Storia partigiana

Una storia partigiana più o meno inventata per il 25 aprile
PEPPIN
Un  racconto di Cristina Ricci

Una storia partigiana più o meno inventata per il 25 aprile
PEPPIN
Un  racconto di Cristina Ricci*

La Benedicta ora non esiste più. Era la cascina dove trovavano rifugio i partigiani. Dopo il loro eccidio i tedeschi la distrussero minandola. Dopo la liberazione i patrioti tornarono per costruire il monumento.
La figura di Maria risalta sul plaid steso nel prato. Tutti noi ci sediamo in cerchio.

Lei inizia. “Erano i giorni che precedono la Pasqua. Le donne lasciate a valle pregustavano già la festa. Nel loro piccolo si organizzavano per dare una degna accoglienza a quell’uomo che sarebbe certamente sceso a valle per un frettoloso saluto. Dal canto mio da settimane cercavo di risparmiare su quel che passava la tessera. Con enorme fatica ero riuscita a procurarmi qualche grammo di caffè barattato al mercato nero. Le uova per fortuna non erano un problema, nessuno aveva ancora deciso di requisirmi le galline. Sapevo che Peppin sarebbe sceso; se non lo avesse fatto avrei portato io in montagna qualcosa di speciale per festeggiare la Pasqua. I contatti tra valle e collina non si erano mai interrotti e neppure i rifornimenti. Non erano molte le donne pronte a correre il rischio ma io ero tra loro. All’alba, o sul far della sera lasciavamo la sicurezza della casa e ci incamminavamo per i boschi. Nella borsa poche cose, giusto qualcosa da poter barattare in cambio della tua sicurezza. Ben nascoste, tra gli abiti, portavamo invece un po’ di speranza. Poche righe dalla famiglia, spesso viveri,  più raramente dispacci militari e pezzi di armi.

 L’inverno era passato. La neve era stata copiosa e vivere nelle baite utilizzate l’estate dai pastori all’alpeggio non era stato facile. I nostri uomini si ritrovavano in questi boschi. Il loro comando era proprio laggiù; dove adesso vedete quell’ammasso di pietre. Quelli sono i ruderi della Benedicta”. Nonna Salice si asciuga gli occhi con il dorso della mano “Scusate. Mi riposo un attimo.” Silenzio.

“Ogni volta che vengo qui penso che poso i piedi dove camminava lui; dove magari è caduto, ucciso dalla pallottola.”

Beve un sorso d’acqua e lentamente ricomincia. “Dicevo, là c’era il comando partigiano. Voi non dovete immaginare un esercito. Li  dovete vedere per quel che erano. Ragazzi di città, studenti scappati da casa per evitare la leva. Pochi raggiungevano i venticinque anni. Tra loro qualche uomo. Alcuni idealisti venivano addirittura dall’estero. Quasi tutti erano disarmati. Da queste parti era facile possedere fucili da caccia ma non erano certo adatti alla guerriglia. Occorrevano armi vere: mitragliette, bombe a mano e magari qualche piccolo obice. Solo così si poteva contrastare la potenza dei blindati, scendere a valle e ricacciare i tedeschi a casa loro.”

Si ferma, accarezza un cane che si accovaccia ai suoi piedi. Tira il fiato e riprende “Era l’inizio della primavera; il momento adatto per acquisire nuove armi da utilizzare nella controffensiva estiva. Ma come procurarsele? I lanci alleati non erano sufficienti così, armati di enorme coraggio, scendevano a fare razzia nelle caserme. Il rischio era alto ma non si poteva altrimenti. Accadde anche in quei primi maledetti giorni d’aprile.”

Le donne presenti, quelle che possono ricordare annuiscono col capo. Si avvicinano tra loro, quasi a compattarsi, e come una nenia ripetono “Maledetto aprile”.  Maria sembra non  farci caso. Il ruolo di narratore l’assorbe ormai completamente “Certo non si aspettavano una reazione così massiccia e violenta. I libri di storia dicono che poco meno di cinquemila uomini furono impegnati nell’azione di rappresaglia. Fascisti e tedeschi circondarono non solo la nostra valle ma anche quelle vicine. Impiegarono autoblindo e carri armati”.

Anch’io ricordo le parole dei miei vecchi, che raccontavano di giorni e giorni chiusi in casa per il terrore delle frequenti rappresaglie contro i civili.

“In montagna c’erano meno di mille uomini, per la maggior parte ragazzi. Le armi non bastavano neanche per un decimo di loro. Il rastrellamento fu terribile. Proprio in questo luogo, prima della distruzione del quartier generale furono uccisi un centinaio di partigiani. Altrettanti erano morti poco prima in battaglia. Nei giorni a seguire altri quattrocento giovani vennero arrestati e deportati in Germania. Quasi nessuno ritornò. Per un attimo sembrò che la lotta partigiana fosse finita; paradossalmente fu proprio quell’episodio a far rinascere l’orgoglio; si riorganizzarono e tutto iniziò. I tedeschi fucilarono più di duecento giovani, inesperti e disarmati che non rappresentavano un pericolo ma lo sarebbero diventati in futuro. Pensarono che fosse meglio non correre rischi. Non riuscirono però ad smorzare l’ideale. I pochi sopravvissuti non rinunciarono. Non si lasciarono travolgere dalla paura. Peppin non c’era più, altri presero il suo posto e tennero alta la sua bandiera. Qui c’è un pezzo della nostra storia, qui le nostre radici. Distruggere tutto ciò non è possibile”.

Nonna Salice è esausta. I ricordi hanno ridestato l’antico dolore. I sentimenti sono vivi come non mai. Un fiasco passa di mano in mano fino a raggiungerla.

Gli anziani che partecipano al lutto intonano il loro inno di battaglia; a poco a poco le strofe di Bella Ciao risuonano nella valle.

 Tratto da “La montagna d’acqua”

**Cristina Ricci, quarantun anni, abita a Spotorno,  ha  pubblicato il suo primo romanzo (La montagna d’acqua – ed. Il Filo, Roma), un altro recentemente finito e tanta voglia di scrivere.
A questo “scarno” curriculum si può aggiungere la collaborazione con il blog dell’Udi Savonese per il quale Cristina Ricci ha scritto alcuni pezzi

 LE AMAZZONI Una nuova generazioni di donne

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