Storia Savonese

Militanti di professione
 
Michelangeli, Roncagli e altri comunisti savonesi nelle carte di polizia (1920-1957)

 

Militanti di professione
 
Michelangeli, Roncagli e altri comunisti savonesi nelle carte di polizia (1920-1957)

Lo scopo di questo libro è delineare le biografie di Giovanni Michelangeli e di Leonida Roncagli e le indagini sull’organizzazione clandestina del PCI savonese degli anni ’30 attraverso le carte inedite di polizia conservate: nell’Archivio di Stato di Savona e nell’Archivio Centrale dello Stato (Roma-EUR).

Michelangeli e Roncagli erano due “militanti di professione”, quadri intermedi, dirigenti del Partito comunista d’Italia (sezione dell’Internazionale Comunista), non erano savonesi ma a Savona hanno vissuto ed hanno operato nell’ambito politico locale. L’attività di Michelangeli si sviluppò nel primo dopoguerra, nel cosiddetto “biennio rosso”, per poi continuare fuori dell’Italia con l’avvento del fascismo. Una vita avventurosa in Francia, in Spagna, negli Stati Uniti da dove venne espulso per tornare in Germania. A Savona non ritornò, morì a Parigi nel 1938. La carriera politica di Roncagli, iniziò a Bologna nello stesso periodo e come quella di Roncagli continuò a Parigi, finì a Savona nell’aprile 1934 con l’arresto di tutta l’organizzazione comunista locale (52 persone) da lui coordinata clandestinamente nei mesi precedenti.

 IMPORTANTE:

Ricordare:

che Trucioli Savonesi aveva pubblicato una scheda biografica di Michelangeli nel… numero 11… che la figlia Anna Michelangeli nata nel 1923 è ancora viva, sposò il partigiano “Gelo” Angelo Miniati e che la nipote Emanuela Miniati (pronipote di Giovanni) si è laureata:

Nata comunista. La storia di Anna Michelangeli, tesi di laurea triennale in Storia Contemporanea, Università degli Studi di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2005-2006.

Antifascisti in esilio. Famiglie savonesi a Parigi, tesi di laurea specialistica in Strumenti e metodi della storia contemporanea, Università degli Studi di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2008-2009.

Giovanni Michelangeli

Michelangeli e Roncagli erano due “militanti di professione”, quadri intermedi, dirigenti del partito comunista d’Italia (sezione dell’Internazionale Comunista), di quel partito nato dal grande albero del socialismo ottocentesco e subito allineatosi con il partito bolscevico che in Russia aveva preso il potere. I dirigenti hanno incarnato la militanza comunista novecentesca, la passione rivoluzionaria, un modo particolare di stare nella Storia che più di ogni altro ha incarnato la dimensione volontaristica del “fare” propria del XX secolo.

 Michelangeli e Roncagli sono stati “militanti provati” del Partito, messi alla prova dei fatti, portatori, all’esterno, dell’emancipazione e della liberazione, della capacità di resistenza e di opposizione alla dittatura e, all’interno, nello spazio esclusivo e sacralizzato che era il Partito, di una pratica esemplare di subordinazione monacale e di rinuncia di ogni autonomia individuale di fronte alla volontà dispotica del Centro. Talvolta, addirittura di fedeltà ad esso spinta fino all’abiezione, alla dissoluzione di ogni morale che non fosse quella dell’apparato, della macchina organizzativa.

Analizzando storicamente il loro substrato antropologico, troviamo che esso parte da lontano, addirittura dalla Rivoluzione francese. Perché una delle più significative conseguenze del 1789 è stata la nascita e la diffusione globale del potente mito della rivoluzione, concepita come rovesciamento del mondo rovesciato e come rigenerazione materiale e morale dell’Uomo tramite la costruzione di un Regno di Dio senza Dio. Da questo mito nasce il “rivoluzionario di professione”, che ha dedicato anima e corpo alla demolizione degli ordinamenti esistenti, tutti in qualche misura corrotti dallo spirito borghese e pertanto degni di perire.

Ma Michelangeli e Roncagli non erano “rivoluzionari di professione”, perché quando iniziarono la loro azione politica la Rivoluzione era già stata portata a termine in un paese: la Russia zarista. Se andiamo indietro e scandagliamo storicamente questo nuovo “tipo umano”, nato col XX secolo e con esso destinato a morire, dobbiamo constatare che il “militante rivoluzionario” era in realtà il prodotto assai specifico di tre grandi eventi storici .

Il primo è la guerra mondiale 1914-1918 che chiude il lungo Ottocento annunciando con il massacro di massa, che l’era delle masse era realmente incominciata.

Leonida Roncagli

 Il “militante rivoluzionario” nasce nelle trincee dove, per la prima volta in forma assoluta, le masse sono protagoniste e vittime. Nasce come “soldato”, avendo la guerra come orizzonte, come soldato ha la stessa disciplina, la stessa volontà di vittoria, lo stesso spirito di “mobilitazione totale”. Soldato di un esercito senza frontiere, universale, ma con uno Stato maggiore ben identificato e delimitato da confini stretti, da una identità ideologica nettissima. Il suo linguaggio è militare. Le sue gerarchie sono militari, persino la sua morale è militare, sempre sulle questioni di vita o di morte, sempre dominata dalla logica “amico/nemico”.

Il secondo evento storico è la Rivoluzione russa, conseguenza inaspettata della guerra. Luogo storico in cui, di colpo, troppo di colpo, la rivolta delle masse si fece Stato, si condensò e si congelò nelle forme rigide dello stato nazionale sovietico. Un nuovo Stato che fece della grande rete dei militanti comunisti, di quel gruppo eterogeneo di “sovversivi”, d’improvviso, un grande corpo di “uomini di Stato”, portatori della stessa “etica della responsabilità” che caratterizza gli uomini di governo, ognuno con l’anima spaccata tra sovversione e ordine, tra rivolta e comando, tra Piazza e Caserma. Ognuno costretto a cambiare abito e a riciclarsi velocemente con quella “forma-Stato” che fino a quel momento aveva incarnato l’immagine del nemico. O meglio, a identificarsi con essa, a farne l’inizio e al fine della propria azione per il fatto che le antiche figure, da sempre in antitesi assoluta, l’Operaio e lo Stato, si erano finalmente fuse nello “Stato Operaio”.

Infine il terzo evento, la nascita dei fascismi, che prolungò la guerra nella lotta politica. Che fece della politica un campo di battaglia feroce, spietato, e della clandestinità una condizione di sopravvivenza, portando le tecniche di sopravvivenza del singolo, ma soprattutto dell’organizzazione, dell’apparato, a presupposto ed essenza dell’azione politica. Ma già prima del sorgere dei fascismi era stata la partecipazione delle potenze democratiche alla guerra civile russa al fianco dei “bianchi”, dei controrivoluzionari, che aveva introdotto nella battaglia contro il comunismo un elemento specificatamente militare che la imbarbariva e che aveva offerto l’immagine di un mondo in armi mobilitato contro “la patria del socialismo”. Aveva costretto chi aveva trasformato la guerra in rivoluzione a percorrere il cammino a ritroso, a trasformare la rivoluzione in guerra, a inventarsi un “comunismo di guerra” che da stato eccezionale divenne ben presto normalità e poi modello, ad assumere come orizzonte del proprio operare quello della guerra civile. La vittoria dei fascismi europei generalizzerà ed assolutizzerà questa dimensione, ovunque, nel confronto con il Comunismo sarà una questione di persecuzione, tortura, carcere, delazione e morte. Costringerà i comunisti, ovunque si trovassero, a identificare senza residui, la sopravvivenza della propria identità e della presenza storica, con la difesa a oltranza del proprio Stato, lo “Stato Operaio”, dell’unica entità dotata del livello di potenza adeguato a contrastare un nemico assoluto, sospendendone ogni valutazione critica, addirittura considerando crimine ogni divergenza d’opinione. E di conseguenza a fare del Partito, l’unica ed esclusiva “comunità” di riferimento, perché sottoposti ad una clandestinità che lacerava ogni rapporto con la società circostante, ogni “legame” personale e famigliare. Partito non più strumento per trasformare il mondo, ma il mondo stesso, separati dal quale non solo non si “fa” ma non si “è”.

Michelangeli e Roncagli sono stati i quadri intermedi di un partito che, secondo Gramsci, doveva esistere con un compito preciso e permanente e doveva essere composto da tre elementi: la massa del partito, l’élite del partito e i quadri intermedi . La massa, che è costituita dagli uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina, dall’obbedienza e dalla fedeltà totali, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo. L’élite del partito cioè il ristretto gruppo dirigente, l’elemento coesivo principale, che centralizza nel campo nazionale, che fa divenire efficiente e potente un insieme di forze che lasciate a sé conterebbe zero o poco più. Infine il quadro intermedio che articola l’élite con la massa, che li mette in contatto, che li organizza, non solo fisicamente, ma moralmente e intellettualmente.

Come ingegneri di una fabbrica, i dirigenti “militanti di professione”, erano chiamati a mediare il progetto ideativo dei “rivoluzionari di professione” e il ruolo massificato esecutivo di un “esercito del lavoro” che sarebbe altrimenti disperso e dispersivo. Combinando tra loro tutti e tre i livelli si avrebbe avuto la possibilità di raggiungere il massimo di efficienza, costruendo, anzi “edificando”, la società socialista. Esemplari gli “eroi del lavoro”, coloro che stendevano oltre i limiti fisiologici le proprie capacità produttive, mobilitando l’immaginario collettivo interno al mito della produzione. Anzi essi erano molto di più, erano l’incarnazione stessa del Lavoro fattosi finalmente Storia. Del Lavoro diventato Soggetto con piena dignità, forza produttiva resasi autonoma dai vincoli degli antichi rapporti sociali e incorporatasi a tal punto nella forma-Stato da imprimervi il proprio sigillo e il proprio lessico: Stato del Lavoro, Stato Operaio…

Antonio Martino

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