Sull’assoluta genialità del mito di Narciso

Poiché la scienza ci ha detto che il fulmine non è la saetta scagliata dall’ira di Giove, potrà risultare strano che il mito sia ancora massicciamente presente tra noi umani del XXI secolo.

Giove

Ci pervade al punto che non lo sappiamo più vedere, e lo crediamo cosa d’altri tempi e d’altre civiltà.
E’ importante invece riconoscerlo svelando i vari aspetti della realtà che del mito sono intrisi e i modi spesso straordinari di rappresentarla.
A volte tanto straordinari da far dubitare che potrebbe essere rappresentata validamente al di fuori di esso.
Dopodiché esistono, in certi miti già di per sé geniali, dei concentrati di genialità resi quasi inesplicabili dal non essere il prodotto di una sola mente, ma dall’insieme di menti sconosciute l’una all’altra tutte impegnate a costruire una storia immortale come per un’armonia carsica.
Perché il mito è questo: una storia immortale: “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre” [Sallustio].
Uno di questi grumi di genialità, capaci magicamente di intrappolare un’idea e insieme di liberarla, compare quasi a conclusione del mito di Narciso.
E’ lì che si ha lo spannung, la tensione massima del racconto. E’ lì che esso si risolve.

Narciso

Narciso, figlio della naiade Liriope, era un adolescente bellissimo interessato solo all’arte venatoria e ostinatamente disdegnoso degli sguardi innamorati delle tante fanciulle e dei tanti ragazzi che inutilmente speravano di essere ricambiati.
La ninfa Eco non fece eccezione.
Ella però, vedendosi respinta e sbeffeggiata, a causa della delusione e della vergogna fuggì tra i monti, riducendosi per la consunzione ad un fantasma, una voce senza corpo; quella che ancora adesso sentiamo risuonare tra le rupi.
Allora Némesi, dea della giusta vendetta, intervenne, condannando Narciso a poter amare soltanto la sua stessa immagine.
Questa, per sommi capi, la indispensabile premessa.
Ma cosa accadde poi?
Narciso, stanco e assetato dal suo girovagare nel bosco a caccia di selvaggina, si avvicina ad un lago e mentre cerca di bere, vede la sua immagine, bellissima, riflessa nell’acqua. Se ne innamora sùbito, perdutamente, e cerca di baciarla e abbracciarla. E nel farlo cade nella fonte, e vi affoga.

Narciso e la ninfa Eco

Ecco, Némesi ha portato a compimento il suo piano, e con ciò già il racconto potrebbe avere un senso. Ma non più profondo di migliaia di altri racconti in cui la supponenza e il disprezzo vengono puniti.
La vera profondità di questo brano invece sta nel fatto che il protagonista muore, sì, nell’acqua, ma in quello specchiod’acqua occupato dalla sua immagine: affoga esattamente dentro se stesso; dentro una superficie, che in quanto tale non ha spessore.
Narciso bacia un’immagine, abbraccia un’immagine, diventa un’immagine.
Annega in un’immagine che lo nega: lui non è.
Quella lastra virtuale senza spessore che è la superficie, lo ritiene in sé, lo assorbe.
Egli si vede riflesso nell’acqua. E così per la prima volta si conosce. Ma non si riconosce: crede di amare un altro.
Sarebbe stata una svolta nella sua vita.

Tiresia

Senonché la maledizione che lo ha colpito non gli dà scampo: nell’altro riesce ad amare solo la sua immagine. Nulla in realtà è cambiato.
Del resto l’indovino Tiresia presso il quale la madre si era recata per conoscere il futuro del figlio appena venuto alla luce, aveva sentenziato: “Tuo figlio avrà lunga vita, ma solo se non conoscerà se stesso”.
E così nella pericope di Narciso che cerca di dissetarsi, troviamo la densità di un messaggio che riesce, insieme, a mettere in guardia dall’abbeverarsi alla propria immagine e dal bearsi di essa, così come anche dal conoscerne la annichilente verità.
Quale invenzione, quale trattato, quale testimonianza potrebbe darci il livello di profondità conoscitiva delle due o tre frasi di questo tratto del mito?
Eppure, in una delle tante versioni di esso, esiste un particolare che se maggiormente accostato allo spannung dell’immagine riflessa, ancora maggiormente l’addensa, facendo ben comprendere come per esplicitare il significato della vicenda, abbiano dovuto confrontarsi scrittori, artisti, psicoanalisti, poeti, filosofi… senza tuttavia esaurirla mai: è il sapere che la ninfa custode della fonte in cui Narciso si fermò a placare la sete e a specchiarsi, aveva per nome Liriope.

FULVIO BALDOINO

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