Su Rayan Awram, morto in un pozzo

La sera del 5 febbraio scorso, a Ighrane, tra i monti del Rif del Marocco, è morto Rayan Awram.
La sua è stata una vicenda che il mondo ha seguito col fiato sospeso.
Una vicenda iniziata 5 giorni prima, quando, forse mentre stava giocando vicino al padre, è caduto in un pozzo.
Uno di quei lunghi, profondi pozzi, diversi dai soliti con il parapetto circolare dentro ai quali se c’è l’acqua ti ci puoi specchiare e attorno ai quali fino a qualche decennio fa, nelle campagne anche italiane, vedevi l’asino con i paraocchi far girare la noria. Ecco, non un pozzo così.
Ma un pozzo che è piuttosto una fenditura parzialmente smussata, un cunicolo mezzo naturale e mezzo artificiale, utile a far sì che la vita possa germogliare anche nel deserto.

Un pozzo ormai esausto, e perciò lasciato coperto da un telo di plastica e da assi di legno a chiuderne sul piano del terreno malamente la bocca.
E’ lì, giù 32 metri in questa foiba, che Rayan Awram, un bambino di 5 anni, è rimasto per 100 ore ad attendere che dal mondo di sopra una mano lo sollevasse, lo riportasse alla luce, facendogli percorrere a ritroso il suo abisso. E’ lì che ha atteso di rinascere da quell’utero velenoso.
Aveva tutto contro: le ferite della caduta, il buio, la fame, la sete, il freddo, la solitudine, l’angustia e l’angoscia, l’aria che manca, la deprivazione del sonno. Tutto.
Se anche un mago perverso avesse voluto fare di più e di peggio, non ci sarebbe riuscito.
E comunque il più e il peggio non l’avremmo capiti. Già così la nostra immaginazione non basta a sostituirci a lui per un solo minuto.
Non è chiaro se Rayan sia stato estratto ancora in vita; ci sono versioni contrastanti.
Certo che se fosse così, sarebbe stata un’ulteriore beffa del destino venire a morire tra gli evviva e gli applausi di chi per pochi istanti, a seguito dell’annuncio avventato del capo delle operazioni di soccorso, ha creduto al miracolo della scienza o di Dio; venire a morire tra i due genitori che l’hanno generato, tra i milioni di genitori che l’hanno adottato; venire a morire con l’aria che adesso è tutto un cielo bellissimo ed inutile.
Un soccorritore ha riferito di essere giunto a pochi metri da Rayan.
Ha sentito che piangeva.
Non ha potuto andare oltre perché la cavità si restringeva a soli 20 centimetri; un imbuto che  prima, attutendo la caduta, gli ha impedito di morire, e poi di essere salvato.
Quale strazio la madre ha sopportato con il figlio che laggiù nel fango, seppellito nel buio e nel freddo, con quel pianto le stava domandando perché non veniva a salvarlo, sapendo di non potergli dare risposta!
Ed è la domanda di tutti i bambini amputati dalle schegge di una mina, o rinsecchiti dalla fame e dalla sete, o spiaggiati dalle onde di un naufragio. E con la stessa eco di silenzio.

Ma per Rayan c’è, se possibile, il peso in più di una grottesca fatalità con il padre che attonito, stordito, di certo si chiede quanto la sua fatica di procurare e sistemare un pozzo che garantisse acqua  per i campi, e questi sostentamento alla famiglia, non sia stata come se egli avesse predisposto una trappola, come se avesse scavato a suo figlio la fossa. Un amarissimo pensiero; ma non una colpa, che potrebbe semmai riguardare una disattenzione, una leggerezza, una sottovalutazione per non aver fatto fronte a quell’insidia.
E allora, se lì stesse la colpa, per le omissioni del pericolo, sarebbe comunque una conseguenza.
La colpa fondamentale di Khalid Awram, non è questa: è invece quella che senza saperlo egli condivide con tutti i padri e tutte le madri.
Una condivisione che la occulta, la disperde, la stravolge, fino a capovolgerla facendone motivo di orgoglio; come se la colpa per essere il peccato di tutti non fosse il peccato di nessuno: aver dato la vita senza essere onnipotente.

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Perché questa domanda si sarà fatto il padre di Rayan, la più stupida e la più improvvisamente e assurdamente vera: “Perché non sono onnipotente? Perché non posso disintegrare quell’ultima roccia che all’ultimo momento si è opposta alle escavatrici, alle trivelle, ai badili, alle mani, alla speranza?”
Tutti sanno che vi sono cose terribili che possono accadere anche al più prudente degli uomini.
Tutti sanno che tra esse ve ne sono di irrimediabili.
Eppure si accetta, quasi fosse un automatismo di natura che se vale per gli animali deve valere anche per l’uomo, l’azzardo di sfidare il destino. Che poi, certo, con una sofferenza diversa, non è una possibilità, ma per tutti una certezza: chi nasce muore e chi dà la vita dà la morte.
Siccome si può sopportare l’ignoranza ma non la verità, si fa di tutto per dimenticarlo e per farlo dimenticare.
Ma vi è una ragione per tutto questo? Se sì, quale?

FULVIO BALDOINO

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2 thoughts on “Su Rayan Awram, morto in un pozzo”

  1. Articolo bellissimo anche dal punto di vista stilistico-formale, nel senso che, qui, (come in un testo letterario) forma e contenuto non sono separabili, e questo succede raramente, , succede quando ogni parola, ogni frase e persino la punteggiatura è come se fossero incise non sulla pagina web ma su una lastra di marmo pario. La controprova è che non è possibile spostare alcunché nel testo di questo articolo lasciandone inalterato il senso complessivo , in questo caso, non è vero che cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia. E il risultato è che, partendo dall’esattezza ed essenzialità della cronaca di quella tragedia, l’autore per gradi, in una sorta di climax ascendente, passa .
    dalla descrizione oggettiva dell’accaduto, alle interrogazioni fondamentali sul senso della vita e della morte, sulla fatalità e sulla disperazione per una colpa involontaria, sulla casualità e sulla necessità che, misteriosamente caratterizzano ogni vita umana ( e anche animale. Mi viene in mente il verso leopardiano “è funesto a chi nasce il dì natale”). E infine la domanda senza risposta di Ivan Karamazoff a Dio sulla sofferenza incomprensibile di un bambino innocente. Ragione per cui, complimenti sinceri.
    Fulvio Sguerso

    1. Il tuo commento, soprattutto l’ aver colto in modo nitido l’esistenza di un climax di cui neanch’io ero del tutto consapevole, mi spinge a continuare con ancora più convinzione questo impegno su “Trucioli savonesi”.
      Sapere che tra i lettori ce n’è qualcuno attento ed acuto come te, non è un incentivo da poco.
      Fulvio Baldoino

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