di Stato! I quali a loro volta salgono in proporzione al rischio di default degli Stati emittenti, che cresce proprio in proporzione alla loro stimata debolezza. I titoli di Stato si sono trasformati in altrettanti CDS! E, come nel caso dei CDS, ci sono speculatori, perlopiù banche, fondi speculativi (hedge funds), ma anche fondi pensione e d’investimento “istituzionali”, che scommettono contro di essi, e persino contro se stessi, per mietere un sempre più improbabile risarcimento dei danni. Motore primo di tali frenetiche operazioni è la proporzione coi flussi di cassa di bonus e stock options dei top manager bancari.

Insomma, ha preso corpo una sciagurata sfida tra la finanza e l’economia reale, dove si pretende che la seconda rincorra -e addirittura superi- la prima: esattamente il contrario di ciò che dovrebbe avvenire. L’inversione di ruoli è dovuta al fatto che i suddetti fondi garantiscono, anzi devono garantire, ai loro investitori rendite impossibili in campo fisico: promettono, e per lunghi anni hanno elargito, rendite del 10-15%, mentre l’economia reale –il PIL- cresceva al massimo di un quinto di tali valori. La gara di un’auto contro un jet. Il che spiega la progressiva finanziarizzazione delle grosse corporation: ripianavano le perdite del loro settore industriale coi guadagni di quello finanziario!

 

Oggi è del tutto evidente che questa forsennata scommessa sui fallimenti altrui, quando non addirittura il proprio, è auto-distruttiva.

 

Mentre è pura utopia il proposito, enunciato coattivamente da Berlusconi prima e rinnovato da Monti in questi giorni, di andare a pareggio di bilancio nel 2013, con l’aggiunta dell’esortazione, da parte di un compiaciuto commissario europeo all’economia, Olli Rehn, a far calare il debito pubblico. Un’utopia per inseguire la quale, tuttavia, il governo sarà disposto a manovre di ogni genere, per il “consenso di UE, BCE ed FMI”.

Guardo più con disgusto che con preoccupazione al quotidiano tam tam di spread in crescita e borse a picco, con l’avvilente spettacolo di un’Italia monetizzata e messa all’asta come se il suo immenso patrimonio di bellezze sia naturali che artistiche, di talento produttivo e di duro lavoro venisse deprezzato di ora in ora per la mancanza di compratori. Un Paese in vendita in una gara d’appalto al ribasso! Sembra quasi naturale sentir proporre un pezzo d’Italia, come già un’isola greca (Rodi), in cambio di tot miliardi di euro. Ciò che non hanno potuto le armi potrebbe riuscire oggi alla finanza. È il bello della privatizzazione, dopo tutto.

La via d’uscita alternativa sarà, certo, dolorosa, ma altrettanto inevitabile: il ritorno ad una moneta nazionale, che però non sia la lira di ieri: a prescindere da come si chiamerà, dovrà essere una moneta di Stato. Una differenza cruciale, perché la sua emissione non comporterà più un debito dello Stato verso nessuno, né l’emissione di questi CDS camuffati da titoli di Stato, gravati pure da un interesse: quell’interesse che tanto concorre a causare inflazione e che tanto più concorrerà a creare stagflazione nel periodo crepuscolare dell’euro che ancora ci attende, col persistente calo del suo potere d’acquisto.

Se posso fare un ultimo paragone tra una finanza sana e quella bacata di questi anni, direi che la moneta di Stato è come un CDO: una sigla sciagurata quando significava titoli con la garanzia di sottostanti di dubbia solvibilità; ma che, nel caso di una moneta pubblica senza debito, significa invece che la garanzia è fornita dalla ricchezza, presente e in fieri, della nazione emittente e dal suo vivace bilancio import-export.

  

Marco Giacinto Pellifroni                27 novembre 2011 

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