Tempo d’orto

Tempo d’orto
I miei pochi lettori e amici sanno che coltivo un orticello, a poca distanza da casa. Si tratta di un appezzamento esteso, di proprietà di un avvocato che non abita più in paese da molto tempo.

Tempo d’orto
 I miei pochi lettori e amici sanno che coltivo un orticello, a poca distanza da casa. Si tratta di un appezzamento esteso, di proprietà di un avvocato che non abita più in paese da molto tempo.

Così l’avvocato ha permutato il permesso alla coltura con un piccolo approvvigionamento di verdure fresche, da prelevarsi durante l’estate, senza pesi e misure, solo a seconda della dovizia della stagione. L’accordo pare vantaggioso per tutti, regnante il buon senso e la sobrietà.


Allungandosi le giornate, si ascoltano finalmente i primi canti dei pennuti, si vedono i primi timidi fiori. L’erba è rimasta verde, quest’anno: la neve non ha infierito sul poco gelo che c’è stato, e il tappeto annuncia quasi il maggio.

Nell’orto, le baracche preesistenti, sembrano sempre più sgarrupate. Non ci si ricorda nemmeno chi l’ha edificate: sono un coacervo di assi, pannelli, onduline di recupero (ma forse è proprio tutto di recupero, anche i chiodi che le tengono sospese).

Restano le baracche, cambiano gli occupanti. Vicino al mio pollaio c’è un nuovo arrivato, un ragazzone nordafricano, gentile e premuroso, che alleva conigli, costruisce gabbie solide e dedica agli animali una cura amorevole: li ripulisce, li nutre, li mantiene nello spazio adeguato. Dopo ancora c’è il pollaio di un signore veneto, che però viene raramente. Diciamo che il pollaio è realizzato, ma mancano i polli, perché il signore ha problemi di salute, e non può dar seguito alla sua passione per i pennuti. Entrambi i nuovi occupanti sono abbinati con una signora ucraina (una per ognuno).


La prima ha una gran voglia di parlare: mi ha raccontato di essere cresciuta in un kolkoz, che nel suo paese la terra rendeva assai: era un piacere da vedere il grano, le barbabietole. Tutti lavoravano, c’erano macchine, attrezzi, stalle enormi. Poi è finito il comunismo, basta soviet, e allora e da allora non c’è più macchine. Una volta se serviva un trattore si andava alla direzione del kolkoz, si prendeva e si usava, e poi si rimetteva a posto. Ora nessuno ce l’ha. Chi ce l’ha non lo presta, perché se si rompe nessuno ha i soldi per ripararlo. E allora si fa tutto con la zappa. Vita dura, tanta fatica.

Poco oltre i primi pollai c’è l’orticello di Franco. È un ragazzone che pare una pianta troppo annaffiata, troppo concimata, cresciuta troppo in fretta e male. Trasandato e rustico, nonostante non superi la quarantina, incede con il passo di un vecchio contadino, o di un pastore abituato a risalire colline. Porta perennemente un cappellino con la visiera sulla nuca, il sigaro nella bocca sdentata. Lo segue dappresso un cagnolino iroso ma non mordace, che predilige rotolarsi nell’erba e nella polvere, ad onta del suo pelo lungo e bianco. Franco non ha la patente e non ha un lavoro. Possiede però una bicicletta dotata di ogni confort: specchietti, portapacchi, nappine colorate e, meravigliosamente, anche un piccolo transistor vincolato al manubrio. Inforca la bici, accende la radio, accende il sigaro (se occorre) e parte trionfale verso i suoi irrevocabili impegni, seguito dal batuffolo iroso.

Franco parla per frasi fatte. Per non sbagliarsi e non passar per tonto, ripete ossessivamente quel che raccoglie in giro, da discorsi fatti da uomini che a lui paiono autorevoli.

“Se non piove, son grane”. “La terra è bassa”. “Stamattina c’era la brina, ma ormai fa poca paura”. Cerca un contatto, una conferma. Anche solo un motteggio gli basta.


Il suo orticello, piccolo e ben recintato, detiene tutte le verdure del caso, assai ravvicinate, per cui capita che la zucca finisca per coprire l’insalata, i fagioli si arrampichino sui pomodori, le cipolle vengano oscurate dalle bietole. Ma Franco non demorde: annaffia e zappetta come gli altri, e sedendosi sovente stanco e soddisfatto a rimirare la sua opera, così compromessa con il caos originario da parere bella. La miglior realizzazione di Franco non è tanto l’orto, ma il piccolo ripostiglio per gli attrezzi e il prospetto, dotato di taniche e vasche di varie fogge, scorta d’acqua e di arnesi “nonsisamai” sempre a portata di mano.

Dopo di lui c’è Luigi, dal cordiale sorriso. Raffinato coltivatore e ordinato costruttore. In pochi anni ha realizzato una serra solida ed estesa, un piccolo ripostiglio ordinato, una pergola con un tavolo, una graticola per le braciole e un pollaio. A colpo d’occhio capisci che Luigi sa dare la giusta importanza al lavoro, allo svago, al riposo, all’ozio, alla compagnia, alla condivisione. La sera d’estate, sfida regolarmente le zanzare e trascina gli amici migliori in lunghe serate al lume di candela (negli orti non c’è elettricità) fra braciole e vin buono, con la possibilità di far chiasso e cantare al buio, senza infastidire nessuno.


Luigi viene dalla Sicilia, a lui, la terra, l’ha trasmessa suo nonno. Con lui andava per campi e fossi, a caccia, a pesca, ad innaffiare o raccogliere meloni dolci e succosi. Coltivava persino le noccioline. Sa i trucchi per raccogliere i fichi d’india. Conosce le piante, l’acqua e la terra. Sorride spesso.

Oltre a Luigi ci sono i due patriarchi: Salvo e Pino. Entrambi in pensione, ed entrambi cintura nera di orticultura (orticUltura, non coltura eh!). Sono sempre insieme anche se apparentemente si detestano cordialmente, mandandosi a spigolare a vicenda ogni due parole. Eppure convivono questa piccola coltivazione, condividendo baracca, pozzo, motozappa. Salvo, il più esperto e scaltro, s’è preso l’esclusiva dei piantini, che predispone in una piccola serra. A stagione giunta, a virgulto pronto, ne distribuisce in base alla disponibilità e alle richieste, generosamente. I loro due appezzamenti fanno invidia a tutti gli altri zappatori da diporto. Il massimo lo danno nell’estate più matura, quando pomodori, melanzane, zucchine, peperoni… Tutte le verdure e gli ortaggi svettano rigogliosi, allineati, precisi e puliti. Non una erbaccia, la terra perfettamente raffinata e umida dove vuole umida. Secca e ben fresata, dove vuole secca. E loro due, che tu ti immagini sempre indaffarati in agro, sulla panchetta all’ombra, davanti alla baracca. Chiacchierano, ridono, litigano. Ma quando lavorano? Talvolta praticano la cortesia delle visite agli orti altrui. Se guardano ma non parlano, è brutto segno. Se guardano e sorridono, è disastro: non caverai nulla dal tuo lavoro. Se guardano e poi si guardano tra loro, scambiandosi un sorriso complice, vuol dire che nel tuo orto hai compiuto qualche scelleratezza gravissima, che ti porterà un danno tale per cui nessuno si salverà della tua schiatta, tu e la tua famiglia sarete allontanati dalla città, ed i tuoi beni venduti all’asta, e forse ti segneranno in fronte il segno della vergogna, e sarai conseguentemente scancellato dall’anagrafe.

Per conoscenza, devo confidare che il più delle volte al cospetto del mio appezzamento, i due patriarchi scrollano la testa demoralizzati: neanche le minacce servono ― pensano ― questo è proprio negato.

In effetti il mio orticello non è un granché, forse perché sto troppo tempo a parlare e guardare i miei curiosi, variegati e simpatici vicini.

Alessandro Marenco

 

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