Shoganai

È un gabbiano reale, un grande gabbiano adulto.
Quattro ore di viaggio e sto arrivando in macchina all’Argentario, da solo, con una camicia appesa tra i sedili posteriori pronta a sostituire la maglietta prevedibilmente sudata, e ancora più dietro – ormai ‘dentro’ – un bagaglio leggerissimo e ingombrante, fatto di storie e nozioni raccolte in due anni di letture.
È l’appuntamento più importante dell’anno per me, forse non solo di quest’anno. Sono persino partito presto (raro) e marco un anticipo di quasi un’ora (rarissimo).

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Eppure, come se non fosse consapevole del brutto tiro che mi sta giocando, quello che sta atterrando davanti alla calandra della mia auto lanciata a 70 all’ora è proprio un grande gabbiano adulto, nel pieno di una perfetta manovra che lo porterà esattamente nel posto sbagliato, cioè dritto davanti alle mie ruote.
Non è un piccolo cucciolo di seagull dal piumaggio scuro e dal temperamento ancora non troppo superbo: è proprio un adulto, bianco e maestoso, il cui sguardo torvo si palesa in un piccolo movimento della testa ed in un più ampio movimento delle ali, che lo portano a disporsi quasi perpendicolare al mio arrivo.
Non ha tempo, né modo, di tentare un nuovo decollo, lo sappiamo entrambi.
Può solo guardarmi con gli stessi occhi con cui io sto guardando lui, stupefatti e indignati ad un tempo.
Lui viene senz’altro dal mare, mentre io vi ci vorrei andare: ma non nello stesso suo.
Sono arrivato all’Argentario seguendo le tracce di un sogno, un giro del mondo a vela, dall’Europa ai mari del sud e ritorno, in un’avventura che nonostante due anni di letture non merito affatto, ma nella quale confido con tutto me stesso. Le selezioni a cui devo partecipare sono previste l’indomani.
Il gabbiano, atterrito, sta per finire dove non potrò più vederlo, appena sotto il bordo del parabrezza e dunque – inevitabilmente – sul radiatore della mia auto, mentre penso che non si tratta di un animale qualsiasi, ma è invece l’animale numinoso che conobbi nel Mare del Nord un anno fa, il messaggero dell’oceano che ho inseguito e fotografato sulle alte scogliere, e che da allora molto, molto si è allungato nella mia fantasia.
Io forse sono un gabbiano, a volte ho pensato.
Mi fermo a lato della strada e scendo, atterrito.
Giro intorno all’auto cercando il suo corpo, ma non lo trovo schiantato sul paraurti, e neppure incastrato sotto, tra le fenditure del pianale. Guardo nella direzione da cui provenivo e sulla strada è rimasta solo qualche piuma, che velocemente il vento disperde. Torno indietro a piedi e cerco a lungo ai lati della strada. Non lo vedo, cerco ancora, più distante. Alla fine mi arrendo all’evidenza: non c’è nessuna traccia del gabbiano. Il mio amico, non so come, l’ha scampata.
Di attraversare con un solo volo l’oceano infinito, per lui, evidentemente, non era ancora arrivato il momento.
Neppure il mio di solcare con un 60 piedi i miei sogni, avrei scoperto presto.
Vorrei ringraziare comunque chi mi ha fatto sognare così vividamente un viaggio oceanico (Translated9, Marco Trombetti), chi ha organizzato tutto con capacità e calore umano (Chiara Sansoni Chiara Pantani Marco, Nico Malingri), Morgana, Jasiek Żurek, Lilith e i compagni conosciuti alle selezioni, Cristina per l’inestimabile sostegno e, infine, chi mi ha fornito buone letture, ottimi consigli ed un meraviglioso “cattivo esempio” (Beatrice Calandria, Michele Carbone, Giorgio Bruno, Antonio Barbucci, Marco Berta).
Come si dice per le montagne, il Grande Sud rimane lì. E chissà che un giorno…

Delfo Pozzi

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