Sono un reperto

Sono un reperto
Stanno costruendo il museo della pellicola, a Cairo, un punto di incontro di memorie, reperti e storia sociale di quel che è stato lo stabilimento Ferrania in quasi un secolo di vita.

Sono un reperto

 Stanno costruendo il museo della pellicola, a Cairo, un punto di incontro di memorie, reperti e storia sociale di quel che è stato lo stabilimento Ferrania in quasi un secolo di vita.


Ho provato a curiosare più di una volta attorno al progetto, visto che in quella fabbrica ci ho passato vent’anni. Il suo curatore, Gabriele Mina, ha sempre dimostrato con me ed i miei ex colleghi di lavoro, non solo accondiscendenza, ma una disponibilità e una cortesia non comuni, verrebbe da dire una buona pazienza. Dopo mesi e mesi di lavoro, di raccolta, di visite e accumulo di materiali, fotografie, memorie, pannelli pubblicitari, marchingegni e documenti diversi, si è giunti praticamente in porto. I materiali, dunque, ci sono. Anche se c’è da scommetterci, che gran parte del patrimonio si trova diffuso, a casa degli ex lavoratori, magari anziani, che nel momento di andarsene in pensione hanno salvato una immagine, un disegno, un oggetto per loro significativo di una vita passata a “luce controllata”.

Lo stesso Mina, a noi ex dipendenti, ci ha contattato per sapere se saremmo stati disponibili a versare le nostre memorie in una telecamera, con la complicità professionale del “Laboratorio Buster Keaton”, domiciliato presso il Campus di Savona, progetto diretto dal dottor Diego Scarponi. In breve s’è formato un calendario con alcune decine di dipendenti e poi, a turno, siamo andati nel luogo convenuto, dove in una sala attrezzata e illuminata, abbiamo raccontato ognuno la sua storia.


Io ho già provato, un tempo, a raccogliere testimonianze orali. Se riesci a creare un clima abbastanza tranquillo e naturale, una corrente, come dire, di sobria confidenza tra intervistato e intervistatore, allora ogni persona che racconta ha sempre da dire cose interessanti. Affascinanti, se è abile a raccontare. Non si può pretendere che dica la verità, o che quella che porge sia una visione oggettiva delle vicende che ha vissuto. Ma qui sta la forza della testimonianza: parliamo di accadimenti, di ricordi e di emozioni propriamente legati all’intervistato, alla sua esperienza, ai filtri che utilizza per leggere la realtà, al quanto e come vorrebbe strumentalizzare le parole che lascia registrate, ben sapendo che a loro volta potrebbero essere strumentalizzate, cioè usate per avvalorare teorie che non vorrebbe riconoscere.

Se un testimone percepisce questa serie di considerazioni come un rischio, finisce per ritrarsi, per rifiutarsi di parlare davanti a una telecamera. Quasi tutti accettano di parlare, ma tutto sommato pochi sono disposti a farsi registrare. C’è un motto latino arcinoto il quale dice che le parole parlate volano, e quelle scritte rimangono. Non ha un significato univoco e chiaro: se le parole volano, significa che viaggiano, che non sono più nostre, che entrano in contatto con altre parole, altra gente, altre idee e non sappiamo quello che possono generare. Le parole scritte, spesso, rimangono ancorate a un foglio, sottile ma pesantissimo, che finisce in un libro (talvolta) ancora più pesante. Spesso, da quel libro, non vengono più fuori, restano concrezionate lì, come certi pesci scoperti dopo milioni di anni, fra strati di roccia.


Ho avuto modo di ascoltare due testimonianze di ex colleghi. Entrambi sono stati molto chiari, ed hanno parlato del loro lavoro con un rispetto e una gratitudine particolari. Si trattava in entrambi i casi di dirigenti, comunque di impiegati di alto livello, coloro i quali la Ferrania ha sempre trattato con riguardo, dando loro autonomia operativa, responsabilità, benefits e uno stipendio adeguato.

Sono curioso, ora, di ascoltare le altre testimonianze, quelle degli operai, considerati fino agli anni Ottanta la cosiddetta “aristocrazia” delle fabbriche della Val Bormida. Anche fra gli operai troveranno parole di rispetto e gratitudine, perché il lavoro era interessante, lo stipendio discreto, l’ambiente di lavoro cordiale. Ma è dagli operai che ci si può aspettare la critica aperta e verosimile, se non vera del tutto, ad un sistema di cose che, lento e inesorabile, è tramontato.

Non solo Ferrania non è più quella degli anni Settanta (quattromila dipendenti, più l’indotto), ma neppure la Montecatini, la Cokitalia, l’ACNA, per altri versi neppure le vetrerie.


 Mentre io parlavo di fronte alla camera, mentre dicevo la mia verità, mi son tornati in mente brani di discorso che avevo cominciato proprio con il curatore del museo, Gabriele Mina, sul fatto che non si riesce a parlare a cuor leggero di questa storia. Come se ci fosse una ferita lacera, sanguinante, non rimarginata, che non riguarda tanto la pur importante questione del posto fisso, dello stipendio. Abbiamo assistito a un tramonto, alla fine di un’era, ne eravamo protagonisti, non possiamo dirci completamente responsabili.

Che la gente non faccia più foto sul rullino è palese (come non si usano quasi più CD, o video o audio cassette) ma quel che ci brucia, quel che notiamo, è che in questa Valle sono passati nel giro di una quarantina d’anni (nel dopoguerra, per intenderci) tanti soldi e soprattutto tante conoscenze tecniche, teoriche e pratiche. Di questi patrimoni, noi tutti, non abbiamo mai sentito il bisogno di risparmiarli, di detenerli, di farli veramente nostri.

In una cittadina come Ceva è nato il Banco Azzoaglio. In alcuni paesi piemontesi, grazie a un’agricoltura fiorente e ad un commercio vivo, sono nate altre piccole banche, come le Casse Rurali e Artigiane.


Il renderig del museo

A Cairo no. Avevamo la Carisa, e tanto ci bastava. Possibile?

A Ferrania c’era un centro di ricerca ambito da fior di laureati in chimica, ma non siamo riusciti neppure a pensare di formare una scuola di alta specializzazione chimica, magari fotografica, ma non solo. Così come i costruttori d’impianti, tanto ingegneri quanto saldatori e carpentieri, potevano basarsi una scuola professionale, tutto sommato appena sufficiente rispetto alle professionalità che quelle industrie desideravano.

Queste cose ho detto alla camera. Non so quanto mi sia fatto intendere. Vedremo quando ci forniranno il filmato completo di montaggio.

Spente le luci, fermato il motore, salutato i gentilissimi ragazzi del Lab Keaton, me ne sono tornato a casa, solitario, pensando alle occasioni perse per un territorio, alla grandissima responsabilità che abbiamo avuto (ad ognuno la sua), a questa vicenda incompleta, ancora tutta da digerire. 

ALESSANDRO MARENCO

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