Stato di diritto

Viviamo ancora in uno Stato di diritto?
L’ECCEZIONE E LA REGOLA

Viviamo ancora in uno Stato di diritto?
L’ECCEZIONE E LA REGOLA
Che cosa distingue uno Stato di diritto da una monarchia assoluta o da un regime totalitario? O meglio, per entrare subito in argomento, viviamo ancora in uno Stato di diritto? E’ la domanda che molti cittadini di questo Paese che credono, o vogliono ancora credere, nella democrazia almeno formale garantita dall’ordinamento costituzionale della Repubblica, si stanno ponendo, e non solo in tempi di propaganda elettorale (ma da quando non lo siamo?), da almeno un quindicennio. Non sarà sfuggita all’attento lettore l’espressione “democrazia almeno formale”; non si tratta di un lapsus calami ma di una precisa scelta – qualcuno direbbe – di campo

Che cosa intendiamo dire con quell’”almeno”? Dovremmo forse accontentarci di esercitare i nostri diritti politici soltanto in ossequio alla “forma” e non anche, e soprattutto, per incidere sulla “sostanza” dei rapporti sociali e delle scelte di politica economica, culturale, scolastica, fiscale (per non parlare di quella internazionale)? Che cosa può valere una forma priva di sostanza? Giusta obiezione. Alla quale nondimeno è persino troppo facile rispondere con un’altra domanda, a nostro parere decisiva: in uno Stato di diritto è concepibile una sostanza senza forma? Si badi che qui “forma” non va confusa con “formalità”, ma significa, appunto, “norma”, cioè legge vincolante per tutti i cittadini, siano essi ricchi o poveri, giovani o vecchi, forti o deboli, in maggioranza o in minoranza (etnica, religiosa, linguistica, sessuale, ecc.). Ora, è pur vero che queste norme non sono comandamenti divini, sono anzi espressione di ben precisi orientamenti ideologici e, in termini marxisti, di interessi di classe; non per niente le costituzioni moderne nascono dalle rivoluzioni borghesi di fine Settecento. Ma che faremo per questo? Una nuova rivoluzione d’Ottobre? Non credo che gli attuali esaltatori della “sostanza” contro le detestate “procedure formali”, o gli agguerriti patrocinatori  delle “eccezioni” alle “regole”  che regolamentano, in questo caso, la presentazione delle liste, e che  imputano alle regole medesime il vizio anziché a chi avrebbe dovuto osservarle, come tutti, siano nipotini di Lenin o di Trockij. Allora a chi si ispirano? Forse alla “volontà generale” di Jean Jacques Roussau, di cui si faceva interprete Robespierre? Al sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel? Chissà: “Forse si sentono più a loro agio con la formula estado de opiniòn, usata nei regimi demo-autoritari sudamericani, per sottolineare il contrasto con lo estado de derecho, la tensione tra il governo dell’opinione di chi governa e il governo della legge.” (Nadia Urbinati, La Repubblica dell’11/03). Ma si tratta di regole spesso farraginose, incongrue, fatte apposta per favorire i partiti più “pesanti” e meglio organizzati e penalizzare i più piccoli e sprovveduti! Ah, tu  guarda: il maggior partito italiano se n’è accorto in corso d’opera! Come si può rimediare? Ecco fatto: un decreto “interpretativo” del governo. Ma il governo non dovrebbe rimanere al di fuori e al di sopra della competizione elettorale, non essendo esso un partito ma un organo dello Stato? Eh, quante mai cose si fanno che a rigore non si potrebbero fare, ma quando è in gioco un diritto politico come il diritto di voto, che sarà mai un decreto governativo ad hoc? Sarà ben possibile a un governo in carica far valere, una volta tanto, l’eccezione nei confronti della regola. E chi non ha i poteri del governo? Vinca prima le elezioni politiche, e poi si regoli di conseguenza. E le minoranze? Le minoranze si adegueranno. E se non si adeguassero? E perché non dovrebbero? Si sono già adeguate tante volte. Nella forma o nella sostanza?  Scegliete voi (se siete ancora in grado di scegliere).

 Fulvio Sguerso

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